Anno III, 1961, Numero 1, Pagina 1
Per un uso controllato
della terminologia nazionale e supernazionale
MARIO ALBERTINI
1. Oscurità del concetto di nazione. — La nostra rivista si è occupata ripetutamente del problema della nazione, e noi vorremmo ora concludere questa serie di saggi e di articoli con un breve studio conclusivo dedicato al tentativo di attribuire all’idea e alla parola un senso abbastanza preciso, vale a dire la possibilità di essere usate con profitto. Per raggiungere questo fine ci è parso necessario tener presente, nella stessa prospettiva, l’idea e la terminologia relative al «supernazionale», fatto che consentirà di precisare anche questa parola, attualmente usata a vanvera tanto nel settore politico quanto in quello culturale.
Le due parole (o classi di parole) basate sull’idea nazionale e su quella supernazionale sono state sinora scarsamente studiate, e non corrispondono pertanto ad idee precise. Di conseguenza anche il loro rapporto non è chiaro. In questo momento storico, di ritorno del nazionalismo in Europa[1] e di pieno spiegamento del nazionalismo nel «terzo mondo», la cosa ci par grave. Abbiamo già rilevato su un altro fascicolo della rivista come sia diffusa tanto a destra quanto a sinistra, nonostante la tremenda esperienza dei sanguinosi sacrifici del nostro secolo all’idolo nazionale, l’equazione patriottarda: indipendenza delle nazioni (piccole a piacere) = indipendenza politico-economico-culturale dei suoi membri. Aggiungiamo soltanto che l’idolo nazionale, nei momenti in cui cela il suo volto feroce e non legittima l’uccisione degli uomini da parte degli uomini, alimenta tuttavia la costosa retorica magniloquente delle classi dirigenti. Da questo particolare punto di vista mentre il governo italiano, per celebrare il centenario della nazione, spreca miliardi che potrebbero essere utilmente spesi, ad esempio, in un paese ancora folto di analfabeti, per la scuola, la nostra rivista, che si stampa in Italia, iniziando il 1961 celebra lo stesso centenario tentando di affiancare, all’uso ideologico della terminologia nazionale che serve soltanto a mantenere gli individui nell’ignoranza sullo stato della loro società, un uso controllato di tale terminologia, che consenta ai medesimi di prender coscienza del carattere della società politica in cui vivono.
Ciò detto, torniamo al problema, e cominciamo col costatare che al termine «supernazionale», e ad espressioni come «unità supernazionali», «ideali supernazionali», non corrisponde nulla di immediatamente evidente. La parola «supernazionale» ci suggerisce soltanto l’idea di qualche cosa che sta al di sopra delle nazioni, ma questo qualche cosa, la cui natura è incerta, rende incerto il senso degli stessi concetti di «unità» e di «ideale» che potrebbero essere tanto religiosi, quanto morali, quanto sociali e così via.[2] D’altra parte, anche se viviamo in un mondo di «nazioni», dobbiamo ammettere che l’idea di nazione non è molto chiara. A molti, purtroppo persino tra gli «europeisti» (come mostra la recensione del volume di Beloff su questo stesso fascicolo), questa opinione apparirà paradossale, ma in effetti essa è del tutto attendibile. Chi non ne sia convinto rilegga (ma quanti l’hanno letto?) il famoso saggio di Renan sulla nazione.
Renan negò che il fondamento della nazione stia nella lingua, nelle tradizioni, nella razza, nello Stato con la semplice ed indiscutibile osservazione che nessuno di questi elementi è in tal caso o comprensibile (razza), o sempre presente dove gruppi umani storicamente esistenti sono composti da individui che sentono di costituire una nazione (lingua), o effettivamente coestensivo del gruppo nazionale (tradizioni), o specifico (Stato); e pretese di ritrovare tale fondamento esclusivamente nella volontà di vivere insieme, nel «plebiscito di tutti i giorni». Orbene, a questo riguardo si deve osservare che questa idea ci dice ben poco sinché non sia meglio spiegato il «come» di questo vivere insieme. Naturalmente, per superare la difficoltà e spiegare il «come», in questo stadio della nostra conoscenza del problema noi potremmo dire soltanto «vivere insieme come nazione» ma, in questo modo, risponderemmo riproponendo la domanda. In sostanza resterebbe ancora da scoprire proprio ciò che, con la formula del «vivere insieme», si riteneva messo in luce: la natura della nazione.
Nel famoso saggio Qu’est-ce qu’une nation? Renan non si rese conto di aver inventato una formula piuttosto che individuato il carattere della società nazionale. Per questo, mentre riferì la formazione della volontà nazionale al processo storico, non poté individuare fattori determinati e fatti precisi. A questo proposito, egli scrisse anche: «L’oblio, e addirittura l’errore storico, sono fattori essenziali della creazione di una nazione, ed è per questo che il progresso degli studi storici è spesso per la nazionalità un pericolo». In tal modo egli finì col basare la formazione della volontà nazionale su elementi irrazionali. Ci sono del resto degli studiosi che hanno formulato esplicitamente, e senza alcuna reticenza, questa idea. Lo Johannet, ad esempio, affermò: «C’è in qualunque società organizzata una parte limpida che è lo Stato, ed una parte tenebrosa che è la nazionalità».
La parte critica del saggio di Renan mostra che questa opinione, nel presente stato della cultura politica, non è né personale né arbitraria ma fondata e generale. In effetti Renan ha dimostrato l’oscurità di ciò che vi è di apparentemente chiaro nel modo ancora corrente di pensare le nazioni:[3] i loro elementi costitutivi come la lingua, le tradizioni, la stirpe (razza), lo Stato (possesso comune di un territorio) e così via. Tuttavia questa conclusione, se raffigura esattamente lo stato della questione, non può essere considerata soddisfacente. In realtà, senza una idea chiara della nazione e senza una idea altrettanto chiara degli ideali supernazionali si brancola nel buio proprio rispetto ai dati fondamentali della politica contemporanea. Dobbiamo perciò cercare di precisare sia queste idee sia il loro rapporto: precisarli almeno per quel tanto che ci consenta di individuare dei fatti, cioè dei comportamenti e delle istituzioni.
