Anno XXXVIII, 1996, Numero 2, Pagina 91
Il Club di Firenze e la Conferenza intergovernativa per la revisione del Trattato di Maastricht
SERGIO PISTONE
1. Il Rapporto che il Club di Firenze[1] ha pubblicato poco prima dell’apertura, avvenuta a Torino il 29 marzo 1996, della Conferenza intergovernativa per la revisione del Trattato di Maastricht (CIG-96) costituisce uno dei contributi più approfonditi e sistematici al dibattito sulle scelte che il processo di integrazione europea deve affrontare in questa fase. Tutte le questioni cruciali vi vengono prese in considerazione e, proprio per la sua completezza, anche se questo testo contiene a mio giudizio, accanto a tesi molto convincenti, dei rilevanti punti deboli, la sua analisi critica permette di fare il punto sulla problematica dell’unificazione europea e può contribuire a chiarificarne alcuni aspetti fondamentali.
Il motivo ispiratore centrale del Rapporto è la convinzione che la CIG-96 si trova di fronte a delle sfide esistenziali: o esse troveranno una risposta in una radicale riforma istituzionale in senso federale, o altrimenti si aprirà la strada alla dissoluzione del processo di integrazione europea e al riemergere delle tentazioni egemoniche del passato.
C’è anzitutto la sfida dell’Unione economica e monetaria (UEM). Da una parte il passaggio alla terza fase dell’UEM, sia pure senza la partecipazione fin dall’inizio di tutti gli Stati membri, costituisce la condizione imprescindibile per il completamento del mercato unico — strutturalmente precario finché ci saranno politiche monetarie nazionali indipendenti — e per garantire uno sviluppo economico non drogato dall’inflazione e dagli assistenzialismi, bensì fondato su una moneta solida, in quanto gestita da una autorità indipendente dagli organi politici nazionali ed europei, e su finanze sane. D’altra parte la marcia verso la moneta unica deve essere accompagnata — se non si vuole programmare il suo fallimento — dalla realizzazione parallela di forti politiche macroeconomiche comuni e da un conseguente aumento delle finanze comuni. E ciò essenzialmente per garantire una più sostanziale coesione economico-sociale fra paesi forti e paesi deboli, per evitare che il problema enorme della disoccupazione strutturale venga affrontato con divergenti politiche nazionali dell’occupazione, che avrebbero conseguenze disgregative dell’integrazione economica e monetaria, e per permettere all’Unione europea di pilotare l’Europa sulla via della ripresa in un’economia mondiale sempre più dinamica e agguerrita. Pertanto il previsto trasferimento di sovranità a livello europeo nel campo monetario deve essere improrogabilmente accompagnato dal superamento del principio dell’unanimità nel campo delle politiche macroeconomiche (in particolare fiscali e di bilancio).
La questione dell’UEM è strettamente collegata a quella della sicurezza interna. La soppressione di ogni controllo alle frontiere interne sul movimento di merci, capitali, servizi e persone rende la realizzazione di una efficace cooperazione negli affari interni e di giustizia una necessità non più rinviabile, la cui mancata attuazione rende inevitabili il mantenimento e/o il ripristino dei controlli alle frontiere interne, con evidenti pericolosissimi arretramenti rispetto alle acquisizioni nel settore del mercato unico. D’altro canto le disposizioni del Trattato di Maastricht in tema di sicurezza interna appaiono agli autori del Rapporto del tutto inadeguate, sicché una loro seria riforma è una delle condizioni ineludibili per evitare che l’integrazione economica sia messa in scacco dalle spinte nel senso della rinazionalizzazione.
Oltre alla sfida rappresentata dalla realizzazione dell’UEM, con il connesso problema della sicurezza interna, l’Unione europea si trova di fronte alla cruciale sfida della sicurezza esterna, diventata particolarmente attuale in seguito alla dissoluzione del sistema bipolare. Il crollo del blocco sovietico ha indotto la fine della guerra fredda e della connessa minaccia di una aggressione militare in grande stile ed ha aperto grandi possibilità di espansione del sistema democratico e dell’efficienza economica, ma ha nello stesso tempo prodotto un vuoto di potere in cui hanno trovato ampio spazio le tendenze alla disgregazione nazionalistica. I fenomeni di balcanizzazione che sono emersi nell’Europa centro-orientale e nell’ex-URSS minacciano la sicurezza dell’Unione europea in modo diretto, ma anche, e assai pericolosamente, in modo indiretto, per le implicazioni disgregative che può indurre il trasferimento dall’Est all’Ovest di milioni di profughi e di emigranti (e, io aggiungerei, anche del contagio nazionalistico).
A questa sfida si può dare una valida risposta, secondo il Club di Firenze, operando su due piani. Da una parte occorre allargare rapidamente l’Unione europea ai paesi dell’Europa centro-orientale (oltre che a Cipro e Malta), in modo da estendere a quest’area le implicazioni, in termini di progresso economico-sociale e democratico e di stabilizzazione, che il processo di integrazione ha indotto nell’Europa occidentale. Il passaggio da quindici a circa una trentina di Stati membri creerebbe però chiaramente una situazione totalmente ingovernabile con le attuali istituzioni e pertanto ogni ulteriore allargamento deve essere rigorosamente preceduto da un profondo rinnovamento istituzionale. Dall’altra parte occorre attuare una autentica politica estera e di sicurezza comune, in modo da permettere all’Unione europea di contribuire efficacemente alla prevenzione e pacificazione dei conflitti interetnici e allo sviluppo e alla stabilizzazione dell’area dell’ex-URSS.
Una autentica politica estera e di sicurezza comune deve essere rapidamente realizzata anche perché la fine dello stato di emergenza permanente rappresentato dalla guerra fredda ha condotto gli USA ad accordare priorità ai loro problemi interni e a limitare drasticamente il loro impegno in Europa, il che comporta una ristrutturazione della NATO imperniata su un decisivo rafforzamento della sua componente europea. Inoltre solo un’Unione europea capace di agire efficacemente sul piano internazionale può fare la sua parte di fronte a minacce di rilevanza globale, collegate al fondamentalismo religioso, alla pauperizzazione generalizzata, alla spinta demografica, alla pressione migratoria, alla crisi degli equilibri ecologici, e fornire quindi il suo apporto indispensabile al diffondersi, in un mondo sempre più interdipendente, di quelle acquisizioni, in termini di benessere e di pace, che sono state rese possibili, in Europa, dal processo di integrazione sopranazionale.
