Anno XXXVIII, 1996, Numero 1, Pagina 15
Democrazia, regionalismo e Pax africana
ALI A. MAZRUI
La democrazia in Africa è stata danneggiata o distrutta dalle conseguenze di tre fattori interconnessi: i confini artificiali creati dal dominio coloniale, gli eserciti permanenti ereditati da esso e il grave divario fra le nuove istituzioni politiche e la vecchia eredità culturale.
I confini artificiali in alcuni casi hanno unito gruppi che, prima dell’esperienza coloniale, non hanno sperimentato responsabilità comuni di governo; in altri casi hanno separato gruppi che avrebbero dovuto essere mantenuti uniti. Tutto ciò ha generato spesso fortissime tensioni durante il cammino verso la democrazia.
Gli eserciti permanenti ereditati dal dominio coloniale hanno ripetutamente dimostrato che in Africa il potere in ultima istanza non appartiene a coloro che controllano i mezzi di produzione, ma i mezzi di distruzione. In Africa i militari hanno spesso compromesso il processo democratico, mettendo in atto continui colpi di Stato proprio attraverso il controllo dei mezzi di distruzione.
Il terzo fattore che ha destabilizzato la democrazia in Africa è stato il divario fra le nuove istituzioni politiche postcoloniali e il persistere di vecchie tradizioni culturali. I nuovi «guanti» politici non necessariamente sono adatti alle vecchie «mani» culturali. La democrazia diventa casuale in questa situazione di inadeguatezza.
Il peso rispettivo di questi tre ostacoli alla democrazia varia da paese a paese. In Ruanda e Burundi, ad esempio, i confini non sono del tutto artificiali: gli Hutu e i Tutsi hanno convissuto per secoli. Per quale ragione, dunque, nella seconda metà del XX secolo i due gruppi hanno continuato a perpetrare genocidi l’uno contro l’altro? In questi due Stati hanno avuto una influenza maggiore gli altri due ostacoli alla democrazia citati prima. Le contrapposizioni fra le due etnie ora non possono contare sulle vecchie istituzioni che garantivano la risoluzione dei conflitti. In mancanza di queste l’alternativa è stata procurarsi nuove armi di distruzione reciproca. In paesi come la Nigeria o l’Uganda, d’altra parte, tutti e tre gli ostacoli alla democrazia sono entrati in gioco.
Come può dare un contributo positivo l’integrazione regionale? Paradossalmente, per paesi come il Ruanda e il Burundi bisognerebbe creare confini artificiali, persuadendoli a unirsi in una federazione con la Tanzania. Questa federazione renderebbe davvero artificiale il contesto territoriale dei due Stati, che diventerebbero parte di uno Stato decisamente meno omogeneo ma un po’ più stabile.
D’altro lato, gli eserciti Rutu e Tutsi o verrebbero congedati, oppure diventerebbero parte di un più ampio esercito della Repubblica unita di Tanzania. I soldati delle due etnie cesserebbero di essere gli uni un bersaglio per gli altri, ma sarebbero integrati in unità militari lontane dal luogo di origine, in altre parti della Tanzania. Essi si renderebbero conto di ciò che hanno in comune attraverso il confronto con gli altri abitanti della Tanzania e il divario fra le nuove istituzioni politiche e le vecchie realtà culturali verrebbe parzialmente attenuato da una sorta di riunificazione culturale.
Tale unificazione regionale, nel migliore dei casi, favorirebbe la stabilità di Ruanda e Burundi senza destabilizzare la Tanzania: un livello minimo di stabilità è indispensabile per la democrazia.
Sempre riferendosi al migliore dei possibili scenari, una federazione volontaria di norma stabilisce garanzie costituzionali per tutti gli aderenti, inclusa, probabilmente, una Carta dei diritti. Sebbene il costituzionalismo non coincida con la democrazia, tuttavia esso è una importante precondizione per un ordinamento democratico sano. Una federazione fra Ruanda, Burundi e Tanzania, unendo i tre Stati, favorirebbe la nascita di un ordinamento costituzionale democratico.
Ma sono possibili tali federazioni nell’Africa post coloniale? A questo punto ci si deve confrontare con la difficile storia del panafricanesimo come strumento di lotta per l’unità africana. Consideriamo dunque più attentamente questo argomento più ampio.
