IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno III, 1961, Numero 5, Pagina 199

 

 

L’oltraggio, il vilipendio e la libertà politica
 
FRANCESCO ROSSOLILLO
 
 
L’evoluzione storica degli ultimi secoli ha immesso il termine «libertà» nel novero delle parole-chiave della propaganda politica tanto sul continente europeo quanto nei paesi anglosassoni, ed ha indubbiamente reso i cittadini, o almeno i migliori tra essi, in entrambe le aree, sensibili, in maggiore o minor misura, all’istanza della libertà. Ma il termine non ha assunto ovunque lo stesso significato. Sul continente «liberale» è un attributo che indica una filosofia, una Weltanschauung: e la libertà è la situazione che si viene a creare quando un paese è governato da uomini che professano questa filosofia, col paludamento giuridico del sistema rappresentativo. Una volta che c’è uno Stato liberale, inteso in questo senso, non ci si deve preoccupare più di nulla: e se gli organi di governo, in nome di questa Libertà colla L maiuscola, tengono in scarsa considerazione le umili libertà colla l minuscola, e cioè in una parola nei concreti atti di governo procedono arbitrariamente, ciò non ha molta importanza, perché la Libertà, quella che conta, continua ad aleggiare indisturbata, e non vista, sulla testa degli uomini.
Al contrario l’abito mentale empirico degli anglosassoni (che del resto dipende proprio dal fatto che quelle aree politiche hanno effettivamente sperimentato le libertà) rifugge dalla concezione continentale. Per un inglese essere libero non significa certo «vivere in uno Stato liberale» ma significa potere in qualsiasi momento criticare senza essere disturbato il capo dello Stato o le forze armate o la magistratura, avere un sistema scolastico indipendente dallo Stato ecc.
Questa contrapposizione assume un senso ben definito se si confrontano le norme giuridiche relative, per esempio, alla libertà di parola e di stampa, sul continente e in Inghilterra.[1] Dal raffronto si vede chiaramente come un’arma ideologica così potente sul continente come il mito della libertà di espressione si riveli all’esame decisamente povera di contenuto effettivo. Prenderemo in considerazione i due sistemi sotto il duplice profilo dei rapporti dei cittadini tra loro e di quelli tra i cittadini e la pubblica autorità.
 
rapporti tra privati cittadini:
diffamazione, libel and slander
Nel modo in cui diritti continentali europei e common law si pongono di fronte alla figura della diffamazione si notano alcune differenze fondamentali. Esse sono sostanzialmente queste:
1) La diffamazione sul continente è un reato e come tale cade nell’ambito del diritto penale. Nel common law invece le figure ad essa corrispondenti, cioè libel (diffamazione attuata mediante la scrittura od altre analoghe rappresentazioni aventi carattere di permanenza) e slander (diffamazione attuata per mezzo della parola parlata) sono dei torts, cioè degli illeciti civili. Solo in qualche caso il libel può essere punito penalmente, ma ciò avviene soltanto quando esso dà luogo a un breach of the peace, cioè a turbamenti gravi dell’ordine pubblico.[2]
2) In common law l’esistenza dell’illecito è subordinata al fatto che sia stata fatta un’affermazione falsa:[3] se la frase che si discute se debba sostanziare la figura del libel o dello slander è vera, ciò costituisce una scusante (justification). Nei diritti italiano e francese si verifica l’opposto: tranne che in taluni casi[4] «il colpevole… non è ammesso a provare a sua discolpa la verità o la notorietà del fatto attribuito alla persona offesa».[5]
3) In common law è irrilevante l’animus, cioè l’intenzione, colla quale la frase considerata diffamatoria viene scritta o pronunciata: «La responsabilità per libel, scrive il Lord Justice Russell[6] non dipende dall’intenzione del diffamatore ma dal fatto della diffamazione». Persino il fatto che il convenuto, cioè colui che deve difendersi in giudizio da un’accusa di diffamazione, non fosse stato cosciente di diffamare qualcuno, è irrilevante. È sufficiente cioè che la diffamazione risulti oggettivamente dalle frasi pronunciate o scritte, anche se le stesse furono pronunciate o scritte con tutt’altra intenzione, o addirittura con riferimento ad una persona diversa da quella che poi risulta di fatto offesa.[7] Solo una legge del 1952, il Defamation Act,[8] ha parzialmente addolcito questo regime, ma sul convenuto incombe ancora l’onere di produrre prove estremamente difficili per discolparsi.[9] In ogni caso egli deve provare di non aver agito nemmeno in stato di colpa, cioè con negligenza o leggerezza. Diverso è il regime del diritto italiano dove, secondo il disposto dell’art. 42 c.p. la punibilità dei delitti è subordinata al dolo, cioè all’intenzionalità, a meno di espresse eccezioni di cui non si trova parola nel titolo relativo alla diffamazione: e del resto la giurisprudenza non ha alcun dubbio in proposito.[10]
4) Il diritto inglese appare più rigido di quello italiano e di quello francese nella valutazione del concetto di pubblicazione di una notizia. Infatti i due diritti continentali subordinano l’esistenza del delitto di diffamazione alla comunicazione con più persone, anche se la giurisprudenza in entrambi i paesi ha interpretato i rispettivi dettati legislativi nel senso che il numero di due persone sia sufficiente per dar luogo al reato.[11]
In ogni caso in diritto inglese basta che un solo estraneo sia venuto a conoscenza della notizia falsa perché sussista il tort di libel o di slander. Se, per esempio, una persona prima di inviare una lettera diffamatoria al diffamato (il che di per sé non costituirebbe reato) la passa ad un impiegato perché la batta a macchina, si rende colpevole di libel.[12] Così la spedizione di un telegramma diffamatorio alla persona interessata è libel perché l’impiegato che riceve il telegramma e quello che lo trascrive vengono a conoscenza delle allegazioni contenute nel testo.[13]