Le radicali riforme istituzionali in direzione federale dell’Unione europea che il Rapporto propone vengono infine concepite anche come la risposta improrogabile alla crisi di legittimità che il processo di unificazione europea attraversa da qualche anno, e di cui in modo particolare il difficile processo di ratifica del Trattato di Maastricht ha messo in luce la profondità. Poiché l’opinione pubblica reclama, come indicano tutti i sondaggi, un’Europa gestita in modo più trasparente e democratico e che sia nello stesso tempo più efficace e ricettiva rispetto a problemi ritenuti prioritari, come la disoccupazione e la sicurezza interna ed esterna, solo progressi in direzione federale appaiono in grado di rispondere a questa aspettativa, mentre l’opzione a favore di un sistema intergovernativo fondato sul principio dell’unanimità porterebbe semplicemente alla paralisi decisionale e, quindi, a un’irrimediabile frattura fra opinione pubblica e costruzione europea.
2. Le concrete riforme istituzionali che, sulla base di questa complessivamente assai valida visione delle sfide esistenziali con cui si confronta il processo di integrazione europea, vengono proposte dal Club di Firenze sono definite sulla base di due idee direttive. Anzitutto c’è l’opzione per un salto qualitativo federale piuttosto netto e immediato in riferimento al pilastro comunitario del Trattato di Maastricht e un approccio più cauto e gradualistico per quanto concerne invece il superamento delle procedure puramente intergovernative nel secondo (Politica estera e di sicurezza comune — PESC) e nel terzo pilastro (Cooperazione negli affari interni e di giustizia). In secondo luogo si precisa che le riforme istituzionali di cui l’Unione europea ha bisogno devono andare nella direzione di maggiore democrazia e di maggiore efficacia, ma non devono essere concepite come dirette alla creazione di un super Stato europeo centralizzato. Si tratta cioè di consolidare la doppia legittimità dell’Unione, quella fondata sulla volontà degli Stati e quella fondata sulla democrazia sopranazionale. Quest’ultima pertanto, pur dovendo essere organizzata su base federale, non deve riprodurre a livello comunitario la legittimità delle istituzioni statali e quindi non deve svilupparsi in una statualità sopranazionale, che inevitabilmente svuoterebbe gli Stati nazionali e impedirebbe il formarsi di una democrazia pluralista sul piano europeo. A questo proposito si giunge a dire che non si deve parlare di costituzione europea, bensì di «Carta dell’Unione europea», perché il concetto di costituzione è generalmente associato a quello di Stato e quindi moltiplicherebbe i timori di chi già oggi paventa che l’Unione europea finisca per soppiantare gli Stati che la compongono.
Venendo alle proposte concrete, mi soffermo solo su quelle relative al primo e al secondo pilastro del Trattato di Maastricht, che mi sembrano le più significative, limitandomi a ricordare che la linea riformatrice indicata per il terzo pilastro è quella di una sua graduale e parziale comunitarizzazione.
Per quanto riguarda il pilastro comunitario gli aspetti che meritano di essere segnalati sono i seguenti.
Circa il Consiglio dei Ministri, si propone la generalizzazione del voto a maggioranza, precisando che deve essere introdotto il principio della doppia maggioranza (degli Stati e della popolazione), che la maggioranza qualificata deve essere normalmente dei due terzi, che si deve peraltro prevedere una maggioranza superqualificata dei tre quarti in settori quali la fiscalità, le risorse proprie, le nomine che devono essere effettuate dal Consiglio o di «comune accordo» dagli Stati membri (come nel caso della Commissione), l’ammissione di nuovi Stati, la revisione dei trattati.
Circa il Parlamento europeo, i punti più importanti sono: la realizzazione piena del principio della codecisione con il Consiglio nella legislazione e nel rapporto con la Commissione, l’introduzione di una procedura elettorale uniforme, la fissazione del limite insuperabile di settecento membri per quanto concerne l’aumento degli europarlamentari connesso con i prossimi allargamenti.
Circa la Commissione, si propone anzitutto, sia per esigenze di funzionalità che in vista dell’allargamento, che essa abbia un numero di componenti (dodici o quindici) rapportato ai compiti e non al numero degli Stati, e che, pertanto, si abbandoni il principio che ogni Stato debba avere almeno un commissario. Questa innovazione, già prevista per il Direttorio della futura Banca centrale europea (che sarà composto da sei membri nella Comunità a quindici), dovrebbe essere applicata anche alla Corte di giustizia e alla Corte dei conti. Si ritiene in secondo luogo che, pur dovendosi decisamente rafforzare i poteri del Parlamento europeo, non si debba giungere a una piena parlamentarizzazione della Commissione, dal momento che il mantenimento di un grado piuttosto alto di autonomia dell’esecutivo nei confronti del Parlamento appare più funzionale all’equilibrio istituzionale di una federazione fortemente decentrata, fondata sul principio della doppia legittimità, statuale e democratica. Pertanto si propone che la Commissione sia responsabile politicamente non solo di fronte al Parlamento, ma anche di fronte al Consiglio (il che oltretutto renderebbe più accettabile il fatto che non tutti gli Stati abbiano propri cittadini nella Commissione), e che, di conseguenza, la mozione di censura sia disciplinata da procedure analoghe a quelle adottate per la nomina della Commissione.
Per quanto riguarda infine l’amministrazione comunitaria, si sostiene che essa non deve essere sostanzialmente ampliata, onde evitare lo sviluppo verso un super Stato centralizzato, e che si deve piuttosto migliorare la cooperazione fra l’amministrazione europea e quelle nazionali che hanno, nella maggior parte dei casi, il compito di applicare in concreto le decisioni prese a livello comunitario. Quale strumento fondamentale per migliorare la cooperazione fra amministrazione comunitaria e amministrazioni nazionali — evitando che venga messo in discussione il principio del decentramento alle amministrazioni nazionali, ma anche che l’autonomia di queste ultime porti a pratiche che mettano in pericolo il mercato unico — si propone l’istituzione di agenzie comunitarie specializzate, sul modello dell’Agenzia europea per l’ambiente, dirette a garantire la compatibilità delle politiche nazionali (anche con sistemi di ispezione e valutazione delle stesse) con le regole comunitarie e assicurare così la loro efficacia, evitando eccessivi appesantimenti burocratici.