Per quanto riguarda l’idea moderna della nazione, è utile ricordare che all’inizio del secolo XIX in Francia, cioè nel paese-guida delle esperienze nazionali, il linguaggio comune non rifletteva ancora pienamente la nuova realtà storica dello Stato mononazionale.[4] La parola «nazione» era già stata messa al posto tenuto esclusivamente, sino alla fine del secolo prima, dalla parola «re»; ma la parola «nazionalità», che riferisce ai singoli individui l’idea della nazione, non era ancora entrata nell’uso. C’era la «nazione» ma non era ancora certo che i membri dello Stato, ormai pensato come la nazione, avessero la stessa «nazionalità». Il Dizionario universale della lingua francese di Boiste accolse la parola soltanto nella sua sesta edizione, vale a dire nel 1823, e la definì nel modo seguente: «Nazionalità, s.f., carattere nazionale (Mme de Stael), spirito, amore, unione, confraternità nazionali; patriottismo comune a tutti. I Francesi non hanno nazionalità (Buonaparte). Il dispotismo philosophiste distrugge qualunque nazionalità».
Il Boiste del 1823 giudicava nuova la parola, come risulta dal contrassegno — una croce — con cui venne accompagnata. In effetti nessuna altra parola esprimeva il concetto in questione. Un certo Lortet, che tradusse in francese nel 1825 l’opera di Jahn sul Volkstum (termine usato polemicamente da Jahn al posto del corrispondente Nationalität respinto come francesismo), l’intitolò Recherches sur la Nationalité. Ma tale Lortet sentì il bisogno di spiegare il titolo, che non gli pareva evidente, e nella prefazione scrisse: «La parola nazionalità usata nel titolo di questo libro, colpirà forse le orecchie dei puristi e non soddisferà coloro che vogliono conoscere per mezzo del titolo il contenuto dell’opera. Io non ho saputo trovare una parola migliore nella nostra lingua che possa essere impiegata nello stesso senso».[5] In realtà era confusa l’idea stessa di nazione. Basta considerare la stridente contraddizione del Boiste che, sulla scorta di Napoleone, sembra ammettere che i francesi, vale a dire gli individui che la storiografia nazionale considera i membri della nation per eccellenza, non avrebbero la stessa nazionalità. Si trattava del resto, come vedremo, di una opinione diffusa, proprio in questa forma per noi oggi così strana.
Per inquadrare questo modo di pensare è necessario tener presente, sul piano linguistico, che la parola nazione non ha sempre avuto il significato che gli diamo ora, e tenere in vista, sul piano fattuale, la situazione effettiva dei rapporti politico-sociali di quel tempo. L’uno e l’altro rilievo manifestano nettamente la loro portata nell’espressione peuples de la nation française, che nel diciottesimo secolo era ancora di uso corrente e doveva riflettere pertanto convinzioni diffuse. In questa frase nation è praticamente sinonimo di Stato, e lo Stato francese è pensato come uno Stato composto di molti popoli: oggi diremmo come uno Stato «plurinazionale». In realtà non solo il sentimento nazionale francese non si era ancora pienamente sviluppato, come abbiamo detto, ma sussistevano ancora le «divergenti provincie francesi», ciascuna delle quali possedeva mezzi linguistici, tradizioni e cultura propri. C’erano dunque, apparentemente, tutti gli elementi che, secondo il modo attuale di vedere, caratterizzano gli Stati plurinazionali.
Tuttavia, secondo l’opinione da tempo prevalente, nonostante questi dati di fatto la Francia era una «nazione» e non un insieme di popoli diversi. Si tratta di una opinione che i più lasciano ad uno stato fluido ma che, quando venga formulata con precisione, comporta l’individuazione di nazioni virtuali, esistenti — bisognerebbe dire — all’infuori della storia perché non rintracciabili nei dati storici concreti. In tal senso si esprime, ad esempio, Albert Sorel: «Le nazioni erano esistite da lungo tempo a loro insaputa durante il corso vegetativo della storia. La Rivoluzione francese le chiamò alla coscienza di se stesse, e decise del loro avvenimento».[6]
Naturalmente con opinioni simili non è possibile una seria interpretazione storica dei fatti nazionali. Tali opinioni illustrano in modo fantasioso un dato reale: il lungo processo che portò all’avvento delle nazioni moderne; ma hanno il grave difetto di confondere il processo verso una cosa con la cosa stessa, e di proiettare pertanto una luce falsa sull’intero processo di formazione delle nazioni. In realtà, se si ammette una esistenza inconsapevole delle nazioni, si deve ammettere che le nazioni sono gruppi che possono aver qualche forma di esistenza senza che i loro membri abbiano coscienza di appartenere al gruppo, il che equivale a dire che la presenza di certi comportamenti (al solito la lingua ecc.) sarebbero bastevoli per fare, degli individui che li hanno in comune, una «nazione» anche se tali individui sanno solo vagamente di averli in comune, e non li hanno comunque ancora elevati consapevolmente a mezzi e simboli della loro identificazione di gruppo. A prescindere dall’attendibilità di tale teoria è facile osservare che in tal modo risultano prive di senso le opinioni, che attribuiscono allo Stato francese del diciottesimo secolo ed a situazioni analoghe il carattere di nazione. Infatti in queste situazioni, nelle quali gli individui non avevano ancora coscienza di appartenere alla loro ipotetica nazione inconsapevole, i comportamenti sociali che solitamente sono presenti nei gruppi nazionali moderni — vale a dire l’unico dato che potrebbe stabilire una continuità tra le nazioni consapevoli e le nazioni attuali — formavano ancora, nelle sedi delle attuali nazioni europee, gruppi sia diversi che contrapposti, e pertanto, sulla scorta della teoria in questione, noi, dovremmo addirittura affermare che su ciascuna di tali sedi — la francese e via dicendo — coesistevano, come taluno disse, «nazioni virtuali diverse» — le divergenti provincie francesi — e non affatto individui che, stante i loro comportamenti, avrebbero formato una sola «nazione» anche se non lo sapevano.[7]
2. La nazionalità basata sullo Stato e la «nazionalità spontanea». — Il fatto è che non si possono mettere in evidenza i fenomeni di gruppo del Settecento, come dei secoli precedenti, con l’idea moderna di nazione. Se lo si fa, si ottiene il solo risultato di rendere incerti ed ambigui gli stessi fatti storici e non si possono perciò, in particolare, individuare i fattori che, ancora all’inizio dell’Ottocento, rendevano incerta la terminologia nazionale, fatto che deve attirare il nostro interesse perché dimostra quanto fosse ancora fragile la realtà nazionale. Ci converrà pertanto tener presenti le effettive trasformazioni dei sentimenti fondamentali di gruppo durante il processo di evoluzione della forma dello Stato nei secoli precedenti la nascita delle nazioni europee, senza prefigurarle in anticipo con le deformazioni nazionali. Si tratta di cose note. La Francia del Settecento stava compiendo il passaggio dalla monarchia di diritto divino allo Stato burocratico moderno. La premessa di questa trasformazione sta nel secolare processo durante il quale la monarchia di diritto divino allargò il quadro politico dalle piccole unità locali feudali e cittadine alle attuali dimensioni della Francia.
