IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno II, 1960, Numero 3, Pagina 150

   

 

I tre tempi della questione meridionale
 
BRUNO CAIZZI
 
 
 
A mano a mano che l’esperimento meridionalista, posto al centro della politica postbellica italiana, procede nel suo svolgimento e, liberandosi di ogni carattere contingente, si ricostruisce nella essenzialità di una prospettiva di fondo, riprendono il sopravvento quei canoni di valutazione tradizionale che la generazione maturata fra le due guerre, e portata nell’agone competitivo nei primi anni della ricostruzione, aveva creduto essere ormai superati.
Gli scrittori della sinistra da un lato, tenacemente arroccati nella cittadella del pensiero gramsciano, i giovani del centro politico dall’altro, intrisi di sociologismo, affascinati da teorie d’origine e ambientazione straniera, come quella sulle aree depresse, confortati anche dall’imponenza dei mezzi per la prima volta mobilitati nella lotta per il Mezzogiorno, giudicarono concordi che la vecchia letteratura meridionale presentasse un interesse prevalentemente storico e retrospettivo, e che la formidabile questione che da un secolo angustia la vita italiana andasse affrontata con diversi strumenti d’analisi e d’intervento: quasi fossero mutate le condizioni politiche generali del paese che fissavano, e fissano ancora, i ristretti margini oltre i quali nessun riformismo sociale può illudersi d’operare.
Ma il problema, a ben individuarlo, non consisteva tanto nel chiedere allo Stato un impegno finanziario complessivamente assai maggiore di quello sopportato in altri tempi, e neppure nel sottoporre al parlamento una legge di interventi organici e pluriennali che tengano il posto di quegli interventi a spizzico e bocconi di cui nel passato s’è sperimentata la quasi completa inutilità; il problema era d’altra natura e consisteva piuttosto nell’appurare se nella logica accettata della struttura economica e politica dell’Italia moderna vi fossero speranze obiettivamente fondate di portare il Mezzogiorno a un livello decoroso di vita o se, all’opposto, voluta quella struttura non occorresse rassegnarsi a sopportarne tutte le conseguenze, inclusa fra queste una forte e inevitabile disparità di benessere fra la parte più fortunata del paese e la parte meno fortunata. Esame di natura piuttosto impopolare che fu volentieri accantonato da quanti — per una ragione o per l’altra — preferivano parlare al disgraziato Mezzogiorno un linguaggio indorato di promesse e lusinghe, pieno di sottintesi politici. Giovi o non giovi a risolvere i problemi della vita meridionale, la politica d’intervento monta una rumorosa macchina elettorale che serve massimamente la causa del partito governativo ma intimorisce anche l’opposizione, la quale cerca anch’essa di sfruttarla a proprio vantaggio rivendicando i meriti di quell’azione, e se pur vi riesce solo in misura ridotta, non rischia per questo di metterlesi contro in linea di principio.
Qualcosa di analogo, sia pure su un tono più sfumato, è avvenuto in sede di giudizio storico, nel rinnovarsi della vecchia discussione intorno alle condizioni in cui il Mezzogiorno entrò a far parte del Regno d’Italia, e alle possibilità che la contrada aveva allora di raggiungere da sola una condizione di maggior progresso civile. Poiché il Mezzogiorno in questi cento avventurosi anni non ha percorsa molta strada, a tenerne desto lo spirito o a rinvigorire le sue rivendicazioni può giovare un richiamo al sacrificio ch’esso compì un secolo fa sull’altare dell’unificazione nazionale.
Cominciò F.S. Nitti, che pure era un unitario convinto, a fare un quadro dell’economia meridionale prima del 1860 che ne sottolineava alcuni aspetti positivi, e altri lo seguirono, estendendo la sua valutazione prevalentemente di carattere finanziario alle condizioni dell’industria.
Nessuno per la verità osa affermare che il Mezzogiorno vantasse allora un’industria paragonabile a quella delle nazioni più progredite d’Europa, ma molti hanno creduto ch’essa tenesse assai bene il confronto con quella del Settentrione, e per molti riguardi la sopravanzasse persino. Il Mezzogiorno vantava, specialmente intorno a Napoli, un complesso di stabilimenti siderurgici e meccanici, di arsenali e fabbriche d’armi che alcuni storici non esitano a definire importante; aveva in Calabria un altro centro siderurgico, con le due ferriere di Mongiana e Fernandea poste tra fitti boschi demaniali di faggi e abeti che davano il carbone necessario; nelle province meridionali l’industria laniera era diffusa in molti medi e piccoli opifici, quella del cotone cominciava a prendere piede e fra una lavorazione e l’altra teneva occupati 4.000 operai. Inoltre il Mezzogiorno conservava una notevole industria della seta che esportava greggio e produceva anche tessuti; armava 300 imbarcazioni per la pesca del corallo, produceva su larga scala guanti: era insomma a quei tempi un paese almeno altrettanto attivo del Settentrione.