Venendo alla PESC, la proposta più significativa del Club di Firenze è di istituire un commissario speciale di essa incaricato, che verrebbe nominato dal Consiglio europeo in accordo con il Parlamento e con il presidente della Commissione. Il commissario in questione sarebbe membro a pieno titolo della Commissione, ma individualmente responsabile davanti al Consiglio europeo e sottratto alla disciplina collegiale della Commissione al fine di fruire di una totale libertà nei suoi rapporti con le capitali nazionali. La proposta è integrata da quattro ulteriori innovazioni che sono: l’introduzione di un sistema decisionale maggioritario accompagnato da una clausola di opting out; la creazione di una cellula di analisi e pianificazione sotto l’autorità congiunta della Commissione e del Consiglio; il principio secondo cui la rappresentanza per gli aspetti politici delle relazioni esterne spetta alla presidenza del Consiglio, la quale però sarà affiancata dal commissario europeo competente per la PESC, in modo da offrire agli interlocutori stranieri quel punto di riferimento stabile che è attualmente assente; la riforma dell’attuale sistema di rotazione semestrale della presidenza del Consiglio, introducendo una presidenza collettiva assicurata da quattro paesi per un anno e organizzando i gruppi di presidenza in modo da assicurare l’equilibrio tra grandi, medi e piccoli Stati.
Il discorso sulla PESC è completato da alcune indicazioni di notevole interesse sulla difesa. Qui si parte dalla giusta considerazione che la difesa europea non può, in questa fase, essere costruita né nel quadro dell’UEO, che ha preferito l’allargamento all’approfondimento, e neppure in quello della stessa Unione europea, perché numerosi Stati membri non sono propensi per ora a riconoscerle poteri nel campo della difesa. Pertanto la sola strada che può condurre a progressi reali è considerata quella di realizzazioni concrete, anche con trattati ed accordi ad hoc, fra i paesi che abbiano la volontà di andare avanti e di costruire realmente il pilastro europeo della NATO. Si dovrebbe in sostanza avere come modello l’esperienza dei rapporti fra OECE e CEE negli anni ‘50. Allorché si è voluto allora passare dalla proclamazione in termini di principio, con la creazione dell’OECE, dell’esigenza dell’integrazione economica all’azione concreta, si è in effetti istituita la CEE, che, partendo da un nucleo iniziale di sei membri, si è poi progressivamente estesa alla maggior parte dei paesi europei.
La fondamentale iniziativa concreta diretta a costruire gradualmente ma effettivamente la difesa europea è individuata nella istituzione, sulla base di un trattato ad hoc fra i paesi disponibili di una Agenzia europea degli armamenti, incaricata di organizzare la produzione dei materiali con cui dovranno equipaggiarsi le forze armate dei paesi partecipanti, con esclusione degli armamenti nucleari. Questo organismo dovrebbe essere fornito di un bilancio comune ed essere dotato, attraverso uno sviluppo in tre fasi, di strutture analoghe a quelle che il Trattato di Maastricht prevede per l’UEM. Parallelamente alla costruzione dell’Agenzia degli armamenti dovrebbe essere portata avanti la creazione di strutture militari integrate, sviluppando iniziative quali l’istituzione dell’Eurocorpo (che già raggruppa truppe francesi, tedesche, belghe, lussemburghesi e spagnole), la decisione da parte di Francia, Italia, Spagna e Portogallo di creare forze multinazionali, la cooperazione nel campo dell’addestramento, delle operazioni, dei mezzi di comunicazione e informazione, e così via. Lo sbocco di queste iniziative e di questi sviluppi dovrebbe essere a un certo punto la creazione di un apparato politico per decidere in merito all’impiego delle forze integrate e degli armamenti prodotti in comune. Gli autori del Rapporto considerano peraltro prematuro prevedere, allo stadio attuale, le strutture e le caratteristiche precise che questo apparato dovrebbe avere e ritengono che, essendo il cammino in direzione della difesa comune ancora assai lungo, convenga limitarsi all’individuazione dei primi passi, che però debbono essere compiuti senza indugi. Se peraltro si collega l’affermazione, fatta in questo contesto, secondo cui la difesa è uno dei capisaldi del concetto stesso di Stato, con la tesi secondo cui la costruzione europea non è destinata a sboccare in uno Stato sopranazionale, si può arguire che essi non ipotizzino, nello stadio finale della difesa comune, un vero e proprio trasferimento di sovranità paragonabile a quello previsto nel settore economico-monetario.
3. Sulle riforme istituzionali — di cui abbiamo visto gli aspetti più significativi — proposte dal Club di Firenze e in particolare sull’orientamento di fondo che le ispira ritengo che si debba esprimere un giudizio complessivamente positivo, ma con alcune riserve. E’ pienamente condivisibile la differenziazione fra il riformismo federalista radicale applicato al pilastro comunitario e l’approccio più cauto e gradualistico proposto in riferimento al secondo e al terzo pilastro. In effetti sul terreno dell’UEM, cioè del completamento dell’integrazione economica, è non solo necessario, ma anche politicamente realizzabile un salto qualitativo in senso federale in tempi brevi. Qui è concretamente in gioco l’acquisizione definitiva del mercato unico (con i formidabili interessi che vi sono ormai coinvolti), la quale richiede imperiosamente non solo la gestione federale della moneta unica, ma anche meccanismi decisionali federali e democratici nel campo delle politiche macroeconomiche. Di conseguenza una valida impostazione strategica deve su questo punto concentrare le forze ed evitare impegni eccessivi sui fronti per ora secondari che non farebbero che indebolire la forza dell’offensiva principale.
Certo, sono fin d’ora indispensabili, per le ragioni sottolineate dal Rapporto, progressi più limitati ma effettivi anche nei settori della PESC e della sicurezza interna. Non siamo però in questi casi in presenza di impasses così pressanti e tangibili da offrire chanches reali (a meno che non intervengano improvvisi cambiamenti qualitativi di situazione) di superare le resistenze a un effettivo trasferimento di sovranità. Se dunque è consigliabile per ora un atteggiamento più prudente in questi settori, per non indebolire la pressione sul fronte decisivo, sembra d’altro canto evidente che la realizzazione di un reale trasferimento di sovranità nel campo economico-monetario — arduo ma possibile in tempi brevi, purché ci sia un impegno adeguato — porterebbe ad una situazione di irreversibilità dell’unificazione europea e aprirebbe pertanto la strada ad un trasferimento di sovranità nella fase immediatamente successiva anche nei settori coperti dal secondo e dal terzo pilastro.