5) Il diritto inglese è poi particolarmente rigido nell’estendere la responsabilità nei reati a mezzo stampa. L’art. 57 c.p. italiano stabilisce che, nel caso di stampa periodica, «chi rivesta la qualità di direttore o redattore responsabile risponde, per ciò solo, del reato commesso, salva la responsabilità dell’autore della pubblicazione» mentre, «qualora si tratti di stampa non periodica, del reato commesso risponde l’autore della pubblicazione, ovvero se questi è ignoto o non è imputabile, l’editore, ovvero, se anche questi è ignoto o non è imputabile, lo stampatore». Pertanto, anche nel secondo caso, in cui vi è responsabilità di più persone, essa responsabilità è ristretta ad alcuni soggetti espressamente elencati e la responsabilità dello stampatore è sussidiaria rispetto a quella dell’editore, questa rispetto a quella dell’autore.[14] Al contrario, in diritto inglese, tutti coloro che in un modo o nell’altro contribuiscono alla creazione o alla diffusione della pubblicazione incriminata, quindi anche il proprietario, gli operai dei giornali, i gerenti delle edicole, sono responsabili in solido e pertanto possono sempre essere citati dal diffamato.[15] Coloro, in particolare, che hanno giocato un ruolo secondario nella stampa o nella diffusione della pubblicazione, pur essendo, come già si è detto, prima facie responsabili, possono esperire una difesa[16] ma sono sottoposti al difficile onere di provare: A) che essi non sapevano che il libro o giornale contenesse il libel oggetto della citazione; B) che essi non sapevano che il libro o giornale avesse carattere tale da rendere verosimile che contenesse il libel; C) che tale ignoranza non era dovuta ad alcuna negligenza da parte loro.
Queste in sintesi le differenze tra i due sistemi in materia di diffamazione. Esse permettono già di tirare qualche conclusione. In primo luogo la natura civilistica delle figure del libel e dello slander permette già di capire che in common law questi istituti giuridici sono considerati semplicemente mezzi per dirimere controversie puramente private tra cittadini, completamente estranee a considerazioni di ordine pubblico, che invece sono sempre alla base delle disposizioni penali. Sul continente invece il potere si sente direttamente coinvolto in controversie di questo genere, e dimostra chiaramente di non vedere di buon occhio il fatto che i cittadini si impiccino degli affari altrui. Il fatto che la diffamazione sia configurata come reato, anche se procedibile soltanto su querela di parte, cioè per iniziativa dell’offeso, e rientri quindi nell’ambito del diritto penale, cioè di quelle norme che lo Stato pone a salvaguardia di un interesse pubblico, lo testimonia.
Questa conclusione è avvalorata da un’altra osservazione: quella relativa all’esistenza, in common law, contrariamente a quanto accade sul continente, della scusante della verità del fatto asserito. Dove la verità non scusa conviene tacere, e se tutti tacciono tutto va bene. I diritti continentali europei partono in fondo dal principio che in ogni caso è opportuno che nella società non nasca il benché minimo motivo di disordine e quindi che ognuno si interessi esclusivamente dei fatti propri; del resto questa situazione ha creato un vero e proprio tipo umano sul continente: l’uomo che «non vuole grane», che non mette il naso fuori di casa, che si preoccupa soltanto di «coltivare il suo giardino». Non si vuol dire con ciò che questo sia un prodotto soltanto del regime della libertà di parola: si tratta in generale di una situazione tipica del larvato assolutismo che da secoli caratterizza la politica sul continente, e del quale il regime giuridico della libertà di parola è un aspetto importante.
Certo il modo in cui la diffamazione è regolata dal common law è ben più adatto a creare dei cittadini responsabili: il principio che regge tutto l’istituto è quello di punire chi sbaglia: chi sbaglia propalando notizie false è punito dalla legge, e con particolare severità, come attestano le norme relative alla pubblicazione delle affermazioni diffamatorie e quelle concernenti la responsabilità per la diffamazione a mezzo stampa; ma chi sbaglia tenendo comportamenti che si espongono alla critica è punito dal pubblico che può stigmatizzare liberamente, protetto dalla legge, la sua condotta. Del resto non è certo un’osservazione nuova quella che nelle aree anglosassoni il controllo sociale è particolarmente intenso: e il riflesso di questa situazione sul singolo cittadino è una spinta più forte ad autocontrollarsi, a valutare con cura le conseguenze delle proprie azioni, della propria condotta. Si crea così un clima che educa i mediocri e non coarta l’individuo di moralità superiore cui il giudizio del pubblico non impedisce certo di tenere un comportamento che si allontani dagli standards etici della maggioranza. Ne nasce infine un tipo umano più responsabile, più capace di fare coscientemente le proprie scelte.
Del resto l’irrilevanza della malice, dell’intenzione, in diritto inglese, è particolarmente significativa: essa sta ad indicare che in una società libera gli individui sono considerati come dei maggiorenni, capaci di comportarsi in modo autonomo e quindi responsabili di ciò che dicono e fanno. Il considerare in larga misura irrilevante l’intenzione significa prendere sul serio l’azione, conferisce agli individui dignità e senso di responsabilità. Un largo margine lasciato all’animus, alla buona fede, all’errore, è invece caratteristico di società dominate da un potere forte e invadente, che concepisce gli individui come dei minorenni, e quindi considera più le loro intenzioni che le loro azioni, e protegge gli inetti contro gli uomini responsabili e capaci di fare i propri calcoli, perché i primi sono meno pericolosi dei secondi.