Orbene, a causa di tale allargamento, per il quale il quadro del potere politico e quello della vita comune cessarono di coincidere, il costume e la lingua si slegarono dal processo del potere politico e crebbero piuttosto spontaneamente. In seguito, per lo sviluppo di rapporti produttivi e mercantili che ruppero lentamente e progressivamente la cristallizzazione della vita umana comune nelle piccole unità medievali, i comportamenti in questione si vennero legando di nuovo al potere politico. La rivoluzione francese segna una tappa tipica di questo processo. Essa ebbe come punto di partenza le «divergenti provincie francesi». L’Assemblea Nazionale emanò le leggi ed i decreti in tous les idiomes.
La Convenzione invece mutò rotta, e decise di emanare le leggi ed i decreti solo in francese ma dovette anche, proprio per questo, decidere di nominare un insegnante di francese in ogni distretto dove non esisteva la consuetudine di parlare in francese. La decisione di diffondere la lingua francese fu presa allo scopo esplicito di promuovere il sentimento nazionale francese. Allo stesso fine fu rivolta l’educazione primaria, stabilita dalla Convenzione. Barère, che combatté energicamente le idee e i propositi cosmopolitici abbastanza attivi all’inizio della Rivoluzione, affermò chiaramente che lo scopo della scuola era quello di creare «l’amore per il paese» e di preparare gli uomini a servirlo. I bambini, egli sostenne, appartengono alla «famiglia generale prima che alle famiglie particolari, e quando la grande famiglia, la nazione, li chiama, ogni sentimento privato deve scomparire».[8] La rivoluzione francese non conseguì immediatamente questi obiettivi, ma tracciò, per così dire, il programma nazionale che lo Stato accentrato francese avrebbe svolto nel futuro. Lo svolgimento di questo processo condusse alla soppressione delle differenze di lingua e di costume, e alla realizzazione della moderna nazione francese.
Il processo si protrasse a lungo e non ebbe svolgimento rettilineo. Dapprima il periodo napoleonico consolidò ed estese — accendendola per contraccolpo nel resto d’Europa — la nazionalizzazione dei comportamenti deliberatamente iniziata con la rivoluzione francese. Ma, dopo la caduta di Napoleone, lo sviluppo dell’ideologia nazionale subì una battuta d’arresto. Questa battuta d’arresto è perfettamente comprensibile. Le guerre della Rivoluzione e dell’Impero ebbero come protagonista un esercito «nazionale». Per la prima volta nella storia di Francia l’esercito si basò infatti sulla leva militare generale, cioè su tutti i cittadini in grado di combattere; di conseguenza l’idea che lo Stato, difeso da tutti, fosse la cosa di tutti, la «nazione», si diffuse in tutti gli strati della popolazione. Ma l’idea che i francesi avessero ormai più cose in comune che cose che li separavano, in altri termini l’effettivo carattere di res publica della Francia all’inizio del secolo scorso, si basava su fondamenta ancora fragili. L’unità dei francesi sul piano economico, sociale, culturale e politico era infatti ben lungi dall’essersi compiuta.
Dopo la bufera napoleonica i francesi, tornati ad una vita normale, furono completamente ripresi dall’ingranaggio delle strutture politiche, economiche e sociali del tempo di pace. Questo ingranaggio, nello spazio francese come negli altri spazi statali, non era ancora unitario rispetto alla maggior parte della popolazione. La rivoluzione industriale non aveva ancora, o solo molto parzialmente, rotto le vecchie strutture produttive che isolavano i contadini e gli artigiani nelle comunità locali, e li differenziavano enormemente, non solo sul piano economico, ma di riflesso su quello culturale, sociale e politico, dalla borghesia, l’unica classe già unificata economicamente sul grande spazio statale. Per questa ragione la vecchia unità statale della monarchia di diritto divino, divenuta unità militare durante il periodo delle grandi guerre napoleoniche, non poteva essere estesa ai comportamenti che l’avrebbero fatta durare anche in tempo di pace: quelli economico-sociali e quelli connessi alla partecipazione attiva al processo del potere.
La classe dirigente e la borghesia persero pertanto, nei limiti in cui l’avevano acquisita negli anni precedenti, la convinzione di appartenere alla stessa «nazione» cui apparteneva il popolo minuto. Il lungo periodo di pace seguito al Congresso di Vienna fece dimenticare le solidarietà del tempo di guerra. La stabilità dell’equilibrio europeo, con la sua «distensione» come diremmo oggi, tolse dal primo piano della scena della vita pubblica il problema della potenza militare e lasciò così completamente in vista la radicale differenza di vita, di costumi e di condizioni tra borghesia e popolo minuto. Di conseguenza il sentimento dell’unità nazionale francese decadde, e ricomparve addirittura la vecchia concezione di Bolainvilliers, quella della convivenza di due «nazioni» diverse nella stessa cornice statale. Nel suo Du gouvernement de la France depuis la Restauration (1820) Guizot affermò che la rivoluzione francese era stata una vera guerra fra «due popoli stranieri»: i Franchi ed i Galli che erano ancora, a suo parere, «due razze distinte». Nello stesso tempo Agostino Thierry scriveva: «Noi crediamo di essere una nazione, e siamo invece due nazioni sulla stessa terra, due nazioni nemiche nei loro ricordi inconciliabili nei loro progetti: l’una ha un tempo conquistato l’altra, e i suoi disegni, ed i suoi proponimenti eterni sono il ringiovanimento di questa vecchia conquista infiacchita dal tempo, dal coraggio dei vinti e dalla ragione umana».[9]
In sostanza, già in pieno ottocento, la nazionalizzazione dei francesi era ancora molto incompleta. Abbiamo messo in evidenza questi dati perché ci sembra che essi, congiuntamente ai dati di comune conoscenza relativi al successivo sviluppo dell’ideologia nazionale, bastano per datare e circoscrivere il processo di nazionalizzazione degli individui in Europa, fenomeno recente e non antico, e dovuto a due fattori complementari: lo Stato burocratico centralizzato e la rivoluzione industriale.[10] Recuperata così, dietro il velo della deformazione nazionale della storia d’Europa, la realtà dei fatti, possiamo osservare che, durante questo processo, i sentimenti ed i comportamenti legati all’unità di lingua, di costume o di tradizione acquistarono carattere politico o, per meglio dire, acquistarono un carattere politico nuovo rispetto a quello che avevano avuto ad esempio nella città-stato greca. La terminologia nazionale, sino ad allora di uso incerto (come la parola «nazione» nello stesso tempo), trovò perciò un preciso punto di riferimento: lo Stato mononazionale, lo Stato cioè che si vale dei suoi mezzi di potere per imporre e mantenere su tutto il suo territorio l’uniformità di lingua e di costume.[11]
Nella precedente storia d’Europa ciò non era mai avvenuto in modo così sistematico, e la cosa non sarebbe stata del resto nemmeno possibile perché non c’erano né il mezzo politico — lo Stato moderno burocratico ed accentrato — né la condizione sociale — l’estensione a grandi gruppi umani della sfera d’interdipendenza del lavoro umano risultante dallo sviluppo dell’economia e della tecnica — necessari per processi di tal genere. Abbiamo detto che le lingue ed i costumi si erano sviluppati spontaneamente seguendo l’evoluzione dei rapporti religiosi, sociali e culturali senza l’intervento coattivo del potere politico centrale, e, mettendo in vista il caso francese, abbiamo mostrato come lo sviluppo dell’economia moderna, inquadrato in Stati centralizzati, collegò strettamente questi comportamenti al potere centrale.