Panafricanesimo: liberazione contro integrazione.
Possiamo iniziare sottolineando un dualismo fondamentale all’interno del paradigma del panafricanesimo: la distinzione, cioè, fra panafricanesimo della liberazione, da una parte, e dell’integrazione (o unificazione), dall’altra. Il Presidente fondatore del Ghana, Kwame Nkrumah, può essere considerato un rappresentante eminente di entrambe le tendenze.
Nella seconda metà del XX secolo è prevalsa la prima tendenza, basata sulla solidarietà degli Africani in lotta contro il colonialismo, il razzismo e l’apartheid. Queste battaglie hanno ottenuto impressionanti e notevoli risultati. La seconda tendenza, al contrario, è andata incontro a scoraggianti insuccessi. Essa ha mirato a creare forme di integrazione regionale — o almeno a dar vita a un’area di libero scambio, o a una alleanza per lo sviluppo, oppure a una Unione o Comunità economica. In qualche caso si è cercato di avviare la cooperazione militare, e il progetto più avanzato è stato quello di creare delle vere nuove federazioni fra vari Stati nazionali. Molto tempo prima che emergesse l’idea di una federazione tra Ruanda, Burundi e Tanzania, si discuteva di progetti come la East African Community, comprendente Kenia, Tanzania e Uganda.
Ma questa forma di panafricanesimo è fallita. Gli Africani sono più disposti ad unirsi per la libertà che per lo sviluppo, e la solidarietà in vista dell’indipendenza politica è stata più facile da praticare rispetto a quella mirante alla trasformazione economica e sociale collettiva. Kwame Nkrumah ha simboleggiato questo amaro paradosso. Egli condusse il Ghana all’indipendenza nel 1957 e fu l’ispiratore di parecchi fautori del panafricanesimo, ma i suoi tentativi di creare delle Unioni fra Ghana e Guinea e fra Ghana, Guinea e Mali fallirono.
In realtà i Movimenti di unificazione sono nati da una combinazione di incubi e sogni, di angosce e fantasie. Quali sono stati gli incubi e i sogni che hanno liberato le forze che hanno portato al successo la creazione dell’Unione europea?
Il Movimento per l’unità dell’Europa è stato generato da due fattori: la poesia e la guerra. L’una ha fornito le immagini e i sentimenti della comune identità europea, l’altra ha dato l’impulso concreto o attraverso la conquista (le nazioni europee hanno subito nel tempo espansioni e contrazioni) o attraverso il desiderio di evitare eventuali guerre future. Questa è stata la combinazione di incubi e sogni.
Dopo la seconda guerra mondiale, il Piano Schuman e la CECA hanno rappresentato la volontà di dar vita a una interdipendenza a livello paneuropeo al fine di evitare futuri rischi di guerra. La guerra fredda ha diviso l’Europa in due e nello stesso tempo ha spinto verso l’unità ciascuna delle due aree. Ancora una volta gli incubi e i sogni hanno paradossalmente avuto un ruolo di integrazione.
Le radici del paneuropeismo nella poesia si possono far risalire al Rinascimento, quando gli Europei incominciarono a condividere il senso di una comune civiltà. Al tempo della rivoluzione francese, William Wordsworth, al di là della Manica, poteva proclamare con toni appassionati:
Bliss was it in that dawn to be alive
But to be young was very heaven
Tuttavia la rivoluzione francese univa in sé poesia e guerra (i due più importanti motori del paneuropeismo), era nello stesso tempo incubo e sogno.
Può il panafricanesimo contare sugli stessi stimoli, su poesia e guerra? In realtà esso ha piuttosto ricevuto impulso dal potere congiunto della poesia e dell’imperialismo.
La poesia comprende le leggende sugli eroi e sugli uomini storici del passato. Recentemente si sono manifestate due tendenze relative al sentimento nazionale panafricano legato alla cultura: il primitivismo romantico e la celebrazione romantica di imprese gloriose. Il primo mira a celebrare le cose semplici dell’Africa, rende onore più ai pastori che ai sognatori, come appare dalle parole di Aime Cesaire:
Hooray for those who never invented anything
Hooray for those who never discovered anything
Hooray for joy! Hooray for love!
Hooray for the pain of incarnate tears.
My negritude [My blackness] is no tower and no cathedral,
It delves into the deep red flesh of the soil.