Tutto ciò sarà vero, ma poco toglie al giudizio assai severo che dev’essere dato sul complesso di quell’economia quando da un’elencazione puramente numerica delle imprese si passa a esaminarne l’interna struttura tecnica ed economica, in rapporto specialmente alla preparazione del ceto imprenditoriale e delle maestranze, all’impiego già fatto o progettato delle macchine e dei motori, allo spirito d’iniziativa e alla probabilità di quasi tutte quelle manifatture di sopravvivere, il momento in cui fossero venuti meno i due fattori che operando insieme precludevano il mercato meridionale alla concorrenza straniera: l’alta protezione doganale e l’elevato costo dei trasporti.
Certamente in uno Stato che aveva raggiunto una discreta estensione territoriale e che anche per popolazione era di gran lunga il primo della penisola, un regime doganale fondato sul protezionismo accentuato poteva tenere in vita un certo numero di manifatture, ma il costo di quella protezione era poi estremamente elevato. Tutta l’industria pesante sarebbe andata all’aria senza le ordinazioni governative; e la stessa modestissima industria tessile, quando non restava nel solco del vecchio artigianato, si trascinava facendo grande affidamento sulle forniture erariali. Spesso era la corona che doveva mettersi alla testa di qualche iniziativa nuova, da essa coltivata, più che con intendimenti commerciali, con spirito di mecenatismo e beneficenza, per arrecare qualche sollievo all’enorme pauperismo. Non è davvero circostanza trascurabile che Capodimonte e S. Leucio, cantieri navali e miniere, fossero altrettante imprese nate per volontà regia e sorrette dal pubblico erario.
Ma quello che si può scrivere intorno all’industria, e l’altro che non sarebbe difficile aggiungere sulle condizioni egualmente cattive dell’agricoltura e su quelle ancora peggiori del commercio, sulle strade che rendevano impossibili le comunicazioni interne, sull’usura che rovinava i contadini e su tutto il resto, non conterebbe ancor molto, o almeno non suonerebbe come giudizio di un destino irrevocabile, se il mancante ordinamento economico non fosse stato un riflesso dei più retrivi ordinamenti sociali e politici.
Un paese che non era uscito dal regime feudale, nel quale i baroni conservavano tutta la potenza economica e quasi tutta quella politica, un paese in cui la proprietà fondiaria era per il 90% nelle mani dei signori e del clero, un paese cristallizzato socialmente, nel quale mancava un ceto medio di formazione moderna e le plebi gemevano misere, ignoranti e superstiziose, un paese così fatto, che nessuna convulsione interna e nessun contagio esterno erano mai riusciti a scuotere veramente, aveva in sé medesimo le risorse per resistere ancora lungamente a qualsiasi pressione di rinnovamento.
La formidabile coalizione delle forze conservatrici, che era passata quasi indenne anche attraverso la bufera napoleonica, non vedeva seriamente minacciato l’ordinamento da cui traeva la propria forza. Nessun maggiore errore, e l’ha già notato finemente il Croce recensendo il Cenni, di scambiare lo storia politica con la storia del pensiero politico e giuridico, e di attribuire agli scrittori un’influenza politica ch’essi non ebbero. La letteratura politica era bensì agguerrita nel Mezzogiorno ma non vinceva la società, restando, come già nell’epoca del glorioso illuminismo napoletano, fenomeno di minoranze incapaci di incidere col proprio pensiero nella dura realtà. Tutto pareva fermo. «Si amava la vita quieta, il vivere di tradizione e di passato. E quando il passato non era glorioso, vi erano sempre i poeti compiacenti; e gli storici anche più compiacenti dei poeti… La borghesia non amava la lotta, e la monarchia l’amava ancora meno. Era la vecchia Europa con tutte le sue avversioni per ogni cosa nuova, con tutte le sue debolezze. Si evitavano le concessioni industriali; si evitava che si formassero banche o società per azioni; si temeva che la speculazione penetrasse, e con essa il desiderio di cose nuove. Si amava un quietismo monacale: un popolo contento per vita tranquilla; una borghesia da tenere a bada con gl’impieghi e con la curia; una nobiltà ossequiente e legata alla tradizione. Si amava molto di divertirsi, di svagarsi; si temevano le grandi energie individuali; la vecchia Europa, con tutti i suoi pregiudizi. Masse di monasteri, la carriera del sacerdozio facile; il brigantaggio come minaccia perenne; una grandissima città per capitale con un gran numero di provincie quasi impenetrabili» (Nitti).