Quindi anche nel caso della difesa, che è un aspetto fondamentale della politica estera e di sicurezza, finirebbe per realizzarsi un trasferimento di sovranità, anche se il Club di Firenze sembra escluderlo. In effetti una situazione in cui esistesse, da una parte, una moneta unica gestita da una autorità sopranazionale e un sistema di governo economico europeo in grado, tra l’altro, di decidere a maggioranza (sia pure e giustamente superqualificata) sulle dimensioni del bilancio, e, dall’altra parte, una difesa comune con armamenti comuni e truppe integrate, ma con diritto di veto da parte di ciascun governo all’uso delle proprie truppe, diventerebbe rapidamente insostenibile. L’uguaglianza di diritti e di doveri e la solidarietà in campo economico-monetario non sarebbero cioè compatibili con la disuguaglianza di diritti e di doveri e la mancanza di solidarietà nel campo militare. Da questa situazione contraddittoria (in cui i paesi che si impegnassero in azioni militari pretenderebbero inevitabilmente compensazioni sul piano economico dai paesi militarmente disimpegnati, con evidenti implicazioni conflittuali e disgregative) si potrebbe uscire solo regredendo alle pratiche intergovernative anche nel campo economico-monetario o estendendo la federalizzazione anche alla difesa (ivi compresi ovviamente gli armamenti nucleari, nella misura in cui conserveranno ancora un ruolo nella difesa militare). E che la seconda ipotesi sarebbe decisamente la più probabile dipende non solo dal fatto che con la realizzazione dell’UEM risulterebbero enormemente rafforzati gli interessi favorevoli all’avanzamento dell’integrazione, ma altresì dall’affermarsi, se passeranno le riforme istituzionali sostenute dal Rapporto, di un sistema di revisione dei trattati fondato su decisioni a maggioranza (sia pure superqualificata) e non più sull’unanimità.
Se, con questa precisazione, mi sembra condivisibile la strategia riformatrice proposta dal Club di Firenze, mi sembra altresì condivisibile l’opzione a favore di un federalismo fortemente decentrato fondato sul principio di sussidiarietà. Un’opzione che si esprime in particolare, come si è visto, nella preferenza per una amministrazione sopranazionale leggera, e correlativamente per un bilancio limitato, nel ruolo molto rilevante che viene assegnato alle maggioranze qualificate e superqualificate, nel principio della doppia responsabilità della Commissione, nei confronti cioè sia del Parlamento che del Consiglio.
Il rifiuto di una piena parlamentarizzazione dell’Unione europea, che si manifesta in quest’ultima indicazione e anche in altre, corrisponde alla giusta esigenza di evitare che dall’attuale situazione di squilibrio a vantaggio dell’organo che rappresenta gli interessi dei singoli Stati — una situazione che ha implicazioni negative sul piano dell’efficienza e della democrazia — si passi ad una situazione di squilibrio a vantaggio dell’organo chiamato a perseguire l’interesse dell’insieme — il che comporterebbe seri pericoli centralistici. Al di là di questo aspetto particolare, la preoccupazione anticentralistica del Club di Firenze appare in generale pienamente fondata tenendo presente che, se il processo di integrazione non sarà bloccato e quindi si estenderà gradualmente fino ai confini della CSI, esso è destinato a sboccare in una federazione di oltre mezzo miliardo di abitanti (600 milioni se verrà coinvolta anche la Turchia). In una comunità così ampia e con differenziazioni interne (anche in termini culturali) così profonde un federalismo centralizzato, sul modello delle federazioni esistenti, sarebbe un sistema di governo chiaramente inadeguato e finirebbe fatalmente per produrre reazioni disgregative.
Ciò detto, mi sembra d’altra parte che il rifiuto di una Unione europea troppo centralizzata vada fuori segno quando si giunge a negare che le riforme istituzionali proposte dal Rapporto abbiano come obiettivo ultimo la costruzione di uno Stato sopranazionale. In effetti il Club di Firenze propone un’Unione europea dotata di una politica monetaria centralizzata, di poteri di governo nei settori strategici della politica economica, del compito di assicurare la difesa comune che, pur fondato all’inizio su un meccanismo confederale, è destinato a evolvere per le ragioni prima ricordate verso un sistema pienamente federale. Propone in altre parole che l’Unione europea erediti i compiti fondamentali che prima erano attribuiti alla competenza esclusiva degli Stati nazionali, i quali però non devono scomparire bensì continuare a svolgere compiti importanti, benché più limitati, nell’ambito della nuova compagine. Ma ciò significa precisamente costruire uno Stato europeo di carattere federale, e cioè, secondo un insegnamento fondamentale e sempre valido della dottrina federalista, uno Stato di Stati. L’affermazione che si tratta di consolidare la doppia legittimità statale e democratica e non di costruire uno Stato sopranazionale non è dunque per nulla convincente e può anzi indurre pericolosi equivoci, nella misura in cui, presa alla lettera, sembra contrapporre statualità e democrazia, cioè due concetti che il pensiero liberal-democratico occidentale vuole rigorosamente convergenti.[2]
Se è necessario precisare che riformare in senso federale l’Unione europea significa marciare in direzione di uno Stato federale europeo, occorre d’altro canto sottolineare, ritornando all’aspetto valido della preoccupazione anticentralistica del Club di Firenze, che in Europa è non solo necessaria, ma anche effettivamente possibile, dato che esistono condizioni oggettive particolarmente favorevoli, la costruzione di uno Stato federale di tipo nuovo, e cioè molto più decentrato e «leggero» rispetto ai modelli federali finora realizzati.
Occorre anzitutto tenere presente che nel mondo post-industriale e della crescente interdipendenza globale tendono, in generale, ad attenuarsi due fattori fondamentali che hanno storicamente favorito in modo decisivo sviluppi statuali centralistici, che hanno coinvolto anche gli Stati federali. Da una parte, con l’avanzamento della società post-industriale tende a svuotarsi il fenomeno della lotta di classe, che ha favorito il centralismo, sia perché, facendo prevalere il senso di appartenenza alla classe su ogni altra forma di solidarietà sociale, ha ostacolato il radicarsi di forti legami di solidarietà nelle comunità regionali e locali, sia in conseguenza del rafforzamento del potere centrale indotto dalle politiche di riequilibrio sociale (implicanti, tra l’altro, un forte aumento del bilancio statale). D’altra parte, la crescente interdipendenza globale, che è legata agli sviluppi della scienza, della tecnologia, delle comunicazioni, tende ad attenuare la spinta centralistica derivante dalla ragion di Stato, intesa come primato dell’esigenza di sicurezza esterna rispetto ad ogni altra finalità perseguita dallo Stato. E’ vero che la politica di sicurezza esterna ha costantemente favorito l’accentramento statale (ed una sua particolare accentuazione nelle potenze caratterizzate da una situazione strategica meno favorevole), in quanto strumento indispensabile di difesa in un sistema internazionale anarchico, in cui i conflitti fra gli Stati si risolvono in ultima analisi con il ricorso alla forza. Ma sembra altrettanto chiaro che essa si trova ormai storicamente di fronte alla esigenza vitale di superare la violenza nei rapporti internazionali e di approfondire in termini qualitativamente nuovi la cooperazione internazionale su scala globale, onde affrontare sfide che mettono in discussione la stessa sopravvivenza dell’umanità. In altre parole siamo in presenza di una tendenza storica alla convergenza delle ragioni di Stato, che, mentre alimenta i processi di integrazione regionale, comincia a porre il problema dell’integrazione soprastatale a livello mondiale (rispetto al quale la fine della guerra fredda ha eliminato un ostacolo fondamentale), e di conseguenza attenua, come si è detto prima, la spinta centralistica derivante dalla politica di sicurezza esterna.[3]
Il processo di integrazione europea deve essere dunque inquadrato in questo contesto generale, ma occorre altresì rilevare come i fattori anticentralistici più generali si sommano, nel caso europeo, a condizioni favorevoli specifiche. In particolare vanno sottolineati il fatto che a livello europeo lo Stato è ancora da creare, e non c’è quindi da superare la forza inerziale di una tradizione statale consolidata, e il fatto altrettanto importante che in Europa esiste un pluralismo nazionale, culturale e sociale che non ha eguali nel mondo intero. Perciò ci sono qui premesse assai più favorevoli, che non per esempio negli USA, per costruire un modello federale fortemente decentrato. Ancora una volta l’Europa, se saprà proseguire risolutamente nella strada della sua unificazione, potrà fare da battistrada al mondo intero.[4]
4. Il Club di Firenze non si limita a proporre un salto qualitativo per quanto riguarda le istituzioni dell’Unione europea, ma è altresì consapevole che ciò richiede, a sua volta, un salto qualitativo in relazione al metodo della revisione istituzionale. Anche in questo caso le proposte concrete contenute nel Rapporto presentano, a mio avviso, accanto ad aspetti convincenti, delle stridenti incongruenze.