Da questo fatto derivano le incertezze attuali nell’uso della terminologia nazionale e nell’idea stessa di nazione. I termini in questione si riferiscono sempre, nel loro uso specifico, alla unità di lingua e/o all’unità di costume, ma con ciò equiparano due situazioni molto diverse: a) le unità di lingua e di costume relativamente spontanee, cioè relativamente indipendenti da un potere politico centrale. Tali unità sociali, che chiameremo «nazionalità spontanee», non corrispondono perfettamente in Europa alle divisioni statali (e per ciò nazionali) europee nemmeno ai giorni nostri nonostante la lunga azione di livellamento degli Stati, e sopravvivono ancora negli Stati non centralizzati come la Gran Bretagna dove si usano tuttora le espressioni «nazione gallese, inglese, scozzese»; b) le unità di lingua e/o di costume collegate al potere politico dello Stato burocratico moderno. Tali unità, nella loro consistenza reale, risultano dalla estensione forzata, cioè politica, di una «nazionalità spontanea», ma sono sentite come unità complete, totali e naturali perché sono soprattutto il riflesso psicologico della situazione di potere determinata dagli Stati burocratici accentrati, ed hanno pertanto carattere ideologico. Beninteso, in (a) si tratta del «costume» in senso generale, mentre in (b) si tratta piuttosto dell’idea che si abbia un costume unico mentre in realtà sussistono diversi costumi locali, e si manifestano piuttosto reazioni sentimentali simili quando è in gioco il riferimento al proprio Stato. Naturalmente anche questo è un costume, ma uno fra i tanti.[12]
Chiarita la duplicità di significato della terminologia nazionale, e tenendo presente la situazione di fatto, noi potremmo dire che la Francia del Settecento non era nazionale perché non aveva uniformità di lingua e di costume, e non era plurinazionale perché in quel tempo le differenze di lingua e di costume non corrispondevano a diversi raggruppamenti statali, e, per la relativa indipendenza delle nazionalità dal processo del potere, non si traducevano in fatti politico-ideologici. Generalizzando le osservazioni che abbiamo fatto sinora noi possiamo riferire l’idea nazionale vera e propria a qualche cosa di storicamente individuato: una ideologia politica, basata sulla situazione di potere risultante dalla fusione dello Stato e dei comportamenti etnico-linguistici, e quindi sul fatto che lo Stato si occupa della lingua e del costume dei cittadini. In questo contesto reale il termine «nazione» acquista il suo significato specifico secondo il quale, contrariamente alla sua etimologia, la cosa non corrisponde ad una unità di lingua e di costume di carattere originario ed originariamente estesa ai territori oggi sedi delle nazioni, ma corrisponde invece ad un fatto ideologico, a una unità nazionale imposta, ed in parte prodotta, dal potere politico (in parte nei comportamenti effettivi — linguistici ecc. — in parte nella rappresentazione diffusa, anche se veritiera solo a metà, di tali comportamenti). In questo caso, storicamente corrispondente alle nazioni moderne, il sentimento nazionale degli individui non dipende dall’inaccertabile «carattere nazionale» o dal misterioso «spirito del popolo» ma invece dal fatto di appartenere ad uno Stato di tipo nazionale (uno Stato burocratico accentrato), cioè ad uno Stato che si è espanso, o vuole espandersi, su una area dove la lingua ed i costumi sono unificabili.
3. La «supernazionalità spontanea» e la supernazionalità organizzata. — La distinzione tra «nazionalità spontanee» e nazioni vere e proprie ci permette di comprendere in qual modo si ponevano i rapporti tra «nazionale» e «supernazionale» prima della rivoluzione francese. Prima dell’affermazione dello Stato mononazionale, al fatto delle «nazionalità spontanee» corrispondeva quello, per così dire, delle «supernazionalità spontanee». In questo contesto sta la repubblica europea dei letterati del tempo dei lumi, e sta soprattutto la res pubblica christiana che influenzò profondamente la storia europea, ispirò ancora alla fine del Settecento il Novalis di Cristianità o Europa, e resiste ancora oggi come ideale in molti cuori umani. In effetti, prima dell’era del nazionalismo, le relazioni fra uomini di nazionalità diverse, perlomeno in Europa, si basavano sul convincimento di appartenere ad una «società» nella quale gli elementi unitari prevalevano su quelli divergenti; si svolgevano per molti aspetti su un piano semplicemente umano, non politico; e non trovavano, né all’interno dei singoli Stati, né fra Stati diversi, gravi ostacoli ideologici, anche se non mancavano, naturalmente, gli attriti ed i problemi posti dai rapporti tra i gruppi e gli Stati, dai rapporti tra il lealismo al proprio Stato e i servizi offerti ad altri Stati (caso in ogni modo frequente, e non ritenuto immorale).
Con l’avvento dello Stato mononazionale la situazione mutò profondamente. I rapporti fra il lealismo politico ed i valori linguistici, morali e culturali che stanno alla base dei sentimenti nazionali acquistarono un aspetto nuovo perché il controllo di questi valori passò allo Stato. Le nazionalità, che sino ad allora non erano state una posta in gioco né nel processo del potere statale né nei conflitti interstatali, ed a ciascuna delle quali non corrispondeva né un esercito né alcuna possibilità di violenza, fornirono da allora il sostegno più forte alla lotta politica, divennero il fondamento principale della politica estera e coincisero con eserciti nazionali a coscrizione generale e con la permanente possibilità di risolvere i loro contrasti con la violenza. Il modo di parlare, ed i costumi degli individui, divennero una materia della lotta per il potere e delle guerre. Lo Stato, concepito ormai da grandi masse umane come il difensore della lingua e dei costumi, attrasse verso di sé i sentimenti connessi alle abitudini sociali più care agli uomini, quelli che li legano alle comunità naturali; da allora il luogo natale fu per gli individui tanto la propria città o il proprio villaggio quanto il proprio Stato: la nazione.
