IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno LIV, 2012, Numero 1-2, Pagina 24

 

 

Eurozona e Agenzia
per lo sviluppo sostenibile.
Come conciliare una politica
di sviluppo dei paesi dell’eurozona
con la politica di bilancio dell’UE*
 
DOMENICO MORO
 
 
1. Premessa.
 
Quando negli USA, nel 2008, è scoppiata la crisi finanziaria dei sub-prime essa è stata presentata come una “crisi mondiale”. Qualche tempo dopo è stata ridimensionata a “crisi dei paesi industrializzati”. Oggi la crisi finanziaria, diventata nel frattempo anche crisi economica, di fatto riguarda solo l’Unione europea ed in particolare l’eurozona. Benché i paesi aderenti all’euro presentino, complessivamente, una situazione finanziaria migliore di quella americana — il cui merito di credito è stato peraltro declassato dalle società di rating —, il mercato sembra infierire solo sull’eurozona, mettendo in dubbio la tenuta dell’Unione monetaria. La differenza tra la situazione americana e quella europea, come ripetono i federalisti, è politica e non economica: nel caso degli USA esistono un governo e un tesoro federali che assicurano l’unità e la solidarietà tra gli Stati e tra i cittadini; nel caso dell’UE, vi sono un mercato ed una moneta senza un governo e senza unione fiscale. Il presente documento di lavoro, con la proposta di istituire un’Agenzia per lo sviluppo sostenibile finanziata da un’imposta europea e promossa dai paesi dell’eurozona, ma aperta alla partecipazione dei paesi che vorranno aderire, intende dare un contributo al dibattito sulla fase di transizione allo stadio compiutamente federale del processo di unificazione europea[1].
 