Il difetto fondamentale della procedura per la revisione dei trattati prevista dall’art. N del Trattato di Maastricht (ex art. 236 del Trattato CEE) e finora sempre osservata viene giustamente ravvisato nel principio dell’unanimità. Questa procedura, che impone compromessi al minimo comun denominatore, non ha impedito finora di far compiere progressi significativi al processo di integrazione europea. Si ritiene però che, di fronte all’esigenza di compiere un salto qualitativo sul terreno istituzionale, per evitare la disgregazione dell’Unione europea, il principio dell’unanimità non possa che portare a risultati fallimentari. Questa previsione, al di là delle convinzioni teoriche che la sorreggono, ha un fondamento molto concreto nelle indicazioni che emergono dalle prese di posizione sulla CIG-96 dei diversi governi europei. Esse confermano l’esistenza di divergenze fondamentali fra i Quindici sulla concezione stessa dell’Europa da costruire e, in particolare, la frattura fondamentale con il governo britannico contrario a qualsiasi riforma in direzione federale. Pertanto, secondo il Club di Firenze si tratta di superare il principio dell’unanimità non solo nelle istituzioni rinnovate che dovranno uscire dalla CIG-96 (e che dovranno anche prevedere la decisione a maggioranza superqualificata nel settore della revisione istituzionale), ma già in questa conferenza, stabilendo (naturalmente all’unanimità, perché così prescrive l’art. N) di adottare un metodo che escluda la possibilità da parte di singoli Stati di impedire progressi sostanziali agli Stati desiderosi di farlo e che nello stesso tempo non costringa gli Stati riluttanti ad accodarsi a questi ultimi.
In termini concreti ciò significa anzitutto che, se i quindici Stati membri non si accorderanno sulle riforme istituzionali effettivamente adeguate ai problemi da affrontare, occorrerà applicare assai più ampiamente di quanto fatto finora il metodo della differenziazione costituendo — all’interno dell’Unione europea che continuerebbe a sussistere fra tutti i Quindici e i futuri aderenti — un gruppo di avanguardia che getti le basi di una vera Comunità politica, formata anche da una minoranza di Stati dell’Unione europea, e aperta alla successiva adesione degli Stati per ora non disponibili. La Comunità politica dovrebbe essere istituita fra gli Stati che accettano le riforme istituzionali indispensabili per perseguire effettivamente i tre obiettivi prioritari identificati dal Trattato di Maastricht: l’Unione economica e monetaria, che implica una stretta coordinazione delle politiche fiscali e di bilancio (e, quindi, un potere economico sopranazionale forte, per fare da contrappeso al ruolo della Banca centrale europea nel campo monetario); una politica estera e di sicurezza comune completata in futuro da una difesa integrata; e il rafforzamento della cooperazione in materia di sicurezza interna.
Per quanto concerne specificamente l’UEM, si precisa che gli Stati che vogliono partecipare alla fase finale, ma che non possono farlo fin dall’inizio, in quanto non ancora in grado di adempiere agli obblighi di convergenza economico-finanziaria, dovranno essere immediatamente e strettamente associati al funzionamento della Comunità politica, chiedendo contemporaneamente ad essi la garanzia di un duplice impegno: quello di sottomettersi alla disciplina comune non appena saranno in grado di soddisfare le condizioni stabilite, e quello di adottare senza indugi le misure necessarie per raggiungere l’avanguardia nel minor tempo possibile. Quegli Stati che invece, pur possedendone i requisiti, non vogliono compiere il salto qualitativo previsto dal Trattato di Maastricht potranno aderire in qualsiasi momento alla Comunità politica, a condizione che accettino le regole del gioco e i risultati che a quel momento saranno stati accumulati. Nel frattempo si potranno prevedere forme di collaborazione circoscritte a determinati settori, come nel caso dell’Agenzia degli armamenti, a cui la Gran Bretagna potrebbe essere interessata.
Per quanto concerne le istituzioni preposte al funzionamento della Comunità politica, la soluzione escogitata dal Club di Firenze si rifà al modello dell’UEM nella sua fase finale, che prevede sostanzialmente una partecipazione di tutti gli Stati dell’Unione europea sul piano consultivo e di controllo, ma senza che possa essere ostacolata la volontà degli Stati che partecipano all’Unione monetaria e, quindi, al meccanismo federale della Banca centrale europea e del sistema europeo di banche centrali. In sostanza, si dovrebbe realizzare un sistema istituzionale unico, ma a geometria variabile, che associ tutti gli Stati dell’Unione a ciò che verrà fatto dalla Comunità politica, evitando però che i paesi direttamente interessati corrano il rischio di vedersi dettare da altri le regole della loro condotta. I punti essenziali sono i seguenti: la Corte di giustizia e la Commissione opereranno a livello sia dell’Unione che della Comunità politica senza differenziazioni nelle procedure decisionali interne, ma dovrà essere introdotta la regola secondo cui la Commissione avrà, in riferimento alla Comunità politica, un diritto di iniziativa non esclusivo e che non sarà richiesta l’unanimità da parte del Consiglio per modificare le sue proposte; nel Consiglio, ogniqualvolta le competenze della Comunità politica siano evocate, ci sarà uno scambio di vedute fra i rappresentanti di tutti gli Stati membri, ma il diritto di voto sarà riservato agli Stati che sono direttamente interessati, in modo analogo a ciò che è già previsto per l’Unione monetaria; nel Parlamento, le misure relative al nucleo più integrato saranno discusse in seduta plenaria, con la possibilità di adottare un parere consultivo, mentre invece, al momento della votazione finale, saranno considerati solo i voti dei parlamentari eletti negli Stati membri della Comunità politica.