Questa combinazione esplosiva distrusse — in parte nella realtà e totalmente nella coscienza ideologica — le «nazionalità spontanee» e minò, nei rapporti fra gli Stati, la situazione di potere che aveva permesso la formazione ed il mantenimento delle «supernazionalità spontanee». Da un canto il lealismo statale, dinamizzato dai nuovi contenuti della vita politica, perse l’antica moderazione dovuta all’idea che esistesse, al di sopra degli Stati, una società europea, e si trasformò nella accesa passionalità del «sacro» patriottismo;[13] dall’altro le «supernazionalità spontanee» furono indebolite nelle loro stesse radici religiosa, morale, culturale e giuridica dalla fusione ideologica di Stato e nazione. Tale fusione condusse i più ad inquadrare i valori universali della cultura europea negli schemi nazionali, ed a forzare il diritto nello schema della sovranità nazionale, la cultura in quello della cultura nazionale, la storia in quello della storia nazionale.
In tal modo — e senza considerare qui il danno prodotto dalla concentrazione di tutti i valori in un solo orizzonte onnicomprensivo — i valori universali della res publica christiana e della repubblica europea dei letterati, che legavano oltre le frontiere statali gli individui che li professavano, furono in gran parte sostituiti, nel loro stesso campo di influenza, da valori nazionali, divenuti statali e perciò bellicosi. Mentre lo sviluppo meraviglioso della scienza e della tecnica avvicinava sempre più gli uomini, la politica, con un cammino a ritroso, calò fra loro una nuova barriera, la barriera nazionale, e gettò fra uomini di nazionalità diversa ma di civiltà comune la tragica realtà e le dolorose memorie delle guerre nazionali.
La fusione di nazionalità e Stato, caratteristica delle nazionalità vere e proprie, ci permette pertanto di comprendere la decadenza delle «supernazionalità spontanee». Noi siamo però di fronte al fatto della sopravvivenza degli ideali supernazionali, che non si presentano più nelle vecchie forme ma manifestano, sia pure lentamente, la tendenza a darsi qualche forma di organizzazione.
Né queste forme organizzative, ancora oggi molto labili, né il semplice dato storico del costante permanere di elementi supernazionali anche nell’era del maggiore nazionalismo (la realtà storica può essere pensata, ma non realizzata, al cento per cento in termini nazionali) bastano per ritrovare un filo direttivo, un criterio chiaro per la comprensione della nuova forma assunta dagli ideali supernazionali, che riguardano un processo storico incompiuto, e pertanto non rappresentabile mediante la pura descrizione dei fatti o il riferimento a istituzioni esistenti. Questo criterio può però essere stabilito concettualmente, valutando la tendenza fondamentale dello sviluppo dei rapporti fra gli Stati mononazionali. A grado a grado che nuovi Stati mononazionali soppiantarono le vecchie formazioni statali; e a grado a grado che questi Stati, integrando classi e ceti inizialmente esclusi dal potere, coincisero sempre più con la nazione, cioè con la totalità degli interessi ideali e materiali di vasti aggregati umani, i rapporti fra individui di nazionalità diverse non si basarono più sul convincimento di appartenere ad una «società» unitaria, ma, al contrario, sul convincimento di appartenere a società irriducibilmente diverse.
Ciò ebbe conseguenze decisive sulla politica internazionale: in un’epoca nella quale la interdipendenza dei rapporti umani cresceva continuamente ed era perciò sempre meno spontanea e sempre più organizzata, ogni contrasto fra interessi organizzati di nazionalità diverse divenne, virtualmente o effettivamente, materia di contrasto fra gli Stati. Per questa ragione i rapporti fra gli Stati divennero ideologicamente e materialmente molto difficili, e tali difficoltà misero in crisi il vecchio equilibrio europeo, lo ridussero talvolta ad una vera situazione di anarchia internazionale, e sfociarono nelle guerre mostruose del nostro secolo.[14]
L’impossibilità di regolare pacificamente i rapporti internazionali col solo mezzo tradizionale della diplomazia, ed il bisogno di organizzare relazioni economiche, culturali e di altro genere fra individui di nazioni diverse, ormai privati della spontanea libertà d’azione supernazionale dei tempi trascorsi, hanno conferito carattere supernazionale ai problemi della pace, dell’equilibrio, a molti problemi economici, tecnici, scientifici e via dicendo, ed hanno prodotto il tentativo di creare organizzazioni speciali a livello internazionale. Il nostro secolo, che ha visto l’acme del nazionalismo e l’acme della crisi dei rapporti internazionali, ha visto contemporaneamente il sorgere ed il crescere di tali organizzazioni, che nei casi più avanzati cominciano ad essere designate come organizzazioni «sovrannazionali».
Da un punto di vista giuridico questa designazione è contestabile perché la sovranità assoluta degli Stati è rimasta sinora praticamente intatta. Ma gli argomenti che valgono quando giudichiamo ad una ad una queste organizzazioni non valgono più se giudichiamo l’intero processo nel quale esse si collocano, e soprattutto se teniamo conto del fatto che si tratta di un processo evolutivo ancora agli inizi, quindi istituzionalmente primitivo. Da questo punto di vista è lecito dire che ha avuto inizio un processo supernazionale che si configura come la tendenza a sottoporre uomini di nazioni diverse a regole comuni ed a formare aggregati umani supernazionali.
Naturalmente tali aggregati diventeranno stabili ed efficaci solo se le regole che li governano saranno assicurate da un potere politico. Queste considerazioni ci permettono di istituire due analogie fra il moto nazionale e quello supernazionale: a) come il passaggio della fase spontanea a quella organizzata comporta per la nazionalità lo Stato mononazionale, così lo stesso passaggio comporta per la supernazionalità lo Stato plurinazionale che limita ma non distrugge gli Stati mononazionali, cioè lo Stato federale, b) nell’uno e nell’altro caso il passaggio della fase spontanea alla fase organizzata comporta una trasformazione profonda: le unità nazionali, e parimenti quelle supernazionali, si trasformano da gruppi «nazionali» in senso etimologico (vale a dire dove «si nasce insieme» — una città — o, come dice una frase incisiva americana, dove esistono face to face relations), o che non hanno una base territoriale stabile ed ai quali si appartiene solo perché si professano certi valori (un «italiano» del Cinquecento appartiene alla nazionalità italiana non perché vive su un certo territorio, che in realtà lo rende napoletano o toscano e così via, ma perché coltiva la lingua letteraria italiana) in gruppi che posseggono una organizzazione ed una base territoriale stabile, ed ai quali si appartiene coattivamente in quanto si nasce e si risiede su un certo territorio. Queste analogie ci permettono di attribuire un significato politico alla parola «supernazionale» e ad espressioni come «unità supernazionale», «ideali supernazionali», e di riferire tali ideali ad un processo storico verso il federalismo che potrà riuscire o fallire ma che ha tuttavia profonde radici nella situazione materiale dei rapporti politici, economici e sociali, e nei valori della nostra civiltà.