2. Gli aspetti strutturali della crisi economico-finanziaria in corso.
 
In un libro-intervista di qualche anno fa, Tommaso Padoa-Schioppa elenca le ragioni strutturali che hanno provocato la crisi dei sub-prime americani, una crisi che oggi, in modo solo apparentemente paradossale, investe sostanzialmente la sola Unione europea. Padoa-Schioppa ricorda “l’accumularsi del debito esterno degli Stati Uniti, il progredire delle regioni asiatiche (un terzo del genere umano) verso il benessere, il conseguente rincaro dei prodotti energetici e alimentari che [spinge] all’estrema povertà milioni di persone, il ritorno a un’economia della scarsità, la carenza di risorse naturali” [2]. Si tratta di squilibri che, benché da lui denunciati nel quadro delle più importanti istituzioni di cooperazione mondiali, non hanno ancora portato all’adozione di misure correttive. Padoa-Schioppa, in particolare, pone l’accento sullo squilibrio di fondo che, in grande misura, collega tra di loro gli squilibri strutturali appena ricordati. Si tratta del modello di sviluppo americano, non sostenibile, fondato sul “consumo a credito”[3]. Per trent’anni, l’economia americana si è sviluppata a tassi elevati sostenuta dai consumi: esaurito il processo di formazione interna del risparmio, gli Stati Uniti hanno fatto ricorso al risparmio esterno, accumulando un grande debito estero. Negli anni più recenti, i consumi sono stati alimentati dall’indebitamento privato con il ricorso a mutui garantiti dal valore, in continua crescita, delle case, un valore a sua volta sostenuto da una politica monetaria accomodante. Si è così assistito all’inflazione dei prezzi dei beni d’investimento, in particolare di quelli immobiliari e dei corsi azionari, chiamata asset inflation, che ha ulteriormente incentivato la spinta ai consumi. Infatti, diversamente dall’inflazione dei prezzi al consumo che, a parità di condizioni, ci fa diventare più poveri, con l’asset inflation ci si illude di diventare più ricchi e quindi si viene incoraggiati ad insistere sulla strada del consumo a credito. Negli stessi anni, il potere d’acquisto dei consumatori è stato difeso, se non addirittura aumentato, dai bassi prezzi dei beni e servizi prodotti e importati dai paesi emergenti. Questi ultimi, inoltre, hanno investito i guadagni derivanti dai surplus commerciali in Treasury bonds, finanziando così, a loro volta, l’insostenibile modello di sviluppo americano. Quando un incidente di percorso interno — l’incapacità dei proprietari di case di rimborsare i mutui contratti — ha interrotto questo ciclo insano di sviluppo, è esplosa l’attuale crisi economico-finanziaria. Scoppiata negli Stati Uniti, si è ora trasferita sul continente europeo, mettendo in discussione la sopravvivenza dell’euro. L’opinione pubblica, e soprattutto i governi che vi devono rimediare, hanno però perso di vista il fatto che gli squilibri strutturali di cui parlava Padoa-Schioppa sono rimasti tali. Si può citare un dato che potrebbe esserne la sintesi: quando si è manifestata la crisi dei sub-prime, quindi ancora in una fase di sviluppo sostenuto dell’economia mondiale, il barile di petrolio dei paesi OPEC aveva raggiunto un prezzo medio di 94 dollari nel 2008; esso è sceso a 60 dollari l’anno successivo ed è progressivamente risalito fino a circa 112 dollari all’inizio del 2012[4], in una fase in cui, per quanto riguarda l’economia americana, si sta parlando solo di una parziale ripresa e per l’economia europea si parla invece di recessione.
Ci si può, pertanto, chiedere come sia potuta scoppiare in modo imprevisto la crisi finanziaria negli USA, pur in presenza di evidenti squilibri strutturali, e come sia possibile che non vengano tuttora adottati provvedimenti correttivi. Tommaso Padoa-Schioppa fornisce una spiegazione che costituisce la tesi sottostante a tutta la sua “conversazione”: a suo parere, una delle cause principali è rappresentata da “l’eccessivo accorciarsi degli orizzonti temporali nella condotta degli affari privati e pubblici”[5] che impedisce di vedere i problemi e, soprattutto, di adottare per tempo i provvedimenti necessari. La crisi che stiamo attraversando, secondo Padoa-Schioppa, è strutturale, e la sua più evidente manifestazione, la crisi del debito sovrano, non è un fatto maturato negli ultimi anni, bensì l’esito di cambiamenti che sono intervenuti nell’economia mondiale nel corso degli ultimi decenni e che si sono tradotti in una gestione della politica della finanza pubblica che ha sempre più privilegiato il ricorso al debito come modalità per far fronte ai bisogni delle economie sviluppate. A questo si è aggiunto, con l’accorciarsi dell’orizzonte temporale nella gestione degli affari pubblici, l’adozione di decisioni non ottimali dal punto di vista di una politica fiscale sana.