Queste prime conclusioni trovano una conferma ben più eloquente nel confronto tra la regolamentazione continentale e quella anglosassone delle libertà in parola nelle materie che interessano il potere più davvicino; cioè nella constatazione della diversa latitudine che i due sistemi lasciano alla facoltà dei cittadini di criticare l’autorità.
 
rapporti tra i cittadini e l’autorità:
oltraggio e vilipendio, fair comment
Il codice penale italiano tratta la materia nel libro II, titolo II, capo II (dei delitti di privati contro la pubblica amministrazione) e precisamente negli artt. 341 (oltraggio a un pubblico ufficiale), 342 (oltraggio ad un corpo politico amministrativo o giudiziario), 343 (oltraggio a un magistrato in udienza), 343 (oltraggio ad un pubblico impiegato); nel libro II titolo I capo II (dei delitti contro la personalità interna dello Stato) e precisamente negli artt. 278 (offesa all’onore e al prestigio del Presidente della Repubblica), 279 (lesa prerogativa della irresponsabilità del Presidente della Repubblica), 290 (vilipendio della Repubblica, delle istituzioni costituzionali e delle forze armate), 291 (vilipendio della nazione italiana), 292 (vilipendio alla bandiera o ad altro emblema dello Stato); e infine nell’art. 595 cpv. in cui viene comminato un aumento di pena nel caso che la diffamazione sia compiuta ai danni di un corpo politico, amministrativo o giudiziario e di una sua rappresentanza o di una autorità costituita in collegio. Analoga è la disciplina fissata dal diritto francese negli artt. 222-225 Cod. Pén, e negli artt. 30 e 31 della legge del 29 luglio 1891.
Nel diritto inglese invece non c’è, nel modo più assoluto, una figura giuridica che possa essere paragonata a quella continentale dell’oltraggio. Il diritto inglese cioè non tutela la dignità degli organi statali come tali, e interviene soltanto quando attraverso scritti, parole o altri mezzi di comunicazione del pensiero vengano portati gravi attentati all’ordine pubblico, venga cioè prodotto un breach of the peace. In particolare si possono ricordare i seguenti reati:
1) Il sostenere in uno scritto l’invalidità della linea di successione alla Corona fissato dall’Act of Settlement.[17] Peraltro si tratta qui della sopravvivenza di una disposizione determinata, nel 1707, da circostanze del tutto eccezionali e che è ricordata nei trattati come curiosità.
2) Alcuni reati che rientrano sotto il titolo di Sedition, e che consistono in parole, atti o scritti intenzionali, che causano o intendono causare: a) malcontento o insoddisfazione o b) malvolere tra differenti gruppi o c) disordine pubblico o guerra civile o d) odio nei confronti del sovrano o del governo, delle leggi o della costituzione del regno e, in generale, tutti i tentativi di dar luogo a disordini pubblici o di incitare ad associazioni illegali, insurrezioni o breaches of the peace.[18] Quindi il diritto inglese non distoglie mai la propria attenzione dall’unico scopo di impedire disordini e ricorsi alla forza. Del resto il Kenny[19] pone chiaramente in luce questo fatto, iniziando così la trattazione del reato di sedition: «Ogni cittadino ha diritto di discutere i pubblici affari pienamente e liberamente, ma tali discussioni non devono essere intese alla sobillazione di atti illegali o dirette a causare ostilità (disaffection)».[20]
3) Alcuni reati compresi sotto il titolo di incitement to disaffection e precisamente: a) il tentativo cosciente di indurre un membro delle forze armate di Sua Maestà a trasgredire ai propri doveri; b) l’essere in possesso di documenti atti a tale scopo; c) il pronunciare parole in luogo pubblico atte a causare un breach of the peace.[21]
Queste figure di reato si possono far corrispondere a quelle delineate, per esempio, dal nostro codice penale negli artt, 226 (istigazione dei militari a disobbedire alle leggi), 272 (propaganda ed apologia sovversiva e antinazionale), ecc. od ai corrispondenti reati del codice penale francese.[22] Sono punite cioè soltanto azioni che mirano direttamente a indebolire determinate istituzioni dello Stato, istigando alla disobbedienza, o alla rivolta o al sabotaggio: non è invece mai presa in considerazione l’azione che ha come effetto quello puro e semplice di diminuire il prestigio dello Stato o di una istituzione statale, che invece nei diritti continentali sostanzia i delitti di oltraggio e vilipendio.
Le specifiche figure dell’oltraggio e del vilipendio appaiono quindi come tipicamente continentali e prive di qualsiasi riscontro nel diritto inglese. E non basta. Non solo oltraggio e vilipendio non compaiono in common law, ma anche gli altri reati che sono stati elencati, e in, particolare il più importante di essi, la sedition, non acquistano importanza rilevante.
Uno sguardo ai Law Reports basta a convincere che le ipotesi di treason, di sedition e di incitement to disaffection sono rarissime, tanto che capita di sfogliare i volumi di numerose annate consecutive senza trovarne un solo esempio.