Il socialismo non avrebbe mai fatto breccia in quel mondo anche perché il pericolo della nascita di un proletariato industriale, interprete e portatore di nuove esigenze sociali, era non che remoto, quasi inesistente. Quell’ordinamento di agricoltura primitiva era infatti il più rispondente agli interessi non solo politici ma pure economici delle classi che detenevano il potere. Come l’intero assetto sociale riposava ancora sulla concezione della terra quale fonte d’ogni maggiore prestigio, e sfociava quindi in un’agricoltura priva di sollecitazioni moderne, così nella logica del commercio estero v’era l’implicita condanna d’ogni inutile tentativo di cambiar la faccia del paese, v’era il freno a qualsiasi impulso di dannosa industrializzazione interna.
La grande proprietà fondiaria non avvertiva incentivo alcuno a mutare il regime degli scambi. Il Regno esportava grani, olio, seta, semi di lino, frutta secca e altri prodotti del suolo; a sua volta importava dalla Francia e dall’Inghilterra i drappi, le seterie e gli altri oggetti di lusso che servivano ai bisogni delle classi facoltose; il popolo miserabile poco produceva e pochissimo consumava. Spingere a fondo l’industrializzazione avrebbe significato perdere i vantaggi di un intercambio naturale doppiamente vantaggioso ai ricchi, sia come proprietari fondiari sia come consumatori di generi voluttuari che l’estero poteva offrire a migliori condizioni. Ancora oggi, in ogni ritorno di fiamma autonomista della Sicilia, sotto il gioco trasformistico cui si prestano i partiti di tutte le tendenze, riaffiora la nostalgia dei possidenti terrieri che nelle loro tenute vorrebbero salariati remissivi, disprezzano la democrazia, la libertà di stampa, i sindacati operai, l’industria nazionale, e mentre fanno studiare all’estero i loro figli lamentano di doversi vestire a Roma e di non potere avere la Ford in luogo della Fiat. A un secolo dall’unificazione, autonomismo e reazione della peggior specie vanno a braccetto come vi andavano ai tempi dell’inchiesta di Sonnino e Franchetti.
E’ inutile indugiare a far congetture di quale sarebbe stata la sorte di un Mezzogiorno politicamente indipendente e costretto a chiudersi sempre di più in se stesso per rifiutare la contaminazione con un’Europa avviata sulla strada del progresso tecnologico e sociale; ma si può affermare con certezza (e lo riconobbe anche Nitti, e lo ripeté a ogni occasione il generoso Giustino Fortunato) che entrando a far parte di un grande Stato il Mezzogiorno allentò la morsa entro la quale la storia l’aveva serrato. Nessuno dei suoi problemi fu automaticamente risolto da quell’unione, ma di nessuno la soluzione fu più preclusa da una insuperabile situazione di fatto. Ogni errore commesso più tardi impallidisce di fronte all’impagabile beneficio d’essere uscito da quell’isolamento nel quale, chi sa per quanto tempo ancora, il Mezzogiorno avrebbe consumato le proprie migliori energie.
O bene o male, piaccia o non piaccia, nel 1861 il Mezzogiorno ha colto l’occasione di staccarsi dal novero delle nazioni mediterranee che vivono di ricordi e da secoli non contano quasi più nulla sulla scena del mondo, ed è entrato, sia pure in condizioni di grave inferiorità e portando seco un greve fardello di pene e una dolorosa eredità storica, fra le nazioni d’Europa che hanno ancora qualcosa da dire.
Il destino volle che le due Italie si ricongiungessero in un’epoca caratterizzata da una serie di grandiose trasformazioni tecniche ed economiche. La macchina stava per portare un colpo mortale al vecchio artigianato domestico; il vapore, annullando le distanze, abbatteva le barriere naturali che durante secoli avevano isolati i mercati non solo di nazioni diverse ma pure di uno stesso paese.
Le conseguenze della duplice rivoluzione industriale e dei trasporti dovevano essere avvertite ovunque. Molti problemi che tormentarono l’economia meridionale nella seconda metà dell’Ottocento furono messi sul conto della nuova situazione politica della penisola, e nascevano invece dal mutato equilibrio mondiale di produzione e consumo.
Nel secolo scorso il mondo cominciò a camminare con passo sempre più rapido e nell’affrettato processo dell’evoluzione economica la lotta accentuò fortemente le differenze, non più di grado ma veramente di civiltà, fra le nazioni che erano forti, e diventavano sempre più forti, e quelle che erano deboli, e rischiavano di diventarlo sempre di più.
Il miracolo del XIX secolo è un’Italia che fortunosamente ricostituita in nazione, povera, ignorante, politicamente immatura, riesce a inserirsi nel gioco maggiore, sia pure a fatica, sia pure a costo di pagare un forte prezzo.
Tutto era da fare nel 1861 e tutto fu tentato, nel disperato sforzo di mettersi alla pari con la Francia e l’Inghilterra, di imitare la Germania, di tener testa all’Austria. L’ultima delle nazioni per esperienza e tradizione volle fare una politica estera autonoma, si diede un grande, o creduto tale, esercito territoriale e una grande marina da guerra, tentò le imprese coloniali, cercò affannosamente la via dell’industrializzazione. E spesso, com’era inevitabile, l’opera portò il segno di quella febbrile impazienza.