Oltre che con l’applicazione su larga scala del metodo della differenziazione (che non ha nulla a che fare con l’opzione britannica dell’«Europa alla carta», in quanto è imperniato sulla costituzione di un nucleo magnetico con caratteristiche federali), il principio dell’unanimità deve, secondo il Club di Firenze, essere superato anche in sede di ratifica dei risultati della CIG-96. Traendo ispirazione dall’art. 82 del progetto di Trattato di Unione europea, approvato dal Parlamento europeo nel 1984 su iniziativa di Spinelli, si propone cioè che venga prevista la ratifica con una maggioranza rafforzata, costituita dai quattro quinti della popolazione complessiva (nel progetto Spinelli si prevedeva la maggioranza assoluta degli Stati e due terzi della popolazione dell’Unione), e il diritto degli Stati non ratificanti di ritirarsi dall’Unione, passando alla condizione di Stati associati, sul modello dello Spazio economico europeo.
L’altro fondamentale difetto della procedura prevista dall’art. N è individuato dal Club di Firenze — e anche in questo caso assai giustamente — nel suo limitarsi a una trattativa diplomatica, che esclude un sistematico coinvolgimento dell’opinione pubblica e, quindi, dei partiti e delle espressioni organizzate della società civile nell’elaborazione dei progetti di revisione dei trattati, e propone alle procedure (parlamentari o referendarie) di ratifica nazionale dei risultati preconfezionati, che si tratta di prendere o lasciare. Se si tiene presente l’esperienza della faticosa ratifica del Trattato di Maastricht, il deficit di legittimità che travaglia il processo di integrazione europea, il fatto che si tratta di compiere un salto qualitativo sul piano istituzionale, l’applicazione alla CIG-96 della tradizionale procedura diplomatica significa programmare il suo fallimento. Per evitare questo esito, si suggerisce, analogamente a quanto previsto per il principio dell’unanimità, di anticipare all’attuale fase di revisione istituzionale almeno in parte quei principi di democraticità e di trasparenza che dovranno diventare la regola delle istituzioni che dovranno nascere dalla CIG-96. Ciò significa in termini concreti: invitare una delegazione del Parlamento europeo a partecipare alle riunioni della CIG-96 a livello ministeriale, in modo che esso possa pronunciarsi puntualmente sui differenti progetti di riforma; tenere i parlamenti nazionali regolarmente al corrente dell’avanzamento delle trattative intergovernative, in modo che essi possano influire con il loro parere sul loro andamento; convocare le «Assise» interparlamentari europee, cioè la riunione congiunta dei rappresentanti dei parlamenti nazionali e di quello europeo, sul modello di quanto era avvenuto a Roma nel novembre 1990, poco prima della convocazione delle due Conferenze in tergovernative che elaborarono il Trattato di Maastricht.
5. Queste proposte dirette a superare i difetti fondamentali della procedura prevista dall’art. N vanno nella giusta direzione ma non sono, a mio giudizio, sufficientemente consequenziarie.
Partendo dal superamento del principio dell’unanimità, sono anzitutto convinto che il sistema istituzionale a geometria variabile che viene proposto presenti, a causa della sua complicazione, serissimi problemi di funzionalità e che oltretutto comporti un approfondimento del deficit di trasparenza che già indebolisce fortemente l’attuale quadro istituzionale.[5] Esso sarebbe difficilmente governabile e assai instabile e destinato quindi a evolvere in breve tempo o verso il sistema dell’Europa alla carta su basi puramente intergovernative, o verso l’adesione di tutti gli Stati alla Comunità politica con caratteristiche federali o verso la creazione di due cerchi concentrici, quello della Comunità politica e quello degli Stati associati, senza istituzioni comuni a geometria variabile. Le indicazioni del Club di Firenze relative alla differenziazione possono perciò essere apprezzate essenzialmente come uno sforzo di esplorare ogni possibilità prima di giungere a una rottura con il governo britannico, di cui esso sarebbe in definitiva responsabile.
Ciò precisato, il fondamentale punto debole del discorso relativo al superamento del principio della revisione unanime va ravvisato nel presupposto che i governi contrari alle riforme in senso federale siano disposti, pur essendo loro riconosciuto il diritto di veto previsto dall’art. N, ad accettare la costituzione di un nucleo federale all’interno di una Unione che conservi sostanzialmente le attuali caratteristiche istituzionali, e addirittura ad accettare il principio della ratifica a maggioranza, accompagnato dall’automatico ritiro dall’Unione per gli Stati non ratificanti. Tenendo presenti le chiare prese di posizione del governo britannico (che oltretutto si prestano a costituire un comodo alibi per altri governi meno espliciti), non ha in effetti alcun fondamento realistico l’aspettativa che all’unanimità si rinunci all’unanimità ed è invece decisamente più verosimile che si giunga a compromessi di bassissimo livello assolutamente non in grado di scongiurare il pericolo che venga bloccata la dinamica dell’integrazione europea. Ci saranno reali possibilità di evitare questo esito solo se i governi appartenenti al gruppo di avanguardia si convinceranno ad essere conseguenti fino in fondo nel superamento del principio dell’unanimità. In sostanza essi devono prepararsi a convocare — una volta che si sarà inequivocabilmente constatata nella CIG-96 la mancanza di un consenso unanime su riforme istituzionali effettivamente incisive, o su un sistema di geometria istituzionale variabile nel senso sopraindicato — una conferenza separata al fine di adottare un nuovo trattato istitutivo della Comunità politica, la quale succederà all’Unione europea, mentre gli Stati che non parteciperanno all’elaborazione del nuovo trattato o non lo ratificheranno, potranno optare per lo status di associati sul modello dello Spazio economico europeo.[6] Se questa linea verrà perseguita senza tentennamenti, è molto probabile che i governi euroscettici, non potendo ricorrere al diritto di veto, finiranno per accettare riforme sostanziali, pur di non rimanere ai margini del processo di integrazione. Ovviamente non è escluso che essi optino per la non partecipazione, almeno in una prima fase, a un’Unione europea con caratteristiche federali, ma, in questo caso, non potranno bloccare l’indispensabile salto qualitativo dell’integrazione ed è ragionevole aspettarsi che non tarderanno molto a ripensarci.