Si può precisare a fondo sia il significato degli ideali di unità supernazionali, sia il rapporto di tali ideali con l’idea nazionale osservando che, nella prospettiva di una completa realizzazione del principio dello Stato mononazionale, l’esito federale è concettualmente obbligato. L’interdipendenza dei rapporti umani si estende infatti molto al di là dei limiti nazionali, e cresce continuamente in profondità ed in estensione, fatto che comporta la necessità di organizzare questi rapporti, e di regolarli politicamente. Se tutte le attività umane socialmente rilevanti devono essere regolate da qualche potere politico, e se la base degli Stati deve essere la nazionalità (genericamente: alludiamo a Stati di dimensioni limitate, provvisti di autonomie parziali ma effettive, e bene integrati socialmente), stante l’inarrestabile processo di unificazione del mondo, ad un certo momento l’alternativa si porrà tra un caos di regole divergenti con inevitabili scioglimenti violenti, e la fondazione di un governo federale mondiale. Questa osservazione conferma che, concettualmente, il rapporto tra «nazionale» e «supernazionale» è un rapporto di interdipendenza.
In sostanza, dopo quanto abbiamo scritto, possiamo stabilire: a) che in mancanza di Stati mononazionali i rapporti tra gli Stati non comportano problemi supernazionali, e che in situazioni di tal genere esistono «nazionalità spontanee» di diverso tipo e possono esistere, come sono esistite in Europa, «supernazionalità spontanee», b) che in presenza di Stati mononazionali certi rapporti umani tra individui di diverse nazioni non possono più svolgersi spontaneamente, e necessitano di qualche forma di organizzazione politica in seguito alla trasformazione dei comportamenti nazionali da spontanei in organizzati, c) che una umanità completamente inquadrata in Stati mononazionali non potrebbe mantenere il classico principio dell’equilibrio tra Stati sovrani per la contraddizione tra la sovranità assoluta e la crescente interdipendenza dei rapporti umani al livello mondiale, e dovrebbe pertanto organizzare tali Stati in grandi federazioni continentali e, al limite, in un unico sistema federale mondiale, il che equivale a dire che la dimensione supernazionale dovrebbe coincidere con quella dell’umanità intera, politicamente organizzata.[15]
4. Osservazioni finali di carattere linguistico. — Concludendo, ci resta da fare qualche osservazione linguistica. La terminologia che abbiamo introdotto è, ovviamente, convenzionale. Lo è particolarmente l’espressione «nazionalità spontanea». In realtà, nell’epoca corrispondente, la parola «nazione» (o derivati) era soltanto uno dei termini generici che gli individui attribuivano sia a situazioni di questo tipo che a situazioni completamente diverse. Come è noto l’uso della parola restò molto generico, e riferibile a gruppi di diversissimo genere, per molto tempo, e divenne una parola calda, e per questo tendenzialmente collegata ad un solo ordine di fatti, solo quando venne riferita ai fenomeni nazionali moderni.[16]
Per questa ragione, e per il fatto che sia nel primo caso che nel secondo la parola si riferisce ora a certi elementi comuni (lingua, costume ecc.), noi abbiamo ritenuto conveniente l’uso dell’espressione «nazionalità spontanea» che mette in evidenza con la parola «nazionalità» tali elementi comuni, ma distingue nettamente la situazione nella quale essi non sono legati allo Stato burocratico da quella, qualitativamente diversa, nella quale lo sono, con l’aggettivo «spontanea». In questo modo ci pare che si possa fare la necessaria distinzione — per meglio dire, tenendo presenti le due coppie nazione e supernazione spontanea ed organizzata, ci pare che si possa disporre della terminologia corrispondente alle idee necessarie per comprendere questi fenomeni, con una alterazione lievissima del linguaggio comune, forzando in ogni modo più il linguaggio di un tempo che quello attuale, e senza introdurre una terminologia completamente convenzionale e molto complicata, come ad esempio quella proposta da Meinecke nel suo Weltbürgertum und Nationalstaat, che del resto non si può impiegare correttamente nella descrizione dei fatti nazionali perché corrisponde ad una concettualizzazione non bene fondata.
[1] La parola «nazionalismo» ha da tempo due diverse accezioni: una, prevalente nell’area anglosassone, secondo la quale essa non si distingue concettualmente dalla parola «nazione» (il nazionalismo è in tal caso la dottrina della nazione come il liberalismo la dottrina della libertà politica e così via); ed un’altra, prevalente nell’area continentale europea dove il fatto è più consistente, secondo la quale essa designa un partito (o atteggiamento) politico dotato di una propria ideologia distinta dalla liberale, la socialista ecc. Nell’area continentale, inoltre, si contrappone spesso tale ideologia «nazionalista» all’ideologia «nazionale» («non si può in alcun modo confondere la nazione come popolo di Mazzini — repubblicana e democratica — con la nazione come tradizione e come ente per sé stante e superiore al popolo, per esempio di Corradini»: così in Italia Cantimori — cfr. Studi di storia, Torino, 1959, p. 675 — e tanti altri tra i quali Chabod). Orbene, questa contrapposizione non è accettabile perché paragona due cose non paragonabili: una concezione dello Stato — del gruppo sul quale deve sorgere —, vale a dire la concezione dello Stato mononazionale, e una dottrina sul modo di governarlo (imperialismo, autoritarismo ecc. dei «nazionalisti»). Coloro che fanno tale contrapposizione finiscono con l’oscurare gli aspetti comuni sia ai «nazionali» che ai «nazionalisti», e con l’attribuire gli aspetti non puramente democratici (violenza, coazione ecc. sempre presenti in qualche grado in ogni Stato) della nazione alla nazione dei «nazionalisti», dopo di che resta nelle loro mani una nazione bellissima quanto inesistente, inattuabile, la nazione-popolo puramente democratica di Mazzini. Logicamente converrebbe abbandonare la seconda accezione della parola «nazionalismo», per evitare la confusione derivante dall’uso della stessa parola per designare un genere (la nazione) ed una sua specie (un modo di governarla), ma le considerazioni logiche non bastano per mutare le parole del linguaggio comune. Del testo, teoricamente, basta distinguere bene i due significati del termine per non incorrere in errori simili a quello sopra descritto. In ogni modo, nel presente articolo, noi usiamo la parola «nazionalismo» nella prima accezione.