La seconda mira invece a celebrare i risultati più grandiosi raggiunti dall’Africa, come le piramidi d’Egitto, le torreggianti costruzioni di Axum, le chiese sotterranee di Lalibela, la incombente maestosità della grande Zimbabwe, i castelli di Gonder. Essa, insomma, è un tributo agli imperi e ai regni dell’Africa, ai suoi inventori e autori, al grande Shaka Zulu piuttosto che all’ignoto contadino.
Entrambe le forme di nazionalismo culturale panafricano sono state una risposta all’imperialismo europeo e alla sua arroganza culturale. Gli Europei hanno affermato che gli Africani sono gente semplice, priva di facoltà inventiva, e ciò è un’asserzione di fatto. Ma essi hanno anche sostenuto che queste caratteristiche sono sintomo di inciviltà, e questo è un giudizio di valore.
Il primitivismo romantico condivide le asserzioni di fatto sull’Africa, ma rifiuta il giudizio di valore. La semplicità, sostiene, è una forma di civiltà come un’altra. La seconda tendenza, d’altro lato, rifiuta le asserzioni di fatto sull’Africa, ma sembra condividere i valori europei laddove sostiene che il livello di civiltà va riferito alla complessità e alla capacità di innovazione.
Entrambi i tipi di nazionalismo panafricano possono essere presenti in uno stesso paese africano. Il senegalese Léopold Senghor è stato uno dei massimi pensatori e poeti rappresentanti della scuola di pensiero che ha rivalutato la «negritudine», la quale è associata al primitivismo romantico. L’affermazione di Senghor che ha fatto più discutere è: «L’emozione è nera… la ragione è greca».
D’altra parte, il fu Cheikh Anta Diop, uomo del rinascimento senegalese che morì nel 1986, era più vicino all’altra corrente di pensiero. Egli passò buona parte della sua vita a divulgare i contributi dell’Africa alla civiltà nel suo complesso e sottolineò che la civiltà dell’Egitto dei Faraoni era nera.
Ma qual è effettivamente la realtà africana? L’Africa è in realtà un insieme di semplicità e complessità, di pastorizia e di sogni di grandezza. Essa non può essere ridotta a due tendenze contrapposte. Un vero panafricanesimo deve andare al di là della poesia e al di là dell’imperialismo.
L’Africa meridionale sarà alla guida del panafricanesimo legato all’integrazione economica, in seguito alla creazione di una nuova Comunità sorta dalla associazione del Sudafrica alla precedente Southern African Development Coordination Conference (SADCC). Il successo di questa nuova integrazione economica subregionale deriverà in parte dal fatto che uno dei membri della nuova Southern African Development Community (SADC), la repubblica del Sudafrica, è «più uguale degli altri»: la presenza di uno Stato che fa da perno spesso contribuisce al successo di una integrazione regionale.
La vecchia Comunità economica europea è sopravvissuta dopo il 1958 in parte per il fatto che alcuni membri erano in definitiva «più uguali degli altri»: l’asse franco-tedesco, infatti, sotto Charles de Gaulle era più «franco» che tedesco. Ora, invece, l’economia della Germania potrebbe aver controbilanciato la supremazia francese nella nuova Unione europea. Allo stesso modo l’Africa meridionale ha il vantaggio della presenza della Repubblica sudafricana, che è senza dubbio «il primo fra gli uguali» e che, in quanto tale, pone le premesse per la sopravvivenza dell’unione regionale e per l’affermazione, un giorno, sia di una struttura federale sia di una relativa democrazia.
Per quanto riguarda il panafricanesimo legato all’integrazione culturale, avrà probabilmente un ruolo importante l’Africa orientale, che ha il vantaggio dell’ampia diffusione di una lingua indigena, il ki-swahili, che accomuna Tanzania e Kenia, in qualche misura Uganda e Somalia, e potenzialmente Ruanda, Burundi e Zaire orientale — con l’aggiunta di Mozambico del Nord e Malawi, i quali stanno subendo l’influenza di questa lingua. Un linguaggio condiviso è una delle premesse importanti sia per la causa della democratizzazione sia per l’obiettivo dell’integrazione regionale. E il ki-swahili è parlato molto più di qualsiasi altra lingua in Africa: all’inizio del XXI secolo, se non prima, esso sarà usato da almeno cento milioni di persone, dato che si sta diffondendo in tutto il continente più rapidamente di ogni altra lingua franca.