Certo, è indispensabile una fortissima volontà politica da parte del gruppo di avanguardia per non tirarsi indietro di fronte alla prospettiva della rottura con il governo britannico e gli altri governi euroscettici; e immagino che il Club di Firenze abbia molti dubbi al riguardo e proprio per questo proponga una linea più cauta in merito al superamento del principio dell’unanimità. Qui mi sembrano però rilevanti due considerazioni. In primo luogo si deve ricordare che la volontà politica di procedere senza la Gran Bretagna è già emersa al momento dell’avvio dell’esperienza comunitaria, quando di fronte a una sfida esistenziale i governi più europeisti rinunciarono alla revisione nel quadro giuridico del Consiglio d’Europa e dettero vita a un nuovo trattato. Perché una volontà analoga non dovrebbe riemergere oggi di fronte al pericolo estremamente serio che l’integrazione comunitaria venga compromessa?[7] In secondo luogo, se si parte, come fa giustamente il Club di Firenze, dal presupposto che i governi più europeisti possano essere convinti, proprio alla luce di tale pericolo, a dar vita a una Comunità politica più integrata che comprenda una parte anche minoritaria degli Stati membri dell’attuale Unione europea, non si vede perché essi non possano essere convinti a scegliere il metodo oggettivamente necessario (il pieno superamento del principio dell’unanimità) per poter realizzare questo obiettivo.
Se occorre dunque, a mio avviso, essere più consequenziari — anche per essere più convincenti in un’impresa di cui non ci si può nascondere la difficoltà — nel rigettare il principio della revisione unanime dei trattati, lo stesso discorso si può fare rispetto alla necessità di superare la natura puramente diplomatica della procedura prevista dall’art. N. Anche in questo caso, se si vuole coinvolgere pienamente l’opinione pubblica e le forze politiche ed economico-sociali nel dibattito costituente ed evitare che si debba dire sì o no a risultati preconfezionati, non bastano procedure di informazione del Parlamento europeo e di quelli nazionali; ma si deve arrivare a una forma di codecisione fra il Parlamento europeo e i governi analoga a quella che il Trattato di Maastricht ha introdotto per una parte della legislazione comunitaria (e che dovrebbe essere generalizzata in seguito alla revisione di cui si occupa la CIG-96). In sostanza al Parlamento europeo — che avrebbe tutto l’interesse a instaurare su questo tema un rapporto organico di cooperazione con i parlamenti nazionali — dovrebbe essere riconosciuto il diritto di emendare le proposte elaborate dai plenipotenziari dei governi, e un comitato di conciliazione Parlamento europeo - Conferenza intergovernativa dovrebbe pervenire all’elaborazione di un testo comune che dovrebbe poi essere approvato a maggioranza qualificata dai due organi ed essere infine sottoposto alle ratifiche nazionali. Una procedura effettivamente democratica di revisione del Trattato di Maastricht, occorre ancora sottolineare, appare indispensabile, oltre che per evidenti ragioni di principio (si tratta di dar vita a una costituzione), anche perché è oggettivamente difficile una scelta così radicale, come quella di andare avanti anche senza il governo britannico e gli altri governi euroscettici, senza una chiara legittimazione democratica in tutte le fasi della procedura costituente.
In questa analisi del Rapporto del Club di Firenze ho cercato di mettere in luce come in esso siano, a mio giudizio, presenti, accanto a considerazioni e proposte molto convincenti, alcune incongruenze di non poco conto: in particolare la tesi secondo cui le istituzioni europee devono avere natura federale ma non statuale (e mantenere, anche nella fase finale, il diritto di veto nazionale in campo militare) e il fermarsi a metà strada nelle proposte dirette a superare il principio dell’unanimità e la mancanza di democraticità nella procedura per la revisione del Trattato di Maastricht. E’ molto probabile, devo ora precisare, che quelle che a me appaiono incongruenze riflettano in realtà una scelta consapevole, che consiste nel voler lasciare nell’ombra le conseguenze ultime degli sviluppi graduali e parziali che vengono proposti, in modo da non svegliare il can che dorme e rendere più agevole il superamento delle resistenze ai trasferimenti di sovranità a istituzioni federali. Sembra cioè emergere qui un aspetto tipico dell’approccio funzionalistico all’integrazione europea, caratterizzato, oltre che dal gradualismo, da un atteggiamento che può essere definito, tanto per intenderei, «carbonaro».
Se così è, mi chiedo, a conclusione di questa analisi, se un simile atteggiamento, che certamente ha contribuito al progresso dell’integrazione europea, sia ancora proponibile nell’attuale fase del processo. Francamente, penso che, se ha ancora un certo spazio il gradualismo (il non volere tutto e subito), non sia invece più adeguata la mentalità carbonara (il non dire le cose fino in fondo), nel momento in cui è diventato improrogabile un salto qualitativo in direzione federale. Hanno ragione gli esponenti del Club di Firenze a dire che l’integrazione europea è una «rivoluzione tranquilla», dalla quale è cioè bandita ogni forma di costrizione, ma che mira a introdurre cambiamenti radicali. Ma se quello di integrazione europea è, in questo senso, un processo rivoluzionario vale in ultima analisi anche per esso il principio che la verità è una fondamentale forza rivoluzionaria. In altre parole, mai come oggi è diventato necessario indicare con estrema chiarezza non solo i grandi valori che sono in gioco nel processo di integrazione europea, ma anche i suoi sbocchi finali sul terreno istituzionale, e le scelte drammatiche che si deve avere il coraggio di compiere, perché solo così si può sperare di mobilitare pienamente le energie indispensabili per superare le resistenze al salto qualitativo verso la federazione. Senza un alto e diffuso grado di consapevolezza è illusorio aspettarsi dei cambiamenti rivoluzionari.