[2] Cfr., per il significato della parola nel contesto giuridico, e la bibliografia relativa, Andrea Chiti-Batelli, Il tramonto di un feticcio: il sovrannazionale, «Il Federalista», I, 2.
[3] Per una analisi più esauriente di questo argomento cfr. Mario Albertini, Lo Stato nazionale, Milano, 1960.
[4] L’espressione «Stato mononazionale» suona a prima vista quasi inutile, come fosse un doppione dell’espressione «Stato nazionale». Ma, a rigore, il Regno di Sardegna, il Granducato di Toscana ecc. erano Stati nazionali italiani così come il Regno d’Italia del 1861. La differenza sta proprio nel fatto che i primi erano solo Stati nazionali italiani, mentre il secondo era anche lo Stato mononazionale italiano. Probabilmente la differenza non viene normalmente avvertita per l’abitudine — di carattere ideologico — a considerare anormale l’esistenza di più Stati su un’area in qualche modo individuabile come nazionalmente unitaria.
[5] Cfr. Georges Weill, L’Europe du XIX siècle et l’idée de nationalité, Parigi, 1938, pp. 3-6.
[6] Cade qui a proposito la questione della storiografia nazionale — categoria storica respinta ad es. da B. Croce — a proposito della quale Kaegi scrisse: «La storiografia dell’Ottocento e del Novecento… è sempre dominata da un concetto fondamentale di origine non puramente storica, ma di filosofia della storia, mezzo biologico e mezzo filologico: il concetto di nazione. Da cento anni il mondo si è assuefatto a considerare la storia d’Europa come una storia di nazioni. Un tempo si scriveva la storia degli Stati europei. L’idea di nazione… ha provocato nelle cognizioni storiche dell’uomo di cultura europeo uno scompiglio non minore delle decretali pesudoisidoriane e di tutte le falsificazioni papali nel Medioevo…». (Cfr. Werner Kaegi, Meditazioni storiche, Bari 1960, pp. 36-37). In realtà la storiografia nazionale postula come unitario e autonomo un campo di studi, quello relativo alle vicende degli individui e dei gruppi succedutisi sui territori che recentemente hanno assunto carattere nazionale, che non coincide mai con un quadro autonomo di svolgimento di processi economici, politici, religiosi, culturali ecc. e, a prescindere da quanto dovrebbe dirsi circa il predicato «nazionale» attribuito a sproposito ad una infinità di fatti, per questo solo fatto è deformante.
[7] Come è noto l’insistenza maggiore posta in Francia sul carattere «volontario» della nazione, in Germania su quello «naturale», «tradizionale» ecc., insistenza dovuta sia al carattere stesso dell’unificazione dei due paesi, sia dopo il ‘70 alla questione dell’Alsazia, per «natura» tedesca e per «elezione» francese, ha fatto sì che esistano una teoria «elettiva» della nazione, riferita alla Francia (Mazzini starebbe qui, ecc.), ed una teoria «organica» riferita alla Germania. Orbene, quanto disse Sorel — che è del resto implicito nella categoria stessa della storia nazionale, dappertutto diffusa — implica proprio una concezione organicistica la nazione inconsapevole — riferita alla Francia anche se, nel fatto, erroneamente applicata. In effetti ogni volta che, per la propria nazione, si rimonta al XVIII secolo — e, come è noto, gli storici vanno generalmente molto più in là — si usano concezioni organicistiche. Il rilievo mostra quanto sia arbitraria la distinzione, e come essa non possa star ferma quando venga applicata a diversi contesti storici. Ciò si deve al fatto che la nazione non è, naturalmente, né un puro fatto volontario né un puro fatto tradizionale.
[9] Cfr. René Johannet, Le principe des nationalités, Parigi, 1923, p. 132-33.
[10] In senso specifico la nazione è una ideologia, quindi né un puro processo ideale né puri stati di fatto, ma la rappresentazione di tali stati di fatto deformata in modo tale da servire il mantenimento del potere. Come si è detto, la nazionalizzazione è una funzione dello Stato burocratico accentrato e della rivoluzione industriale ed è tanto più salda ed estesa quanto più questi fattori sono forti. In effetti gli Stati continentali europei più forti raggiunsero con una certa pienezza la situazione di nazioni soltanto verso la fine del secolo scorso, mentre tutti i paesi dove uno almeno dei due fattori era debole diedero luogo a nazionalizzazioni meno consistenti anche se, proprio per questa ragione, alcuni presentarono vistosamente il fenomeno del «nazionalismo» (seconda accezione). Questi rilievi spiegano la mancanza (o la debolezza, se si vuole) della nazionalizzazione del Regno Unito, che non è nemmeno oggi uno Stato nazionale nel pieno senso della parola. Quando si produssero i fenomeni tipici della nascita del nazionalismo (prima accezione): burocratizzazione efficace dello Stato, e rivoluzione industriale, il Regno Unito era uno Stato burocratico ma decentrato, con un fortissimo self-government locale, che impedì che si formasse la convinzione che tutti i sudditi del re fossero della stessa nazione, o nascimento.
[11] In realtà la città-stato greca è un precedente dello Stato nazionale moderno, nel senso che l’una e l’altra organizzazione presentano il fenomeno della fusione della nazionalità e dello Stato (assente, ad es. nel mondo romano). Naturalmente nel primo caso la «nazione» è più spontanea, nel secondo più artificiale (date le diverse dimensioni del gruppo). In ogni modo è questa somiglianza della situazione di potere che spiega la ripresa di temi greci classici sulla patria da parte dei protagonisti dei «risorgimenti» nazionali. Per le stesse ragioni ci fu una ripresa del tema ebraico del «popolo eletto». In questo contesto sta il carattere di premesse del nazionalismo moderno attribuito ad es. dal Kohn (cfr. Hans Kohn, L’idea del nazionalismo nel suo sviluppo storico, trad. ital., Firenze, 1956) alle esperienze greche ed ebraiche.