La natura strutturale della crisi economico-finanziaria in corso può essere declinata in molti modi. Un rapporto del Senato francese sulla politica europea dell’energia, ad esempio, commentando l’evoluzione prevedibile della ripartizione geografica dei consumi di energia, osserva che “tendenzialmente, si può dire che stiamo passando da un mondo in cui un quarto della popolazione consumava i tre quarti dell’energia, ad uno in cui il consumo energetico sarà sempre più ripartito in funzione delle popolazioni dei diversi paesi”[6]. Un recente rapporto delle Nazioni Unite, dal canto suo, fa notare che “l’enorme gap di consumi tra ricchi e poveri è espresso dalla nota formula in base alla quale l’80% delle risorse naturali utilizzate ogni anno sono consumate da circa il 20% della popolazione mondiale[7]. Poiché questa diseguale distribuzione dei consumi di risorse naturali su scala mondiale sembra coincidere con la distribuzione del debito pubblico tra paesi industrializzati e paesi emergenti — e la seconda sembra così sostenere la prima — può essere utile provare a comprenderne l’origine.
In un recente articolo sul debito pubblico francese — anche se, in realtà, si tratta di un trend comune a tutti i paesi più industrializzati — viene osservato che la Francia ha fatto registrare un deficit pubblico strutturale dal 1974 in poi[8]. Ora, secondo i dati della World Bank, nel 2009, a fronte di un PIL mondiale pari a 58.000 miliardi di dollari, il debito pubblico mondiale era pari a 63.100 miliardi, di cui 42.800 facenti capo ai paesi dell’OCSE, l’organizzazione che riunisce i paesi con il reddito pro-capite più elevato. Pertanto, se si guarda alla distribuzione del debito pubblico su scala mondiale, si può osservare che il 68% del debito pubblico fa capo al 18% della popolazione mondiale con il reddito pro-capite più elevato. Infatti, in quest’ultimo gruppo di paesi, con rarissime eccezioni, il debito pubblico è cresciuto più velocemente del PIL ed è un processo che si è messo in moto da quando i paesi produttori di petrolio, con l’aumento del suo prezzo, hanno cercato di modificare le ragioni di scambio a loro favore. A sua volta, però, l’aumento del prezzo del petrolio è stato reso possibile dalla sospensione della convertibilità del dollaro in oro e “questo mutamento della costituzione monetaria mondiale ha avuto effetti perversi”[9]. Nel mondo pre-agosto 1971, la Cina avrebbe chiesto la conversione dei suoi dollari in oro e gli USA sarebbero stati costretti a risanare le proprie finanze pubbliche e svalutare il dollaro. Con quella decisione, gli Stati Uniti hanno invece dato il segnale al mercato che per loro, e successivamente per gli altri paesi industrializzati, sarebbe stato possibile consumare più di quello che avrebbero prodotto[10]. Il fatto che i paesi più industrializzati assorbano la maggior parte delle risorse del pianeta, e che siano anche i più indebitati, porterebbe a concludere che il controllo delle risorse, sia pure indirettamente, sia finanziato a debito.
La tendenza sopra ricordata e l’attuale distribuzione del consumo di risorse naturali hanno delle implicazioni politiche che sono state ben colte da Tommaso Padoa-Schioppa. Nel corso di un’intervista al Financial Times, egli infatti sottolinea come “noi siamo in grado di sapere come può funzionare l’economia mondiale e come possono andare le cose con sette miliardi di persone di cui il 15% gode di un alto tenore di vita, ma non sappiamo cosa succede quando quel 15% arriva al 50%”[11]. Si tratta quindi di dare una risposta, nell’interesse del futuro del pianeta; e l’Unione europea deve saper contribuire fin da oggi.
 