In realtà occorreva scegliere fra le due vie che si aprivano davanti all’Italia nel suo desiderio di giungere. La prima era quella del graduale lento elevamento della vita civile: una politica estera di neutralità e pacifismo, un esercito ridotto, nessuna avventura coloniale, ogni risorsa di bilancio concentrata ad aprire scuole, costruire strade, creare le infrastrutture della vita sociale — come si direbbe con termini del moderno linguaggio economico — onde migliorare il potenziale umano di cui il paese era già allora ricchissimo: era la via che, peraltro in circostanze assai diverse, seguivano la Svizzera, il Belgio, l’Olanda e la stessa Germania.
L’altra via bruciava le tappe: poiché l’ambiente non maturava l’industria, l’industria avrebbe maturato l’ambiente: spingere dunque con ogni mezzo il processo di introduzione di nuove manifatture, creare un proletariato prima d’avergli data l’adeguata preparazione professionale e un minimo di coscienza civile e di classe, non controllare né contenere le spese pubbliche di prestigio e di pura lustra, ma fare di esse il vero fattore propulsivo dell’economia nuova, il punto di appoggio delle nascenti e incerte industrie nazionali. La tentazione di prendere questo secondo cammino dovette essere assai forte per un paese che pareva destato dopo secoli di letargo e si vedeva sopravanzato da ogni parte, e l’Italia, com’è noto, non seppe resisterle.
Di qui quell’opera di affrettata edificazione, quel marcato protezionismo che l’Italia adottò presto, travolgendo nel consenso di gran parte dell’opinione pubblica e dei ceti responsabili le resistenze isolate di quanti, in nome di principi ideali e per la difesa delle contrade meno favorite, continuavano a propugnare una politica di maggior prudenza e di sostanziale ispirazione libero-scambista.
Forse in quelle circostanze storiche, di fronte a nazioni economicamente fortissime, le cui manifatture erano avvantaggiate dal dominio esercitato da lungo tempo su un mercato tanto più vasto, oltre che dalla più agevole disponibilità di materie prime e dalla maggiore esperienza tecnica, il protezionismo offriva l’unico espediente possibile per un paese che intendeva mutare struttura; e solo sul modo con cui venne affrontata la grande svolta, e sui tempi dell’operazione, si possono avanzare molte legittime critiche. Certo è in ogni modo, e questo va soprattutto sottolineato, che era nell’ordine delle cose che all’artificiosa discriminazione dei tipi di attività economica capaci di vivere o destinati ad essere sacrificati nel nuovo ordinamento sociale, il protezionismo industriale aggiungesse l’altra discriminazione di carattere territoriale.
Non è vero che nel 1861 l’industria del Settentrione si sia impossessata del mercato meridionale riducendolo alla servitù di un mercato coloniale (affermazione che contrasta con l’altra di una vantata superiorità economica del Mezzogiorno alla vigilia dell’unificazione). Nel 1861 il Settentrione non avrebbe potuto portare i propri prodotti nel Mezzogiorno perché non aveva ancora una sufficiente attrezzatura produttiva. I Falck, i Pirelli, gli Agnelli non erano ancora comparsi all’orizzonte e lo stesso cotonificio piemontese e lombardo, di cui si esaltano i progressi compiuti nell’ultimo ventennio preunitario, non bastava ancora a soddisfare i pur ridotti bisogni locali e lasciava larghi margini all’importazione dall’estero. Ma è vero invece che l’industrializzazione accelerata e quasi forzata, che ebbe le sue spinte dalle due revisioni di tariffa doganale decise nel 1878 e nel 1887, si collocò tutta spontaneamente nelle regioni settentrionali ove trovava un ambiente più preparato e più suscettibile di ulteriore progresso. La vicinanza alle nazioni donde ci giunsero maestranze e capitali (si pensi all’enorme, decisivo apporto tedesco e svizzero alla formazione dell’industria tessile lombarda, non meno che di quella meccanica), la disponibilità di corsi d’acqua modesti in sé ma a regime perenne e quindi molto indicati a muovere gli ordigni, la presenza in Lombardia e Piemonte di un ceto medio molto attivo e desideroso di ascendere, la più facile articolazione fra agricoltura e manifattura cui si conformò felicemente la prima, e poi duratura, struttura dell’economia della vasta zona collinare, la prossimità ai maggiori centri di consumo, e poi via via tutti gli altri ben noti fattori di concentrazione e attrazione, operarono insieme a portare fra le Alpi e l’Appennino il solo centro veramente vivo dell’economia nascente. Allorché sopraggiunse il fattore nuovo dell’energia elettrica, e soprattutto allorché fu risolto il problema del trasporto a distanza della corrente, la superiorità della regione subalpina, che aveva a portata di mano le migliori fonti idriche della penisola, divenne incontrastata. I dati comparativi di sviluppo della produzione energetica offrono l’indice più sicuramente rivelatore del graduale, ma inarrestabile prevalere dell’economia settentrionale su quella centro-meridionale.