[12] Proprio per il loro carattere ideologico le nazioni vengono pensate: a) come unità di lingua e di costume (anche se lo sono imperfettamente — lingua — o non lo sono affatto — costume), b) come unità storiche precedenti la formazione degli Stati nazionali (mentre è vero il contrario), c) come unità naturali, le uniche sulla cui base si potrebbero costruire degli Stati legittimi (ma le nazioni sono il risultato dell’opera unificatrice degli Stati, quindi l’argomento non ha senso), d) come unità immodificabili (abitualmente si pensa che si possa mettere in discussione, ed eventualmente abbandonare, le proprie convinzioni liberali, democratiche, socialiste ecc. e non la propria «italianità»: in realtà si tratta nel primo e nel secondo caso di ideologie ma la seconda, relativa allo Stato e non ai partiti, riflette una situazione di potere più difficile a rifiutare), e) come unità sacre (anche se per un cristiano si tratta di una bestemmia, sono sacri i confini, i doveri ecc. nazionali), f) singolarmente prese, per i loro membri, come la nazione più bella o più importante del mondo per qualche aspetto «essenziale» del passato, del presente o del futuro. Per ciascuno di questi aspetti più che il contenuto rappresentativo, variabile da individuo a individuo e da momento a momento, conta la persistenza della rappresentazione e il modo ideologico (perciò non esclusivo di rappresentazioni contrarie) con il quale essa viene pensata. Questo modo — nel quale si riflette, attraverso l’aspirazione degli individui a considerarsi importanti per il loro status politico, la situazione di potere dello Stato burocratico accentrato — è infatti l’elemento costante che rende stabile e diffusa l’idea nazionale nonostante la sua irrazionalità.
[13] Si tratta di un dato di fatto. Shafer scrive (op. cit., p. 144): «La nuova fede — nazionale — non assicurava la beatitudine soprannaturale, ma possedeva molti dei tratti distintivi della maggior parte delle religioni. Essa sviluppò una moralità con ricompense e punizioni, virtù e peccati, un rituale e segni esteriori, e uno zelo missionario. In realtà, come nota Brunot, un gran numero di termini religiosi passò nel dominio della politica durante la Rivoluzione Francese, e molti di questi termini avevano a che fare con la terra dei padri e con la patria». In estrema analisi il passaggio da una politica non concepita in termini religiosi ad una politica concepita in termini religiosi (come quella nazionale) corrisponde al passaggio dalla situazione di potere dello Stato assoluto (ma limitato) che non chiedeva a tutti i sudditi di uccidere e morire per la patria a quella dello Stato democratico (ma a competenze illimitate) della rivoluzione francese, che chiese a tutti i cittadini di morire e uccidere per la patria. Una organizzazione che chiede il sacrificio della vita propria ed altrui deve produrre una rappresentazione del gruppo secondo la quale, per ciascun individuo, il gruppo vale più della sua propria vita. Weber, con una intuizione felice anche se non pienamente sviluppata, riferì la coscienza nazionale alla «comunità di memorie» delle «comunità di destino politico, cioè di comune lotta di vita e di morte» più che a legami etnici, culturali ecc. (Max Weber, On Law in Economy and Society, ed. by Max Rheinstein, Harvard University Press, 1954, p. 340). Si potrebbe osservare che questo fatto riguarda tanto gli Stati multinazionali (ad es. Regno Unito) quanto quelli schiettamente nazionali (Francia, Italia ecc.), ma allora si deve osservare anche che, nell’area anglosassone, il morire e l’uccidere in guerra hanno più il carattere di legittima difesa delle libertà (al plurale) degli individui che di sacrificio trascendente per la nazione.
[14] A questo proposito si deve prendere atto della coincidenza cronologica tra la maturazione del processo di nazionalizzazione dei grandi Stati europei e la trasformazione del vecchio equilibrio europeo in anarchia internazionale. La questione del rapporto tra integrazione nazionale e disintegrazione internazionale giunge sino a questi aspetti, sui quali i progressisti nazionali non si sono mai fermati.
[15] Si potrebbe criticare questa schematizzazione osservando che nella realtà c’è un terzo dato, l’imperialismo. Ma in effetti l’imperialismo non è un terzo dato del problema costituito dall’esistenza di nazioni indipendenti. L’imperialismo comporta infatti la perdita dell’indipendenza degli Stati dominati e quindi l’eliminazione delle difficoltà che derivano dalla convivenza di Stati indipendenti. Si deve inoltre tener presente che gli schemi in base ai quali si interpreta la storia non corrispondono agli accadimenti storici, ma sono semplicemente il mezzo per inquadrarli, selezionarli, collegarli ecc. Lo schema illustrato è un semplice strumento concettuale per l’interpretazione di un aspetto del recente processo storico e della realtà contemporanea mediante il riferimento di fatti ad un tipo (alludiamo evidentemente alla concezione weberiana dell’Idealtypus). Il problema concreto, rispetto al futuro, sta nella valutazione delle possibilità dell’imperialismo di tenere il campo di fronte ai piccoli nazionalismi e al federalismo.
[16] Per quanto riguarda l’italiano, sulla scorta della storia della lingua, notiamo anzitutto con l’aiuto del Migliorini che la parola mutò effettivamente significato alla fine del Settecento: «Il modenese Bartolomeo Benincasa, nel Monitore Cisalpino del 1798, dava un elenco di vocaboli nuovamente arrivati in Italia, o di nuova significazione, o di una antica, ma cambiata e travisata: … nazione … patriota, patriotismo, popolo…». Questo significato nuovo è senza dubbio quello moderno, venuto dalla Francia. Ciò mostra che, prima di allora, l’idea della fusione dello Stato (di grandi dimensioni) con la «nazione» non esisteva. E’ interessante perciò costatare l’uso più vicino della parola. Nel Settecento: «persiste ancora il vecchio significato di patria e nazione riferito alla città ed al piccolo Stato cui uno appartiene, ma sempre più frequente è il riferimento all’Italia intera». Evidentemente il primo significato mette in vista le nazionalità regionali e locali (sentite anche come non politiche, pur se coincidenti con lo Stato, per le loro piccole dimensioni), mentre il secondo mette in vista una nazionalità italiana non politica (non politica perché manca, come è detto sopra, l’idea moderna di fusione di nazione e Stato). Si tratta evidentemente della «nazionalità spontanea» italiana di cultura, ancora discussa nel Seicento («Quanto al nome della lingua, benché le designazioni di «fiorentino», «toscano», «italiano» appaiano tutte e tre, la seconda è di gran lunga predominante…»), affermata saldamente nel Settecento (Cfr. Bruno Migliorini, Storia della lingua italiana, Firenze, 1960, rispettivamente alle pp. 635, 548, 458).