[1] Il Rapporto è stato pubblicato con il titolo Europa: l’impossibile status quo, con una prefazione di Jacques Delors, da Il Mulino (Bologna, 1996). I membri del Club di Firenze, nato nell’autunno del 1993, sono: Enrique Baron Crespo (spagnolo), deputato europeo, ex-ministro, ex-presidente del Parlamento europeo; Cristoph Bertram (tedesco), ex-direttore dell’Istituto internazionale di studi strategici di Londra, attualmente cronista diplomatico del settimanale tedesco Die Zeit; Stanley Crossick (britannico), presidente del Belmont European Policy Center e vice-presidente del comitato per gli affari europei della Camera di commercio americana a Bruxelles; Renaud Dehousse (belga), professore all’Istituto universitario europeo di Firenze; René Foch (francese), direttore generale alla Commissione delle Comunità europee, attualmente segretario generale del comitato d’azione per l’Europa; Franz Froschmaier (tedesco), ex-direttore generale per l’informazione, la ricerca e la cultura alla Commissione delle Comunità europee, ex-ministro degli Affari economici del Land di Schleswig-Holstein (Germania); Max Kohnstamm (olandese), ex-segretario dell’Alta Autorità della CECA, ex-vice-presidente del Comitato d’azione per gli Stati Uniti d’Europa creato da Jean Monnet e ex-presidente dell’Istituto universitario europeo di Firenze; François Lamoureux (francese), ex-direttore della politica industriale della Commissione delle Comunità europee, ex-direttore aggiunto del gabinetto di Edith Cresson a Matignon, attualmente direttore del suo gabinetto alla Commissione; Emile Noël (francese), ex-segretario generale della Commissione delle Comunità europee e ex-presidente dell’Istituto universitario europeo di Firenze; Tommaso Padoa-Schioppa (italiano), ex-direttore generale degli affari economici e finanziari alla Commissione delle Comunità europee, relatore del Comitato Delors per l’Unione economica e monetaria, attualmente vice-direttore generale della Banca d’Italia.
Kohnstamm è il presidente del Club di Firenze. Il Rapporto è stato redatto da Dehousse in collaborazione con Kohnstamm e Noël.
[2] Che la teoria della doppia legittimità sia un modo assai poco convincente di definire concettualmente l’attuale fase di transizione (incompiuta e che potrebbe anche interrompersi) della Comunità da una situazione ancora prevalentemente confederale a una situazione di tipo federale è chiarito molto bene da Francesco Rossolillo. Si vedano in particolare «Testo di riflessione sulla Conferenza intergovernativa del 1996 e sul passaggio alla terza fase dell’Unione monetaria», in Il Federalista, XXXVII (1995), pp. 63-75, e «La sovranità popolare e il popolo federale mondiale come suo soggetto», in Il Federalista, XXXVII, (1995), pp. 156-195.
[3] Su questa problematica si veda in particolare Mario Albertini, Il federalismo, Bologna, Il Mulino, 1993, il quale sostiene, tra l’altro, che la piena realizzazione del sistema federale, che è stato finora, nelle sue realizzazioni concrete, sempre inquinato da forti connotazioni centralistiche, sarà possibile solo nel quadro dell’unificazione mondiale, che significherebbe la radicale eliminazione della politica di potenza.
[4] In proposito rinvio a Sergio Pistone, «La politica di sicurezza dell’Unione europea», in Il Federalista, XXXIV (1992), pp. 97-114.
[5] Si veda in proposito Pour une Union européenne efficace et démocratique, Rapporto del gruppo di riflessione del Movimento europeo internazionale presentato nel marzo 1995.
[6] Questa è la linea proposta sia dall’Unione europea dei federalisti (si veda «La riforma della Costituzione europea», in Il Federalista, XXXVII (1995), pp. 50-62) che dal Movimento europeo internazionale (si veda il documento del Comitato di iniziativa 1996 del Movimento europeo — di cui è presidente Jean-Victor Louis — intitolato «Lescénarios de la CIG», e pubblicato in Crocodile, 1996, 1-2). Si veda anche Antonio Padoa-Schioppa, «Verso la Costituzione europea», in Il Federalista, XXXVII (1995), pp. 8-25.
[7] Certamente l’impresa diretta a ottenere il salto qualitativo in senso federale e, quindi, a convincere i governi più europeisti a non esitare a rompere con il governo britannico appare molto ardua, se si tiene presente che la Francia (senza la quale è ovvio che il nucleo di avanguardia non può nascere) è favorevole al sistema federale in campo monetario, ma esprime altresì, con la presidenza Chirac, forti riserve a un ulteriore rafforzamento in senso federale delle istituzioni dell’Unione europea. Nello stesso tempo si deve osservare che la grande maggioranza della classe politica francese, di governo e di opposizione, vuole fortemente l’approfondimento dell’integrazione europea — oltre che con la rapida realizzazione dell’UEM anche con la costruzione della difesa europea —, perché è la stessa ragion di Stato francese che impone di rendere irreversibile a termini ravvicinati l’integrazione con la Germania ed esclude qualsiasi altra alternativa che non sia disastrosa. La Francia si trova pertanto su di un piano inclinato (è spinta verso l’obiettivo dell’integrazione irreversibile con la Germania, ma recalcitra sui mezzi indispensabili), che non garantisce certamente l’esito positivo della battaglia per superare le resistenze francesi al salto qualitativo in senso federale, ma offre chanches reali di successo.
Si deve anche tenere presente che la grande maggioranza della classe politica tedesca vuole fortemente e rapidamente l’unificazione europea su base federale attraverso la strategia del nucleo magnetico (il più alto livello di consapevolezza a questo riguardo si impersona in Karl Lamers) perché è ben cosciente del pericolo che riemergano nella Germania riunificata le catastrofiche tendenze egemoniche del passato. Questa volontà ha anche un fondamento molto concreto nel fatto che la Corte costituzionale tedesca, nella sentenza dell’ottobre 1993, che ha riconosciuto la costituzionalità del Trattato di Maastricht, ha chiaramente espresso il suo avviso contrario alla realizzazione di una Unione monetaria che non preveda un rafforzamento in senso democratico delle istituzioni dell’Unione europea (si veda in proposito F. Rossolillo, «Si può delegare la fondazione della Federazione europea?», in Il Federalista, XXXVI (1994), pp. 30-3).
In questo contesto, occorre infine ricordare, può svolgere un ruolo decisivo il governo italiano. In effetti la storia dell’integrazione europea mostra come le iniziative franco-tedesche abbiano sempre avuto un ruolo trainante, ma altresì come l’Italia sia stata in grado di rafforzarne il contenuto in senso sopranazionale ogni volta che si è impegnata con serietà in tale direzione. Ciò significa oggi sia portare avanti la linea che è stata qui indicata per quanto riguarda le riforme istituzionali e il metodo con cui realizzarle, sia impegnarsi senza tentennamenti nel risanamento finanziario, in modo da poter partecipare a pieno titolo al gruppo di avanguardia e quindi rafforzare in modo decisivo la credibilità e l’efficacia delle proposte italiane all’interno della CIG-96. L’indebolimento delle tendenze euroscettiche presenti in Italia, che si è chiaramente manifestato con i risultati delle elezioni politiche del 21 aprile 1996, apre indubbiamente prospettive più favorevoli in questa direzione.