Ogni sforzo, magari costoso e dispendiosissimo, di ristabilire l’equilibrio fra Nord e Sud doveva all’atto pratico rivelarsi vano poiché scontrava contro inesorabili leggi economiche: nel Mezzogiorno non v’era posto che per industrie di prima trasformazione, le quali trovano convenienza a collocarsi o vicino al mercato di approvvigionamento della materia prima o nei pressi del mercato di smercio; ma sono disgraziatamente le industrie che non incidono profondamente nel carattere di un paese, hanno scarsa forza propulsiva, non attraggono a sé industrie complementari o collaterali.
Restava l’altra prospettiva di dividere i compiti fra le due parti d’Italia, affiancando a un Settentrione avviato all’industrializzazione un Mezzogiorno ricco di un’agricoltura progredita e capace anch’essa di rapida espansione. Dopo il 1860 la graduale scoperta della realtà meridionale aveva smorzato molte illusioni sulla fertilità di quella terra di cui il poeta antico aveva cantato che fosse in grado di produrre tutto, omnis feret omnia tellus. Giustino Fortunato sfatò per primo quella leggenda, in pagine di grande vigore letterario, anche se forse venate da un eccessivo pessimismo naturalistico: a parte la Grecia e la Spagna, egli avvertiva, non v’è nazione d’Europa che al pari del Mezzogiorno d’Italia possegga altrettante zone sterili e altrettante terre bruciate al pari del Mezzogiorno d’Italia.
Certamente un’opera di avvaloramento dell’agricoltura meridionale era possibile e appariva anzi necessaria e urgente perché attraverso l’agricoltura si sarebbe migliorata l’esistenza di una popolazione che quasi tutta viveva ancora ai suoi margini. Ma tre ragioni fondamentali contrastavano all’atto pratico una grande politica agraria.
Intanto l’indirizzo generale della politica governativa. In sede di trattati internazionali la protezione concessa all’industria settentrionale rendeva assai difficile la difesa dell’agricoltura meridionale, soprattutto per quelle che erano le sue produzioni tipiche esportabili e suscettibili di proficuo incremento. Per aiutare l’agricoltura meridionale lo Stato non trovò di meglio che tenere alto il dazio sul grano, ciò che giovò ai grandi proprietari terrieri ma fu di remora al progresso qualitativo delle coltivazioni.
Poi il disordine sociale perdurante nelle campagne, il pessimo regime di distribuzione giuridica e di godimento effettivo della terra, l’inestricabile garbuglio dei patti colonici, la miseria dei rurali, gli ostacoli frapposti dall’ambiente a qualsiasi tentativo di vasta riforma fondiaria.
Infine la carenza dei capitali, punto debole dell’economia italiana, allora e poi e sempre, di cui il Sud aveva ragione di lamentarsi assai più del Nord. L’Italia settentrionale attraverso le banche e le emissioni azionarie calamitava una parte del risparmio che faticosamente s’andava formando nella penisola, e una parte ancor maggiore pensava lo Stato a rastrellarlo con l’offerta delle cartelle del debito pubblico e con la rete capillare delle casse postali. Nitti e Fortunato deplorarono per primi questo fatto da essi non a torto giudicato assai nocivo allo sviluppo delle loro contrade, ma l’esodo dei capitali era peraltro una conseguenza assai più che una causa del ristagno dell’economia meridionale.
Se il processo evolutivo dell’economia agricola tende generalmente ad essere più lento di quello dell’economia industriale, e se esso s’arresta anzi spesso e si svigorisce del tutto quando gli manchino forti sollecitazioni, si comprende quel rimprovero di «immobilismo» che venne mosso al Mezzogiorno dagli osservatori ai quali non poteva sfuggire il confronto con il ritmo, ben altrimenti dinamico, dell’economia settentrionale. Un popolo in fase di espansione demografica, costretto ad attaccarsi a un insufficiente e mal distribuito reddito agricolo, provato da mille delusioni e pur indomabile nel suo desiderio di raggiungere una migliore condizione sociale, a un certo momento affidò tutte le sue speranze all’emigrazione. Nell’anno 1913, mentre la letteratura sulla questione meridionale riempiva ormai intere biblioteche e tutti gli esperimenti di leggi speciali erano passati senza lasciare segno concreto, mezzo milione di meridionali abbandonavano il loro paese e prendevano la via delle Americhe.
Fissati i dati fondamentali della polemica (industrializzazione e sviluppo agricolo, protezionismo e libero scambio, risparmio privato e drenaggio dei capitali, bilancio statale e distribuzione territoriale delle opere pubbliche), diagnosi e terapia dei malanni del Mezzogiorno, da qualunque parte venissero, dovevano aggirarsi in termini sostanzialmente concordi; ma alla dialettica dei teorici la realtà continuava ad opporre la dialettica ben più serrata dei fatti.