Il panafricanesimo legato all’integrazione politica probabilmente avrà come suo portabandiera l’Africa settentrionale. Una forma di Comunità basata sulla cooperazione economica esiste già e unisce cinque paesi: Libia, Tunisia, Algeria, Marocco e Mauritania. La cooperazione economica ha incontrato qualche difficoltà, tuttavia l’Egitto ha recentemente manifestato interesse a partecipare a questo processo verso una maggiore integrazione regionale nordafricana. Questa subregione deve percorrere ancora molta strada prima di arrivare all’integrazione politica, ma le sue caratteristiche la pongono in una situazione favorevole a tale impresa, in quanto condivide la religione (l’Islam), la lingua (araba), la cultura (arabo-berbera) e sostanzialmente anche la storia nel corso dei secoli.
L’integrazione europea avrà un ruolo di stimolo per l’integrazione dell’Africa settentrionale. In qualche misura le economie del Nord-Africa e del Sud dell’Europa sono competitive, ma l’integrazione sempre più profonda di paesi come la Spagna, il Portogallo e la Grecia in una Unione europea allargata sta mettendo in allarme i paesi nordafricani. Ciò potrebbe aiutare il panafricanesimo nell’Africa araba.
Il panafricanesimo legato all’integrazione militare probabilmente si manifesterà nell’Africa occidentale, dopo che l’assetto precedente basato su ECOMOG si è trasformato nella Economic Community of West African States (ECOWAS). Nonostante le difficoltà e gli scarsi risultati della tentata operazione di soccorso in Liberia condotta da ECOMOG, questo tentativo è stato una delle maggiori imprese, all’avanguardia nella storia della Pax africana: la democrazia senza una minima condizione di pace è una contraddizione in termini.
Ma questo è appunto il tallone d’Achille del panafricanesimo nel suo complesso. Chi manterrà la pace in Africa mentre ci si avvicina alla fine del millennio? Se non vogliamo truppe americane in Somalia o truppe francesi in Ruanda, dovremmo allora assistere da spettatori alle carneficine in Africa?
Un ponte tra le nazioni: una nuova colonizzazione?
L’Africa contemporanea è sulla via della decadenza e della disintegrazione. Anche il livello di modernizzazione raggiunto in seguito alla dominazione coloniale viene progressivamente annullato. I Movimenti che lottano per la democrazia sono frustrati e la situazione di collasso dello Stato in cui precipitano uno dopo l’altro i paesi nel corso di questi anni Novanta suggerisce una soluzione un tempo impensabile: una nuova colonizzazione.[1]
Per un numero crescente di Africani questo è l’amaro messaggio lanciato dai terrificanti avvenimenti che si succedono in Ruanda. Mentre si è riusciti ad unirsi per ottenere la libertà nazionale, il fallimento è stato totale nel tentativo di unirsi per lo sviluppo economico e la stabilità politica. Guerra, carestia e rovina sono state l’eredità del colonialismo per troppi Africani. Di conseguenza è del tutto concepibile l’idea di una nuova colonizzazione dall’esterno sotto il vessillo degli interventi umanitari.
Paesi come la Somalia o la Liberia, dove il controllo da parte di un potere centrale è del tutto inesistente, richiedono un inevitabile intervento per arrestare il dilagante «cancro del caos», secondo le parole di Brian Atwood, direttore della US Agency for International Development (USAID).
Tuttavia, la spinta alla colonizzazione che sta riemergendo presenta probabilmente caratteristiche diverse in questa epoca. Oggi potrebbe essere posto in essere un sistema di amministrazione fiduciaria (come quello imposto al Congo dall’ONU nel 1960, quando la situazione precipitò in seguito al ritiro dei Belgi) che sarebbe concepito come più autenticamente internazionale e meno occidentale. Ma una colonizzazione, sia pure in nome di ideali umanitari, difficilmente potrebbe avere caratteristiche democratiche; nel migliore dei casi essa può solo creare le premesse per la democrazia.
Le potenze che si occupano dei territori sottoposti ad amministrazione fiduciaria potrebbero essere africane o asiatiche, o essere comunque paesi membri delle Nazioni Unite. Il «dominio dell’Uomo bianco» diventerebbe, in un certo senso, dominio condiviso dall’umanità.