Del resto per illustrare, l’estrema cautela con cui i giudici inglesi si pongono sempre di fronte a processi di sedition, sarà opportuno riferirsi al caso R. v. Caunt, dibattuto di fronte alle assise di Liverpool nel 1947.[23] Era questione di un giornalista che aveva scritto la seguente frase: «Se gli ebrei inglesi soffrono della giusta indignazione della cittadinanza britannica, essi non devono che incolpare se stessi per la loro passiva inattività. La violenza è il solo mezzo per dar loro senso di responsabilità nei confronti del paese in cui vivono». Tale frase appariva tanto più grave quando si pensi che il periodo in cui la causa si dibatteva era ancora caldo e la memoria del razzismo nazista viva. Inoltre la frase apparentemente soddisfaceva al requisito di suscitare un sentimento di odio nei confronti di determinati gruppi di cittadini e di incitare a un breach of the peace. Il giudice Birkett, al termine del dibattimento, rivolgeva ai membri del jury un indirizzo dal quale stralciamo alcuni passi:
«Non è sufficiente provocare semplicemente ostilità o malvolere, perchè ciò può essere fatto con discorsi (speeches) che certamente non entrano nel concetto di seditious libel. La sedition è sempre stata implicita nelle parole disordine pubblico, tumulto, insurrezione o cose di questo genere. Pertanto la semplice questione che voi dovete determinare è la seguente: è provato al di là di ogni ragionevole dubbio che il 6 agosto 1947, a Morecambe nella contea di Lancaster, scrivendo e pubblicando un articolo sul giornale The Moracambe and Heysham Visitor, James Caunt ebbe l’intenzione di promuovere una violenza suscitando ostilità e malvolere tra differenti classi di sudditi di sua Maestà?».
Il Giudice prosegue parlando a lungo a favore della libertà di stampa e facendo chiaramente intendere al jury che il verdetto deve essere assolutorio. Egli cita tra l’altro un parere di Coleridge, J. del 1910 che suona così: «È del tutto vero… che un’azione per seditious libel è un’eventualità eccezionale. Si tratta di un’arma che non è presa spesso dall’arsenale in cui è posta, ma che deve necessariamente essere disponibile in ogni Stato civile; ma essa è suscettibile di venire abusata e, se questo caso si verifica, esiste un salutare correttivo e questo è un jury di Inglesi, come voi… Un uomo può esprimere nel pieno diritto la propria opinione su qualsiasi materia di carattere pubblico, per quanto possa riuscire sgradevole o ripugnante agli altri, sempre che ovviamente egli non ricorra ad espressioni diffamatorie, e sempre che eviti qualsiasi cosa che possa essere caratterizzata come blasfema o oscena. Questioni di Stato, questioni politiche, perfino questioni di morale, tutte gli sono aperte. Egli può esprimere liberamente le sue opinioni, le può sostenere con argomenti, può tentare di persuadere altri a condividerle. Le corti e i juries non sono giudici in queste questioni. Se, per esempio, egli pensa che un dispotismo, o un’oligarchia, o una repubblica o perfino l’assenza completa dello Stato costituisca il mezzo migliore per condurre gli affari umani, egli è perfettamente libero di dirlo. Egli può prendersela coi politici, può attaccare i governi, può mettere in guardia l’esecutivo in carica contro una certa politica; può tentare di dimostrare che ribellioni, insurrezioni, oltraggi, assassinii eccetera sono i naturali, deplorevoli, inevitabili risultati della politica che egli combatte». E Birkett J. conclude su questo punto: «Così, membri del jury, desidero che in questo caso voi non abbiate alcun dubbio circa questa questione, cioè sull’importanza di conservare la completa libertà di stampa in riferimento alle materie che ho indicato».
Quindi in diritto inglese data la riluttanza a «prendere dall’arsenale in cui è posta» l’«arma» della sedition, si fa normalmente uso dell’azione per libel o slander anche in molti dei casi nei quali il diritto italiano configurerebbe i reati di oltraggio o vilipendio. Ma è appunto qui che intervengono alcune fondamentali caratteristiche del diritto inglese che finiscono di dimostrare le enormi differenze sussistenti tra esso e i diritti continentali. Il diritto inglese praticamente considera scusanti quelle stesse circostanze che in diritto italiano o francese danno luogo ad aumenti della pena o addirittura configurano un reato più grave. In particolare:
I) Esistono alcuni casi in diritto inglese in cui espressioni e allegazioni che ordinariamente giustificherebbero una condanna per diffamazione sono protette da un privilege;[24] tale protezione si applica in numerose occasioni, ma quella che qui ci interessa maggiormente riguarda le affermazioni fatte in adempimento di un dovere (anche morale) pubblico. In questi casi le affermazioni fatte coll’intenzione di adempiere ad un dovere non sono punibili anche se false, appunto perché l’applicazione del rigore caratteristico del regime normale dei torts di libel and slander in questo campo potrebbe allentare il controllo della pubblica opinione su persone che ricoprono cariche di pubblico interesse. Si è ritenuto per esempio che rientrassero in questa categoria alcune affermazioni fatte da un elettore e indirizzate agli altri elettori della sua circoscrizione, relative alla vita passata di un candidato nelle elezioni che, se vere, lo avrebbero reso inadatto a rappresentare gli elettori stessi;[25] ora, in questo caso, il diritto italiano non commina aggravanti specifiche: ma è comunque indicativo il fatto che il diritto inglese non ritiene che in esso sussistano gli estremi della diffamazione; ed è certo che, qualora ricorrano gli estremi della esecuzione del dovere morale e della comunicazione alle persone interessate, lo stesso regime viene applicato anche nelle ipotesi in cui il codice penale italiano commina delle aggravanti o addirittura configura reati specifici diversi dalla diffamazione, come l’oltraggio.