3. La crisi della politica fiscale e lo sviluppo sostenibile come nuovo obiettivo della politica di bilancio.
 
La letteratura sulla crisi della politica fiscale parte dalla constatazione che dagli anni Settanta i paesi industrializzati fanno registrare deficit di bilancio e indebitamento pubblico crescenti dovuti alla propensione dei governi, di qualunque ispirazione, a perseguire politiche in deficit spending nelle fasi di congiuntura sfavorevole e pro-cicliche nel caso opposto[12]. Secondo questa corrente di pensiero, le autorità pubbliche, in campo fiscale, agiscono razionalmente, in base a specifici incentivi che includono la preoccupazione di essere rieletti e che li inducono a tener conto degli interessi di breve periodo dei gruppi di pressione e dell’elettorato. Pertanto, la crescente consapevolezza ed evidenza delle contraddizioni innescate dall’indisciplina fiscale e dalle politiche pro-cicliche ha reso possibile l’avvio di un dibattito sulle distorsioni provocate da tali comportamenti e sui modi più efficaci per correggerli e incanalarli in una direzione compatibile con l’interesse dell’intera comunità di cittadini, che corrisponde all’obiettivo dello sviluppo sostenibile.
In un mondo ideale, la politica fiscale dovrebbe essere coerente con l’obiettivo della solvibilità di un governo (assicurare la sostenibilità del debito); in secondo luogo, essa dovrebbe essere in grado di far fronte efficacemente a shock imprevisti (rischi fiscali contenuti, a fronte di spese pubbliche impreviste); in terzo luogo, dovrebbe contribuire alla stabilizzazione macroeconomica o quantomeno non aggravarla (manovre anti-cicliche). Se tutti questi aspetti della politica fiscale fossero completamente condivisi dall’elettorato, un governo democratico e razionale avrebbe chiari incentivi a non scostarsi da queste politiche. In pratica, però, la politica fiscale si è rivelata incoerente con l’obiettivo della stabilità macroeconomica in senso lato, evidenziando piuttosto un’inclinazione ad alimentare un deficit pubblico strutturale e, pertanto, a creare un progressivo aumento dell’indebitamento pubblico, che è così cresciuto ad una velocità superiore a quella del PIL. Questo sembra dovuto al fatto che gli elettori appaiono incapaci d’internalizzare i vincoli macroeconomici di una politica fiscale virtuosa e sono piuttosto inclini a sostenere la fornitura di beni pubblici aggiuntivi e quindi ad esercitare forti pressioni a spendere le risorse finanziarie che si dovessero accumulare negli anni favorevoli del ciclo economico. In secondo luogo, non apprezzano a sufficienza la meccanica dei vincoli intertemporali di un bilancio, per cui i deficit di oggi saranno inevitabilmente connessi con maggiori imposte domani. Questo atteggiamento ha due conseguenze: il policymaker razionale può trovare conveniente utilizzare la leva fiscale come strumento per assicurarsi la rielezione e, d’altra parte, la miopia degli elettori e l’interesse degli eletti a rimanere in carica può portare ad un ritardo nell’adozione di provvedimenti che una situazione critica delle finanze pubbliche potrebbe richiedere.
Una distorsione chiave alla base di un’inadeguata disciplina fiscale emerge dalla tendenza dei governi ad avere un orizzonte temporale addirittura più breve di quello degli elettori. La ragione di questa miopia risiede nell’incertezza elettorale inerente il processo decisionale democratico. Poiché gli eletti concentrano la propria attenzione sulle conseguenze delle loro azioni discrezionali, l’interesse per politiche che si proiettano nel futuro è indebolito dal rischio di perdere le elezioni successive. Un altro dei motivi che spiegano la tendenza a perseguire politiche finanziarie lassiste, inoltre, sta in quello che gli economisti definiscono “l’incoerenza temporale” (time inconsistency): se la prospettiva di future difficoltà di bilancio suggerirebbe l’accantonamento di risorse risparmiate in un periodo di congiuntura favorevole, l’accumulo effettivo di questi risparmi è più verosimile che provochi pressioni da parte dell’elettorato sulle autorità di politica economica affinché li spenda subito.
In teoria ci si potrebbe aspettare che, in presenza di politiche pubbliche permissive, il mercato reagisca inducendo le autorità di politica economica a perseguire politiche finanziarie sane attraverso sia l’aumento dei tassi d’interesse indotto da deficit pubblici crescenti, sia l’aumento del rischio paese che si traduce, a sua volta, in un aumento degli spreads sui tassi d’interesse; e, infine, sia l’insorgere di limitazioni nell’accesso al credito quando il debito pubblico aumenta oltre una certa soglia. In realtà, la letteratura e l’esperienza suggeriscono che è improbabile che la disciplina di mercato limiti efficacemente politiche fiscali lassiste e, se si verifica, lo fa solo in uno stadio terminale di queste politiche, quando è ormai troppo tardi per adottare provvedimenti che ne prevengano, o ne limitino, i danni. Per cui la disciplina di mercato, da sola, non viene considerata un incentivo sufficiente al perseguimento di politiche finanziarie virtuose[13].