Per esempio, non si potrebbe, nel prossimo secolo, chiedere all’Etiopia (che presumibilmente sarà più stabile di oggi) di assumersi compiti di amministrazione in Somalia, sotto l’egida dell’ONU? Dopotutto l’Etiopia un tempo è stata una potenza imperiale che ha conquistato i paesi vicini. Perché non dovrebbe assumere di nuovo questo ruolo storico in una forma più positiva e con una sanzione internazionale di legittimità? Non potrebbe forse l’Egitto ristabilire con il Sudan rapporti di «grande fratello»? E le Nazioni Unite non potrebbero chiedere al Sudafrica del dopo-apartheid di intervenire per porre fine alla guerra civile in Angola? Certamente è giunto il momento che gli Africani esercitino maggiormente delle forme di pressione l’uno sull’altro (anche attraverso interventi a fin di bene) per raggiungere una sorta di Pax africana basata sull’integrazione o unificazione regionale di piccoli Stati.
Per alcuni paesi africani sarà semplicemente necessario un controllo temporaneo da parte di altri, ma è inevitabile che alcuni di essi che non sono in grado di autogestirsi si sottomettano per un certo periodo a un regime di amministrazione fiduciaria o addirittura di tutela, come è accaduto per Zanzibar quando è stato annesso dal Tanganica, nel 1964, per formare la Tanzania. La via verso la democratizzazione passa attraverso l’imperativo di evitare il caos. Se Burundi e Ruanda fossero stati uniti allo stesso modo in uno Stato più ampio, all’interno del quale i rapporti fra Tutsi e Hutu fossero stati inseriti in un contesto caratterizzato da una maggiore varietà di popolazione, gli atti di ferocia che si sono protratti per diversi mesi nel 1994 avrebbero probabilmente avuto dimensioni più limitate.
Se la nuova colonizzazione o l’autocolonizzazione è il cammino che l’Africa ha di fronte a sé, ci deve però essere una autorità a livello continentale come garanzia del fatto che un tale ordine non mascheri semplicemente degli scopi di sfruttamento.
Ciò che propongo come soluzione a medio termine ai problemi evidenziati dalle crisi attuali è la creazione di un African Security Council, composto da cinque Stati regionali che servano da perno (o che potenzialmente abbiano questa funzione), il quale svolga un ruolo di sorveglianza sul continente. Questo Consiglio dovrebbe avere a disposizione una forza d’emergenza panafricana, cioè un esercito per interventi di peacekeeping. E ci dovrebbe essere anche un Alto Commissario africano per i rifugiati, collegato all’Alta Commissione delle Nazioni Unite, tenuto conto che l’Africa, con un decimo della popolazione mondiale, a volte è arrivata ad avere quasi la metà dei rifugiati e dei profughi di tutto il mondo.[2]
L’African Security Council, che dovrebbe essere creato nei prossimi decenni, avrebbe come punti di riferimento al nord l’Egitto e al sud il Sudafrica. Sebbene la Nigeria stia attualmente attraversando momenti difficili, essa sarebbe lo Stato-guida nell’Africa occidentale; le sue dimensioni e le sue risorse, infatti, potrebbero darle lo stesso peso che ha l’India nell’Asia meridionale, se acquisisse una certa stabilità politica. Nell’Africa orientale è tuttora difficile identificare un paese-guida. L’Etiopia — attualmente uno degli Stati più grandi, ma fragile — è probabilmente la più adatta proprio per le sue dimensioni. Il Kenia, nonostante sia più stabile, è molto più piccolo. Nell’Africa centrale, lo Zaire, che in futuro sarà presumibilmente una potenza regionale, attualmente ha bisogno lui stesso di qualche forma di amministrazione fiduciaria. Se questo Stato sarà in grado di non precipitare nel caos in un futuro prossimo, esso sarà uno dei maggiori attori della vita africana nel XXI secolo, prendendo sotto le sue ali protettrici Burundi e Ruanda. Lo Zaire ha popolazione e risorse tali da giocare questo ruolo preminente e nel prossimo secolo esso supererà persino la Francia, diventando il più grande Stato del mondo di lingua francese. Come membri permanenti dell’African Security Council, questi cinque Stati avrebbero la funzione di coordinare i rapporti fra di loro e con le Nazioni Unite.