II) Un secondo aspetto di estremo interesse del regolamento della materia da parte del diritto inglese si ha nella difesa del fair comment.[26] Secondo le norme che vanno sotto questo nome non sono punibili espressioni anche se severe ed esagerate indirizzate ad una persona purché: 1) costituiscano un commento ad un fatto vero; 2) non siano malicious cioè siano «l’onesta espressione della reale opinione del convenuto, quando le scrisse»;[27] 3) si riferiscano ad una questione di pubblico interesse cioè: a) la condotta pubblica di un uomo che detiene o cerca, un ufficio pubblico o una posizione che comporta la fiducia del pubblico; b) questioni politiche e di Stato; c) questioni ecclesiastiche; d) amministrazione della giustizia; e) gestione di istituzioni pubbliche; f) amministrazione di affari da parte di autorità locali: quindi, con in più alcune questioni di interesse generale ma non politiche, tutte le questioni che in diritto italiano comportano aggravanti al delitto di diffamazione o danno luogo alla figura dell’oltraggio.
Ma non è tutto. Se infatti prendessimo alla lettera il quadro sopra tracciato, che abbiamo preso dal volume del Gatley, dovremmo concludere che la disciplina del fair comment non costituisce un’innovazione molto rilevante rispetto alla regolamentazione normale dei torts di libel and slander. Il giudice Donovan infatti, in un parere citato dal giudice Jenkins in Grech v. Odhams Press LTD and Another. Addis v. the same ([1958] 2 QB 275) nota che la difesa del fair comment sarebbe sostanzialmente priva di contenuto qualora fosse rigorosamente osservata la condizione della verità del fatto, in quanto tale eventualità costituisce già una scusante di carattere generale che in ogni caso sottrae l’imputato alla condanna, indipendentemente dalle altre condizioni che integrano la figura del fair comment. Inoltre è da rilevare che non è facile distinguere una semplice valutazione offensiva dall’allegazione precisa di un fatto. La giurisprudenza inglese non ha per questo rinunciato a servirsi della figura del fair comment, ma ha ritenuto di interpretarne la natura in un senso che si allontana sensibilmente dal testo letterale delle formulazioni statutarie. Essa cioè si attiene costantemente alla norma di usare una maggior larghezza nella valutazione di espressioni offensive usate nei confronti di personalità della vita pubblica, sempre beninteso, entro certi limiti (che non si tratti cioè di un’allegazione di un fatto palesemente falso e che l’accusa non sia chiaramente pronunciata in mala fede). Il fatto è che la vera ispirazione del diritto inglese in questi casi è quella espressa da Cockburn J, in Wason v. Walter:[28] «…chi può dubitare che il pubblico profitta dello scambio e che, sebbene possa essere fatta ingiustizia e sebbene dei public men possano spesso soffrire per i torti inflitti da critiche ingiuste, la nazione è avvantaggiata dal fatto che l’opinione pubblica è così liberamente portata a intromettersi nel disbrigo dei pubblici doveri? ». E Lord Esher, M.R. in Marivale v. Carson[29] afferma: «Ogni larghezza deve essere concessa all’opinione e al pregiudizio… Una semplice esagerazione, anche una grossa esagerazione non rende il commento unfair. Per quanto errata possa essere l’opinione rispetto alla verità o per quanto dominato da pregiudizi lo scrittore, egli può sempre rimanere entro i limiti prescritti…».
Indicativo è anche un parere di Bray, J. in R. v. Russel:[30] «Quando vi imbattete in una questione di fair comment dovete essere estremamente liberali, e in particolare dovete esserlo in una questione di questo tipo, relativa all’amministrazione della Licensing law perché è una questione in cui le menti degli uomini sono scosse, nella quale la gente ha opinioni molto, molto decise, e se essi usano un linguaggio deciso deve essere usata ogni tolleranza in loro favore… Se sono stati fatti commenti che appaiono esagerati, non ne consegue che essi non siano commenti perfettamente onesti».[31] Ben diverso è l’atteggiamento che assumono i diritti francese e italiano nella valutazione di questo genere di offese. Una sentenza della Corte d’Appello di Riom per esempio, afferma:[32] «Constitue l’outrage à magistrat prévu et réprimé par les art. 222 et 223 C. pén. le fait de dire au commissaire du gouvernement près d’une cour de justice: ‘Si ce sont les applaudissements de deux ou trois ivrognes que vous prenez pour ceux de la salle, je vous les laisse’, alors que les témoins entendus au cours de l’information soulignent nettement l’attitude insolente du prévenu et le ton d’ironie outrecuidant avec laquelle ces propos furent proférés, insolence et ironie qui caractérisent l’outrage et suffisent à dénoter l’intention délictuelle. En effet, il n’est pas nécessaire que les paroles retenues soient caractérisées par des mots grossiers et par un terme de mépris ou d’invective, l’art. 223 C. pén. n’exigeant pas, au surplus, que les paroles tendent à inculper l’honneur ou la délicatesse du magistrat outragé».