Pure l’Italia s’andava trasformando economicamente e progrediva anche, non mai raggiungendo le nazioni di testa, ma neppure estraniandosi dal grande moto della civiltà. Gli stranieri che, mezzo secolo prima, a un paese dotato di poco ferro e privo affatto di carbone avevano negata la possibilità di darsi una struttura moderna, dovevano ricredersi e riconoscere che l’Italia non era più il paese prevalentemente agricolo del 1870, che aveva ormai una sua industria pesante e avanzava in altri campi, malgrado le molte difficoltà che le si ergevano contro. Fra Milano, Torino e Genova, nel famoso triangolo, s’andava formando una zona di alta densità demografica ed economica, il cui felice sviluppo sarebbe stato errore riportare completamente ai favori delle ordinazioni statali o ai vantaggi della tariffa daziaria.
Se il segreto di un’economia aperta è oggi la capacità di rispondere alle esigenze mutevoli del mercato, con senso di pronto adattamento e duttile innovazione, passando ove occorra da una lavorazione all’altra, unendo uno sforzo di fantasia a uno sforzo di ricerca, quanto è avvenuto di recente, quanto sta avvenendo sotto i nostri occhi in molti settori dell’industria italiana, non è fatto per condurre a sconfortanti previsioni sull’avvenire economico del nostro paese.
Ma lo sviluppo dell’industria moderna ripropone continuamente grossi problemi di struttura e dimensione che mobilitano tutte le energie produttive delle nazioni più forti, e meno che meno sono affrontabili in Italia senza un imponente dispiego di mezzi, senza un’eccezionale concentrazione di iniziative e di organizzazione tecnica. L’automazione abbassa i costi di produzione ma in pari tempo opera una continua selezione delle imprese, mette a disagio quanti non sanno tenere il passo con le invenzioni scientifiche e le applicazioni pratiche, elimina i deboli. Per questo, riconosciuto che l’allineamento dell’industria nazionale su un piano di competitività mondiale è per l’Italia questione di vita o di morte, è inevitabile aggiungere che codesto allineamento, per un largo settore almeno dell’industria di trasformazione, non può essere raggiunto che dalle imprese più vecchie, più sperimentate e più forti, delle quali non è difficile mostrare l’ubicazione. La storia pare si ripeta: il Mezzogiorno che un secolo fa venne travolto dalla prima rivoluzione industriale, deve oggi fare i conti con la seconda rivoluzione, di quella assai più impetuosa e radicale.
Ma un confronto tra la frattura che divise allora l’Italia e quella che sta per dividerla nuovamente non regge oltre un certo limite, proprio per quello che è il carattere peculiare della trasformazione tecnologica di cui siamo testimoni.
Allorché in un ambiente già abbastanza sviluppato le forme produttive s’adeguano al ritmo della nuova tecnica, tutta l’economia acquista una inaspettata capacità di espansione. Ogni lavorazione, mentre è spinta a un massimo di rendimento quantitativo e unitario per la necessità stessa di sfruttare al più alto grado gli impianti, esercita anche un’azione di stimolo del quale l’intero ambiente è investito. Così le zone economicamente mature non s’arricchiscono per sovrapposizione di attività nuove, ma per rapida integrazione e assimilazione, come un organismo giovane e sano nel periodo della sua crescenza.
Nell’Ottocento lo sviluppo meraviglioso dell’industria manifatturiera, moltiplicando insieme produzione e consumi, smentì la cupa previsione di quanti affermavano che l’avvento della macchina avrebbe portato seco disoccupazione e miseria del proletariato. Oggi l’automazione sposta anch’essa i posti di lavoro ma non li annulla: i paesi di avanguardia del progresso tecnico sono anzi quelli in cui le occasioni di impiego si moltiplicano, in cui più intensa è la richiesta non solo di capitali, ma pure di macchinari, di tecnici, di specialisti, di semplici operai.
Quando l’economia è in rapida espansione la solidarietà fra le parti diversamente sviluppate di uno stesso paese tende a ricostituirsi per altra via, secondo uno schema generale, che è valido, in parte almeno, per uno Stato capitalista come l’America e uno Stato socialista come la Russia, e anche per uno Stato di struttura affatto particolare come l’Italia.
A mano a mano che il Settentrione s’arricchisce, esso consuma in più larga misura i prodotti tipici del Mezzogiorno e dà incentivo alla diffusione di quelle coltivazioni specializzate che rappresentano una delle maggiori risorse dell’economia meridionale. A mano a mano che l’industria settentrionale si rafforza ed estende, essa reclama un Mezzogiorno meno povero che acquisti i suoi manufatti, un Mezzogiorno più istruito che le dia maestranze professionalmente preparate e non solo braccianti e manovali. La contrada industrializzata aiuta a risolvere il problema della miseria che affanna la contrada agricola e povera, e vi riesce meglio di tutte le leggi speciali votate dal parlamento. Solo nel 1958 ben 120.000 meridionali si trasferirono al nord ove in non molto tempo si inseriranno nel ciclo produttivo, e il flusso migratorio interno è destinato certamente a divenire più imponente ancora nei prossimi anni.