L’integrazione regionale è all’ordine del giorno in Europa, in America del Nord, nell’Est asiatico e persino, naturalmente come tendenza, nel Medio Oriente. Se anche l’Africa non seguirà questa strada, la mancanza di stabilità e di sviluppo economico emarginerà l’intero continente dalla società globale.
Mentre l’ONU sta cercando di creare un ordine mondiale pacifico, gli Africani dovrebbero, parallelamente, rafforzare la pace in Africa, assumendosene loro stessi la responsabilità, dall’Angola, al Ruanda, al Burundi: nell’agenda della storia la stabilizzazione viene prima della democratizzazione.
Queste idee senza dubbio incutono un certo timore a popolazioni orgogliose, che hanno versato tanto sangue e hanno profuso tanto impegno politico per liberarsi dal controllo delle potenze europee. Ma di certo l’autocolonizzazione, se si riesce a tenerla sotto controllo, è migliore della colonizzazione da parte di paesi non africani. Ancora migliore sarebbe la conquista autonoma della stabilità, ma ciò implica una capacità di autocontrollo e autodisciplina che raramente si è constatata in Africa fin dall’epoca precedente il colonialismo. Una tale disciplina dovrà essere trovata nel XXI secolo, se l’Africa si impegnerà con successo nell’ingegneria sociale e costruirà dei ponti elastici e solidi tra i suoi vari abissi politici.
L’eredità neocoloniale: una conclusione.
Se il panafricanesimo ha le sue radici nella poesia e nell’imperialismo, quale ruolo ha avuto il neocolonialismo? Per esempio, il neocolonialismo francese nell’Africa post-coloniale ha aiutato o danneggiato la causa del panafricanesimo? Qual è il bilancio che si può trarre dalle conseguenze negative e positive del neocolonialismo in relazione al panafricanesimo?
I legami monetari fra gli Stati francofoni e la comune appartenenza alla zona del franco CFA sono stati di per sé stessi una forma di solidarietà. Come pure lo è il fatto che gli Africani francofoni lavorino insieme per sfruttare la rete di rapporti con i politici francesi in Francia. La più profonda fratellanza che lega i francofoni ha dato luogo a una parziale solidarietà intra-africana. Tutto sommato, si può davvero concludere che la comune dipendenza dalla Francia dell’Africa francofona per quanto riguarda una grande quantità di problemi ha di per sé stessa creato forme di solidarietà fra queste stesse ex colonie francesi e belghe.
Ma questo legame franco-africano è un danno per l’autoctono panafricanesimo orizzontale? Rende più difficile l’acquisizione, da parte degli Africani francofoni, della fiducia in sé stessi? Ci fu un’occasione, negli anni Novanta, in cui gli Africani di una ex colonia francese bruciarono la bandiera francese. Ma questa fu una protesta contro il non intervento della Francia: coloro che ne bruciarono la bandiera ritenevano che la Francia avrebbe dovuto intervenire «a favore della democrazia». E dunque questa richiesta di intervento fu una manifestazione di dipendenza.
Nel giugno 1993, Moshood Abiola in teoria vinse le elezioni presidenziali in Nigeria, ma il regime militare gli impedì di assumere la carica. Egli allora commise il colossale errore strategico di recarsi a Londra e a Washington per denunciare il sopruso, ma facendo ciò egli danneggiò quasi irreparabilmente la propria immagine in patria. Nell’Africa francofona, invece, è quasi un’abitudine appoggiarsi a Parigi per la soluzione dei problemi politici del proprio paese. Se la Nigeria fosse appartenuta all’area francofona, ciò che fece Abiola sarebbe stato nell’ordine naturale delle cose. Il capo militare nigeriano che contrastò l’ascesa di Moshood Abiola alla presidenza era il presidente Ibrahim Babangida — pur essendo dubbio il fatto che egli abbia agito da solo. Ora, la domanda che dobbiamo porci è come spingere dei Capi di Stato africani come Babangida a divenire arrendevoli cedendo il potere a un successore eletto. Poteva non funzionare con Babangida, ma per l’Africa è necessario creare le condizioni per cui gli ex presidenti mantengano una certa dignità e un certo ruolo pubblico, a condizione che cedano volontariamente il potere per dare l’avvio a un processo democratico.