E anche i giudici italiani non scherzano. Dice per esempio una sentenza della Cassazione:[33] «Configura il reato di cui all’art. 290 (nell’ipotesi di vilipendio all’ordine giudiziario) affermare o avanzare il sospetto che il giudice astrattamente considerato, per pressioni del potere esecutivo o dei partiti politici possa non giudicare con rettitudine e con rigorosa imparzialità, e comunque, possa discostarsi da quei criteri che valgono a dare alla sentenza il valore di una affermazione di verità e di giustizia».[34] Un’enunciazione del genere equivale semplicemente a negare del tutto la facoltà di esercitare una qualsiasi critica, indipendentemente dal tenore dei termini usati, nei confronti di determinate istituzioni e di determinati uomini. Del resto un’altra sentenza della Corte di Cassazione è esplicita in questo senso. In essa si afferma:[35] «Il delitto di vilipendio non richiede dolo specifico. Pertanto è irrilevante la finalità di critica, quando questa, esorbitando dai limiti in cui è lecitamente esercitabile, trascende in manifestazioni ingiuriose contro l’istituzione tutelata». Dove il termine “manifestazioni ingiuriose” ha un significato estremamente ampio, tanto da arrivare a comprendere allegazioni come quella punita dalla sentenza precedente.
È stato poi ritenuto vilipendio alle forze armate il fatto di qualificare “selvaggi” gli attacchi della polizia in determinate occasioni,[36] il fatto di affermare che il corpo delle guardie di P.S. è costituito da elementi identici a quelli che componevano le squadre di azione fascista,[37] il fatto di sostenere che “nella polizia vi sono dei manganellatori che si avventano persino contro donne, vecchi e bambini”.[38] Ed è stato infine ritenuto colpevole di vilipendio alle forze armate “colui, che commettendosi il reato in sua presenza, non interviene decisamente per impedirne la prosecuzione”.[39]
Rimane un’ultima interessante particolarità da trattare rispetto al regolamento che trovano nei due sistemi le offese portate a entità collettive. In diritto inglese i torts di libel and slander conseguono ad affermazioni fatte al riguardo di un gruppo soltanto se esse si riflettono individualmente su alcuni o ognuno dei componenti il gruppo stesso. In tal caso gli individui colpiti potranno citare in giudizio l’autore della diffamazione. In ogni caso il gruppo come tale non potrà mai procedere giudizialmente. Soltanto in un caso ciò potrà avvenire, cioè quando oggetto della diffamazione sia una corporation o firm e quando la propagazione di notizie false sia suscettibile di danneggiare economicamente l’impresa. Tale irrilevanza delle offese portate ad una classe comporta a maggior ragione l’irrilevanza di offese portate a entità simboliche (come la bandiera) o ideologiche (come la nazione), offese che non toccano nessuna persona in particolare e che non provocano pregiudizi economici a chicchessia.
Si è già visto nella trattazione svolta sopra come questo sia esattamente il contrario di ciò che si verifica nei diritti italiano e francese dove il fatto di aver diretto l’offesa contro un corpo collettivo (pubblico) configura un’aggravante al reato di diffamazione e sostanzia i reati di oltraggio e vilipendio (quest’ultimo anzi, nel diritto italiano, si concreta anche a seguito di offese dirette, come si è già visto, contro entità simboliche come la bandiera, o ideologiche, come la nazione). E il fatto che i due diritti continentali si preoccupino ben più di proteggere il prestigio della pubblica istituzione che dell’individuo che eventualmente ne sia membro si rileva appunto da reati come quelli di oltraggio a pubblico ufficiale, a magistrato in udienza, a pubblico impiegato, dove l’individuo non è protetto nel suo onore come individuo, ma come membro di una certa istituzione: per cui la protezione si rivolge esclusivamente a quest’ultima. È sintomatico del resto il fatto che il diritto francese sancisce espressamente nell’art. 47 della legge 29 luglio 1889 che nel caso di ingiuria o di diffamazione verso un pubblico funzionario l’azione potrà essere intentata anche dal ministro dal quale il funzionario dipende. Da cui si arguisce facilmente come alla legge interessi tanto poco difendere il prestigio dell’individuo colpito che non gli lascia nemmeno la facoltà di tutelarlo come meglio crede.
Le differenze tra i due sistemi nella disciplina generale di questi rapporti è di per sé eloquente. Mette conto a questo punto di fare una sola osservazione a proposito dell’ultimo punto toccato, cioè della diversa disciplina delle espressioni diffamatorie o ingiuriose dirette verso entità collettive (pubbliche in particolare). Il modo di considerare queste ultime proprio del diritto italiano e francese testimonia dell’allontanamento dall’empiria che è proprio del linguaggio politico sul continente, e che è tutt’altro che privo di ragioni. L’obiettivo del potere è sempre quello di sostituire agli occhi del pubblico, agli uomini che detengono il potere e che prendono le decisioni, delle entità collettive, che non devono essere colpite perché sono cosa diversa dai loro membri. Sono entità che hanno un onore, una reputazione, ma non una responsabilità. Il diritto inglese non perde mai di vista il fatto che le entità collettive non sono mai cosa distinta dagli individui che le compongono, e pertanto ritiene assurdo comminare pene più gravi per offese portate al gruppo che per offese portate a singoli membri e non permette di intentare causa se non ai singoli membri del corpo che si sentono personalmente colpiti attraverso le frasi scritte e pronunciate a proposito dell’entità collettiva. In diritto italiano e francese invece si procede d’ufficio con pene più gravi senza curarsi di tale requisito; non solo ma si procede anche contro oltraggi portati a entità che non hanno membri, come la bandiera, o che non hanno membri definiti, come la nazione.
Il risultato di tutto ciò è quello di sottrarre a qualsiasi controllo e critica una gran parte delle decisioni politiche, amministrative e giudiziarie e a qualsiasi responsabilità gli individui concreti che le prendono, mettendoli al riparo di grossi nomi impersonali e irresponsabili, i grossi nomi di cui è costellato il linguaggio di tutti i regimi tendenzialmente autoritari.