Il Settentrione ha bisogno del Mezzogiorno. Grazie all’immigrazione dei meridionali (e dei veneti) la provincia di Milano s’avvia a raggiungere una densità di mille abitanti per kmq; e intanto la macchia che fa centro su Milano diventa più densa e più larga. Oggi l’industria non è più Milano, ma è tutta, o quasi, la Lombardia; perfino città di antica tradizione rurale, poste nel mezzo di floride zone agricole, come Pavia e Cremona, sono finite entro il grande perimetro della metropoli lombarda. Allo stesso modo — l’esempio è ancora più suggestivo e convincente — Zurigo è diventato il cuore di una zona industriale in rapida, stupenda espansione: da Zurigo a San Gallo, da Zurigo a Lucerna, da Zurigo a Basilea, non è ormai che un seguito quasi ininterrotto di opifici di ogni genere e di ogni importanza.
Ma il processo di espansione dell’economia italiana è più lento di quello d’altre nazioni, in considerazione dei molti punti deboli della nostra struttura sociale ed economica, della vastità del paese, della manifesta sproporzione fra la forza del centro motore e il grosso peso che esso deve animare e sorreggere.
Si ha un bel parlare del «miracolo» economico italiano, che in questo secondo dopoguerra sarebbe inferiore soltanto a quello tedesco, ma al tasso attuale di accrescimento dell’apparato produttivo, che non ci si deve illudere di elevare di molto, dovranno passare molti e molti anni prima che l’Italia settentrionale si sia incorporata economicamente il resto della penisola, come Milano ha incorporato la provincia dintorno a sé, e la provincia milanese sta incorporando l’intera Lombardia.
La sfortuna del Mezzogiorno non è stata dunque quella di venire congiunto con una contrada più ricca, più forte economicamente, più civile anche, che l’avrebbe ridotto a propria colonia, ma è stata semmai l’altra di diventare la parte debole ed economicamente più vulnerabile di una nazione complessivamente non abbastanza forte e progredita.
A questo punto non sarà allora del tutto avventato chiedersi quale posto il Mezzogiorno d’Italia potrebbe occupare nell’ambito di una comunità supernazionale. Intendiamo, naturalmente, una vera comunità di Stati federati, nella quale un duraturo vincolo politico faccia da cemento a una solidarietà economica altrettanto salda e continuativa.
In generale un paese ancora arretrato si eleva quando intrattiene rapporti continuati, meglio quando è portato a convivere, con altro di lui più progredito; e s’eleva tanto più rapidamente quando la superiorità di popolazione e di territorio rafforza da una parte la superiorità di sviluppo e di civiltà. Il Mezzogiorno è la sola contrada dell’Europa oggi federabile che vada classificata fra le aree depresse, la sola che abbia una struttura economica ancora semifeudale, la sola che non abbia risolti, né avviati a soluzione, i problemi della miseria, dell’analfabetismo, della disoccupazione. Un’Europa unita non potrebbe tollerare a lungo queste incrinature marginali, come non le tollererebbero gli Stati Uniti d’America nell’ultimo dei loro Stati periferici, e neppure la Svizzera nel più piccolo dei suoi cantoni. Data la proporzione delle parti, il Mezzogiorno può forse «meridionalizzare» l’Italia, come molti già temono, ma una federazione di 160 milioni di uomini, prospera, istruita, dinamica, senza fatica «europeizzerebbe» il Mezzogiorno.
Non si tratta qui di fare affidamento su interventi politici, che pure avrebbero il loro peso, quanto invece di contare su una naturale espansione della civiltà economica da una zona più densa a una zona meno densa, nel quadro di un ragionamento di cui s’è cercato di spiegare la logica.
Una grande economia in moto congloberebbe in sé il Mezzogiorno, rendendo operante e fattivo quel principio di complementarità delle economie che la crescita faticosa dell’Italia moderna ha dovuto finora sacrificare.