Il mio suggerimento è la creazione di un Senato panafricano composto precisamente da ex Capi di Stato che abbiano accettato la sconfitta alle elezioni, come Kenneth Kaunda, o che abbiano rinunciato al potere in favore di un processo democratico, come il nigeriano Obasanjo, oppure che si siano ritirati dalla vita pubblica in condizioni di pluralismo e società aperta, come Léopold S. Senghor e Julius K. Nyerere.
Lo scopo di tale Senato sarebbe duplice. Da una parte, esso permetterebbe all’Africa di continuare a sfruttare la saggezza e l’esperienza politica accumulate da alcuni dei più famosi uomini di Stato (e, un giorno, donne di Stato). Dall’altra, esso contribuirebbe ad offrire ai Capi di Stato africani un ruolo onorifico duraturo.
Può la vita continuare dopo aver lasciato il palazzo presidenziale? L’Africa deve trovare il modo per rassicurare i suoi presidenti che esiste un dignitoso ritiro dalla carica e deve liberare l’istituzione della presidenza dalla persistente idea che essa sia un gioco a somma zero. In definitiva deve essere tolta dal campo la convinzione che «o sono presidente, o non sono nulla».
L’appartenenza al Senato panafricano sarebbe solo un primo passo. E’ necessario trovare nuove vie per rassicurare i Capi di Stato sul loro destino negli ultimi anni della loro vita, se non vogliamo che essi rimangano aggrappati al potere fino a che non siano malati, come Hastings Banda, o vecchi, come Habib Bourgouiba, oppure fino a che non siano emarginati con altri mezzi più umilianti.
Il panafricanesimo può essere in grado di svolgere un ruolo nel progettare appropriate istituzioni al fine di aiutare l’Africa a risolvere tali grandi problemi relativi alla successione e alla stabilità. E un giorno il panafricanesimo che mira all’integrazione potrà finalmente ottenere effettivi successi, eguagliando quelli del panafricanesimo della liberazione. In effetti oggi l’Africa si trova in una situazione in cui, se il panafricanesimo dell’integrazione (unione per lo sviluppo) non avrà successo, rischia di vedere negati i passati risultati raggiunti dalle lotte di liberazione (unione per la libertà). L’Africa potrebbe venire ricolonizzata con nuovi sistemi: uscita da un incubo, ricadrebbe in un altro, con la prospettiva di un futuro squallido, senza poesia.
Ma la meta ideale che deve stare alla base dell’integrazione regionale deve essere una effettiva federazione. La più urgente da realizzare è quella fra Ruanda, Burundi e Tanzania, se questi tre paesi potranno essere convinti a unire così il loro destino. Ad essi potranno un giorno associarsi Kenia e Uganda? Se ciò avvenisse, si darebbe luogo a una specie di fusione fra la vecchia Africa orientale tedesca (che riuniva Tanganica e Ruanda-Urundi) e la successiva Comunità dell’Africa orientale (comprendente Tanzania, Kenia e Uganda).
Nel primo quarto del XXI secolo, sono pensabili anche una federazione nell’Africa meridionale, realizzata con l’apporto sostanziale del Sudafrica del dopo-apartheid, e una nell’Africa del Nord, dopo cambiamenti radicali nei rapporti fra le correnti islamiche e laiche, mentre in altre parti dell’Africa ci potrebbe volere più tempo.
E’ comunque evidente che perseguire la democrazia in Africa significa nello stesso tempo perseguire sia la Pax africana, sia forme stabili di integrazione regionale: democrazia e panafricanesimo sono due ideali che hanno un comune appuntamento con la storia africana.
[1] Cfr. Ali A. Mazrui, «Decaying Parts of Africa Need Benign Colonization», in International Herald Tribune, 4 agosto 1994; e William Pfaff, «A New Colonialism? Europe Must Go Back into Africa», in Foreign Affairs, vol. 74, n. 1 (gennaio-febbraio 1995), pp. 2-6.
[2] Cfr. Leon Gordenker, «The United Nations and Refugees», in Lawrence S. Finkelstein (a cura di), Politics in the United Nations System, Durham, NC e Londra, Duke University Press, 1988, pp. 274-302; cfr. anche vari articoli apparsi in Africa Confidential, Londra, 1990-1995.