 
conclusione
È un principio consolidato dei diritti continentali europei che la libertà di parola debba essere strettamente limitata, specialmente in certi settori, in nome delle esigenze della sicurezza dello Stato. E si tratta di limitazioni per lo più accettate, tanto che chi si rende colpevole di reati come l’oltraggio alle istituzioni costituzionali o il vilipendio alle forze armate passa facilmente, agli occhi della opinione pubblica, per disfattista. E per disfattista passa anche chi offende la «nazione», cioè una entità inesistente ma utile come feticcio ideologico per garantire il potere dei governanti.
Indubbiamente, se il potere sente la necessità di provvedersi di questi mezzi di difesa per la tutela della sua solidità e della sua stessa esistenza, una ragione c’è. Gli Stati del continente, sempre esposti all’invasione militare, hanno sempre dovuto concentrare il potere e impegnare tutte le loro risorse materiali ed umane sul piano militare per mantenersi contro le spinte egemoniche. In queste condizioni, l’infrangere il fronte interno è in realtà disfattismo, e mette in pericolo l’esistenza stessa dello Stato: perciò in Europa non c’è mai stato posto per ampie libertà individuali.
Ma i paesi anglosassoni dimostrano che esistono Stati e sistemi giuridici in cui le libertà individuali hanno un’estensione ben più ampia che sul continente. In essi le considerazioni relative alla sicurezza dello Stato giocano una parte molto minore nella mente del legislatore e del giudice. Certo si tratta anche qui di una situazione che, come nel caso precedente, ha una causa ben precisa: i secoli di «insularismo» che, sottraendo lo Stato alla minaccia di invasione terrestre, resero il potere centrale più limitato, meno oppressivo e perciò più stabile, meno preoccupato di essere abbattuto. Ciò non autorizza tuttavia gli europei a considerare la loro situazione come ineluttabile e ad adagiarvisi; la frase che tanto comunemente si dice con tono rassegnato: «l’unico modo per governare l’Italia è quello del pugno di ferro» è la filosofia di chi, nella ricerca della libertà, non comprende che, con la fine del sistema europeo degli Stati, le fondamenta del vivere civile stanno crollando e devono essere rifatte, di chi cioè non vuole o non sa mettere in discussione un termine del problema, nella fattispecie il termine essenziale, l’Italia (o la Francia o la Germania) come Stato sovrano. È per questo che basta un’Algeria, o un Sud-Tirolo, o Berlino, per rendere fascisti anche gli Europei che si credono più liberali, e quindi per dar ragione a coloro che fascisti sono sempre stati. Bisogna infine porsi il problema di qual è lo Stato che può garantire la libertà: se questo Stato non è l’Italia, o la Francia o la Germania, la politica di chi cerca la libertà non può consistere che nel tentativo di abbattere queste strutture e di crearne un’altra che sia all’altezza dei suoi compiti.


[1] Nel caso specifico si prenderanno in esame per i diritti continentali soltanto il diritto italiano e quello francese che si possono ritenere sufficientemente rappresentativi, e, per ciò che concerne il common law si prenderanno in considerazione prevalentemente casi inglesi, tanto che in genere nel testo si parla di diritto inglese tout court; in entrambi i casi la scelta dei «campioni» è stata determinata esclusivamente dalla contingente maggior facilità nel reperire la documentazione.
[2] Cfr. Gerald Abrahams, The law for writers and journalists, London, 1958 pp. 100 sgg. e casi ivi citati; v. anche R. v. Wicks (1936) 25 C. App. R. 168 citato anche da Turner and Armitage, Cases on criminal law, Cambridge 1953, p. 190.
[3] Cfr. Gatley, On libel and slander, London 1954, p. 156, e casi ivi citati; O’Sullivan & Brown, The law of defamation, London 1958 pp. 53 sgg. e casi ivi citati; v. anche Helsham v. Blackwood and another [1851] 11 KB 111 citato anche da Kenny, Cases on the law of torts, Cambridge, 1928, p. 352; R. v. John Henry Newman D.D. (1853), 1 E. and B. 268, 558, citato da Turner & Armitage, cit., p. 191; Roberson v. the Rochester Folding Box, Company and others (1902) 171 NY 538, citato anche da Kenny, cit. p. 364; Cadam and others v. Beaversbrook Newspapers LTD [1959] 1 QBD 413.
[4] Art. 596 Co., 3° Cod. Pen.
[5] Art. 596 Cod. Pen. In diritto francese, analogo è il dettato dell’art. 35 della legge 29 luglio 1881.
[6] In Cassidy v. Daily Mirror [1929] 2 KB 304 citato anche da Gatley, cit. Cfr. anche Bromage v. Prosser (1825), ined. citato da Kenny, cit. p. 306; Jones v. Hulton (1910) AC 20, citato anche da Kenny, cit. p. 354; R. v. Munslow [1895] 1 QB 758 citato anche da Turner & Armitage, cit. p. 188; Newstead v. London Express Newspaper [1940] l KB 377. V. anche Abrahams, op. cit., p. 85 sgg.
[7] V. O’Sullivan & Brown, op. cit. pag. 34 e casi ivi citati.
[8] Cfr. Gatley p. 119 sgg.
[9] Cfr. Gatley p. 376 sgg.
[10] Cass. 25 gen. 1958, Giust. Pen., 1958, II, 1054; Trib. Cagliari 14 feb. 1958, Riv. it. dir. proc. pen. 1189 (1958); Cass. 10 dic. 1957 Giust. Pen., 1958, II, 452; Cass. 21 dic. 1957, Giust, Pen., 1958, II, 453.