Come molti paesi sottosviluppati, il Mezzogiorno ha preziose risorse che non sono abbastanza sfruttate (a cominciare da quella del lavoro umano), ha ricchezze di vario genere che vanno perdute o rimangono allo stato potenziale. L’agricoltura potrebbe anzitutto dare assai più di quanto dia. Certe ,coltivazioni del Mezzogiorno sono quasi senza concorrenza nell’Europa centrale, in molte altre produzioni un buon margine stagionale assicura al Mezzogiorno una decisiva precedenza sugli altri paesi. La trasformazione in direzione intensiva e specializzata dell’agricoltura meridionale è in atto da un pezzo, ma in troppa misura è ancora opera isolata e meravigliosa del povero contadino che, inseguendo il suo sogno di indipendenza, a forza di braccia dissoda la zolla, colma la terrazza, trasporta l’acqua per creare l’orto minuscolo su cui dovrà poi vivere un’intera famiglia. Questa trasformazione per proseguire più celere e più sicura ha bisogno d’essere sorretta dall’esterno, tecnicamente e finanziariamente; la piccola e media proprietà contadina dev’essere liberata dall’incubo di un raccolto mancato, delle cambiali che scadono portando seco interessi d’usura, dei prezzi che non sono stabili e soprattutto dell’incertezza dei mercati stranieri di smercio che possono chiudersi da un momento all’altro, per una difficoltà valutaria, una tensione politica o un qualsiasi contrasto d’interessi.
Il Mezzogiorno ha spiagge bellissime e grandi attrattive naturali e storiche, ed ha, ciò che più conta, l’invidiato privilegio di poter estendere la stagione alberghiera a mesi dell’anno nei quali i fattori climatici precludono il turismo nei paesi settentrionali: fattore decisivo di successo codesto, in un’epoca in cui il turismo straripa da ogni parte e già ha preso il posto fra le industrie maggiori per impiego di mezzi e di lavoro, fra le più redditizie per l’apporto diretto e per quello che sollecita in altre attività economiche a carattere manifatturiero e artigiano. Eppure malgrado queste possibilità veramente eccezionali, finora il Mezzogiorno ha raccolto solo le briciole del turismo italiano, il quale a sua volta (le statistiche non ingannino) ha rappresentato una porzione modesta di quello europeo: e la ragione è che neppure il turismo è diventato nel Mezzogiorno una vera industria — coi suoi investimenti finanziari, i suoi quadri direttivi, le sue maestranze, i suoi rischi e i suoi profitti — ma è rimasto un’attività semi-artigiana che malamente risponde alle esigenze del mondo odierno.
In ogni campo il Mezzogiorno può dare molto all’Europa, ma esso chiede all’Europa quella spinta a mettersi in cammino, ad avvalorare le proprie ricchezze nel comune interesse, che invano ha atteso ed attende dal resto dell’Italia.
Il problema cruciale dei grossi investimenti necessari per fare uscire l’economia meridionale dal suo circolo chiuso di sottosviluppo, disoccupazione, sottoconsumo (con tutte le ben note implicazioni d’ordine morale e politico) non si risolve in sede nazionale. Quanto l’Italia sta facendo attraverso le leggi speciali — tutti oramai cominciano a convincersene — è un massimo di sforzo dal quale non si devono attendere rivoluzioni di struttura sociale. Fra qualche anno, quando la Cassa del Mezzogiorno avrà esaurito il suo ciclo e la riforma agraria sarà conclusa, il Mezzogiorno conterà qualche ponte e qualche strada di più, qualche podere modello, qualche cementeria e raffineria di petrolio e anche un grande impianto siderurgico innalzato dallo Stato, ma non per questo potrà dirsi cambiato di molto.
Non bastano le molte centinaia di miliardi di lire spese in opere pubbliche, non bastano nemmeno i capitali che giungono al Sud attraverso enti internazionali. Coi 30 milioni di dollari prestati dalla BIRS si sta costruendo la centrale elettronucleare del Garigliano; altri 120 milioni di dollari, scaturiti egualmente da accordi di cooperazione internazionale, sono andati a finanziare opere, certo utilissime, di pre-industrializzazione. Ma di ben altro si tratta quando ci si pone dinnanzi il problema globale del Mezzogiorno. Il quale, del resto, non necessita tanto di anticipazioni a medio termine quanto di apporti duraturi e, se reclama interventi pubblici, assai più attende da quegli interventi privati che finora, malgrado gli allettamenti di una legislazione di favore, sono quasi completamente mancati.
L’Italia ha maggiori disponibilità di braccia che di capitali, e per questo da decenni invano insegue il sogno della piena occupazione; ma per fortuna gli altri membri della Comunità dei Sei si trovano in condizioni opposte, hanno più strumenti di produzione che mano d’opera. Come il lavoro inoperoso si sposta verso i luoghi di maggiore richiesta, così l’iniziativa e il capitale vanno ovunque si presenti un’occasione d’impiego, non disgiunta da adeguate garanzie di sicurezza politica. Il Mezzogiorno è l’ultima grande terra in parte ancora da esplorare, entro i confini stessi di quell’Europa che ad una ad una sta perdendo le sue colonie.
Se la storia non s’arresterà a mezza strada, gli stranieri scopriranno presto che il Mezzogiorno vale più di quanto non s’è sospettato finora. Ma non è colpa solo degli uomini, se gli italiani del Nord che nel 1861 ignoravano tutto del paese posto sotto il Garigliano ed il Tronto, neppure in questo secolo di convivenza comune hanno avuto modo di conoscerlo veramente.

 

 

 

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