[11] Per la giurisprudenza italiana v. Cass. 12 lug. 1957 Giust. Pen., 1958 II, 48; per quella francese v. Trib. corr. de Mons, 27 oct. 1953, S. 1954.4.34.
[12] V. Gatley, p. 86 e casi ivi citati O’Sullivan & Brown pp. 36 sgg. e casi ivi citati; v. anche Pullman and another v. Hill and Co. [1891] l QB 529 citato anche da Kenny, p. 296.
[13] V. Gatley, p. 87.
[14] In diritto francese v. l’art. 42 legge 29 luglio 1881, sostanzialmente analogo.
[15] V. Gatley p. 94 sgg. O’Sullivan & Brown pp. 39 sgg.
[16] V. Gatley, pp. 97 sgg.
[17] Cfr. Cross and Jones, An introduction to criminal law, London 1949 p. 246. Questa è l’unica eventualità che configura il crime di treason ed è ormai completamente obliterata, tanto che il Trinity College di Oxford continua a tenere chiusi certi cancelli che non potranno essere riaperti fino a che gli Stuarts non ritorneranno sul trono, senza che nessuno si sogni di impedirglielo. Pertanto il semplice insulto al re lungi dal configurare il reato di treason passa completamente impunito tanto che Abrahams (p. 135) fa osservare come «oggigiorno è una occupazione redditizia quella di insultare il monarca vivente, e ciò è fatto impunemente». Tutti gli altri reati, compresa la sedition non sono crimes ma misdemeanors (ivi p. 136).
[18] V. Cross and Jones, An introduction to criminal law, London 1949, pp. 249 e Harris and Wilshere, Criminal law, London 1943, p. 110; Kenny, Outlines of criminal law, Cambridge, 1952 p. 326.
[19] Kenny, Outlines cit. p. 326.
[20] Quindi il vero concetto di sedition è molto più stretto di quanto non appaia dalle formule sopra riportate. Abrahams (op. cit. p. 136) ricorda che fin dal 18° sec. i precedenti si sono cristallizzati nel senso che «solo le organizzazioni pratiche che provocano tumulti e che perseguono i loro scopi tanto con azioni che con parole, sono considerate come perseguibili».
[21] Cross and Jones, Op. cit. p. 259.
[22] Il diritto penale inglese punisce soltanto i words as events che cioè producono conseguenze sull’ordine pubblico e si disinteressa dei words as truth-functions.
[23] Cfr. Turner & Armitage, cit. p. 387.
[24] Cfr. Gatley, p. 195; O’Sullivan, 67 sgg. Abrahams, 108 sgg. Sostanzialmente i privilegi possono essere di due tipi: absolute privilege e qualified privilege. Chi è protetto da un absolute privilege non può essere condannato in nessun caso, chi è protetto da un qualified privilege può esserlo soltanto se l’attore prova che egli ha agito maliciously. Il caso sopra considerato di frasi pronunciate in adempimento di un dovere e rientra in un’ipotesi di qualified privilege.
[25] Questa eventualità ritorna in molti casi. Cfr. Gatley, p. 243, O’Sullivan, 77 sgg. e casi.
[26] Cfr. Gatley pp. 335 sgg., O’Sullivan, 113 sgg.
[27] Da un parere di Fletcher Moulton L. J., in Plymouth Mutual v. Traders Association LTD [1906] 1 KB, cit. anche da Gatley, p. 353.
[28] [1868] 4 QB 73 cit, da Kenny. Cases ecc. cit, pp. 328-29.
[29] [1887] 20 QB 275, cit, da Gately p. 357.
[30] Unreported, 2 dic. 1905, cit. da Gatley, p. 356.
[31] Apparentemente fa eccezione il Contempt of Court ma tale reato ha sopratutto la funzione di proteggere l’equanimità dei giudici sottraendoli a qualsiasi influenza indebita. Esso ha un ambito di applicazione piuttosto impreciso, ma concerne sopratutto eventuali affermazioni fatte da parte della stampa circa fatti non provati, prima che il processo si concluda. Esso interviene quindi spesso a tutela dell’imputato e in ogni caso, considera sempre le parole «as events» e mai «as truth functions» Cfr. Abrahams, op. cit. pp. 22 e 172 sgg.; Patrick Devlin, The Criminal prosecution in England, Oxford 1960, p. 90.
[32] 20 fév. 1947 S. 1947.2.87.
[33] Cass. 17 dic. 1956, Giust. Pen. 1957, II, 922.
[34] Altri casi abbastanza grotteschi sono i seguenti: «Sussiste il reato di oltraggio nell’espressione: «è inutile che si riscalda» (sic) pronunziata dall’imputato all’indirizzo del pretore che giustamente lo aveva redarguito» ecc. (Cass. 19 nov. 1954, Giur. Cass. Pen. 1954 6° bim. 465 (m). «Commette il reato di oltraggio a un pubblico Ufficiale, previsto dall’art 341 c.p. chi offende l’arbitro di una partita di calcio durante o al termine della partita per il modo col quale dirige o ha diretto la gara» T. Min. Firenze 7 dic. 1954 Foro 1954 III 216 (n.).
[35] Cass. 4 feb. 1955, Archivio Pen. II, 702 e 704.
[36] C. Assise app. Bologna 13 genn. 1955. Critica pen. 1955.
[37] Cass. 7 mag. 1954, Giur. Cass. Pen. 1954 4-5 bim. 266.
[38] Cass. 7 ott. 1954, Archivio Pen., 1955 II, 703.
[39] T. supr. mil. 2 dic. 1955, Foro 1956, II, 124.

 

 

 

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