La risposta che viene data per superare il limite delle attuali politiche fiscali prende spunto dal precedente della politica monetaria attuata da banche centrali indipendenti dal potere politico, come la Banca centrale europea, ed è di due tipi: a) l’istituzione di Fiscal Councils indipendenti cui sottoporre preventivamente le politiche di bilancio, affinché segnalino pubblicamente la solidità e l’attendibilità delle politiche economiche che si intendono perseguire; b) l’istituzione di vere e proprie agenzie fiscali indipendenti che abbiano il potere di modificare, entro certi limiti, l’aliquota di determinate imposte per consentire il rispetto degli obiettivi di equilibrio di bilancio o dei saldi di bilancio previsti da un determinato governo. Del primo tipo di istituzioni fiscali vi sono gli esempi del Congressional Budget Office americano e di altri uffici analoghi in Gran Bretagna e nei paesi scandinavi, che però non si sono rivelati adeguati; esempi del secondo tipo di istituzioni che, in teoria, dovrebbero essere più efficaci, invece non ve ne sono. I problemi di legittimità democratica legati a questi ultimi e, più verosimilmente, la sanzione elettorale che comunque deriverebbe al governo in carica in seguito all’adozione di misure correttive, non hanno condotto al consenso necessario per introdurre in un ordinamento pubblico questo tipo di istituzioni.
Prescindendo dal tipo di proposte che vengono avanzate in merito all’istituzione di queste agenzie fiscali, e indipendentemente dai loro evidenti punti di debolezza, la loro finalità ultima è essere svincolate da interessi di parte e al riparo dai condizionamenti delle scadenze elettorali di breve termine, riuscendo, per questa via, a perseguire l’obiettivo di politiche di bilancio virtuose nel lungo periodo. Non si può pertanto negare che cerchino di risolvere un problema oggettivo. Questo vale per il livello nazionale, ma anche per il livello europeo, nei confronti del quale l’esitazione a riconoscere autonome competenze fiscali e di spesa nasconde, probabilmente, anche la preoccupazione di introdurre un ulteriore livello istituzionale la cui politica fiscale può ripetere la stessa inclinazione lassista sperimentata a livello nazionale. Questa preoccupazione dovrebbe riguardare però la politica di stabilizzazione, più che la politica distributiva ed allocativa in quanto, in linea di principio, queste ultime due politiche dovrebbero avere un bilancio in pari. Ora, il Trattato sul fiscal compact, approvato dal Consiglio europeo dell’1-2 marzo 2012, che rimedia ai limiti del Patto di stabilità e crescita, regola la politica di stabilizzazione che diventa, in prospettiva, europea[14]. Esso, inoltre, nella misura in cui prevede delle politiche di bilancio sostanzialmente in pareggio, introduce quei correttivi istituzionali necessari a restituire alle politiche d’impronta keynesiana il valore di misure volte a far fronte a temporanee insufficienze della domanda aggregata. Pertanto, con il fiscal compact, i deficit pubblici in cui s’incorrerà per sostenere la domanda, dovranno necessariamente essere seguiti da surplus nelle fasi favorevoli del ciclo economico.
Il fiscal compact, così com’è stato concepito, presenta però dei limiti che sono, da un lato, il fatto che non risolve il problema della legittimità democratica che deve presiedere a una politica di bilancio europea e, dall’altro, il fatto che non individua lo strumento adeguato che possa farsi carico della politica dello sviluppo sostenibile, la sola in grado di affermare un nuovo modello di crescita adeguato al nuovo quadro globale. Si tratterebbe, dunque, di prevedere per il livello europeo istituzioni che, pur godendo di un’autonoma capacità di raccogliere risorse finanziarie e di autonome capacità di spesa, rispondano alle preoccupazioni che la letteratura sul problema mette in evidenza e che le violazioni del Patto di stabilità e crescita hanno confermato. La proposta che si vuole qui sostenere è quella dell’istituzione di un’Agenzia europea per lo sviluppo sostenibile cui possa eventualmente far capo l’autonoma riscossione di un’imposta europea e che rispetti il vincolo del pareggio di bilancio.
 
4. Un’Agenzia indipendente europea per lo sviluppo sostenibile e il precedente della CECA.
 
La ragione per cui si propone l’istituzione di un’Agenzia per lo sviluppo sostenibile è legata al fatto che, per perseguire l’obiettivo di lungo termine dello sviluppo sostenibile, è necessario uno strumento ad hoc; non si tratta, infatti, di proporre una politica congiunturale, ma di dare al sistema economico europeo (e mondiale) la direzione di marcia per almeno una generazione, se non di più. Si tratta quindi di trovare il modo per condurre le istituzioni pubbliche a progettare politiche valide per il lungo periodo. Nella più volte citata “conversazione”, Padoa-Schioppa, a un certo punto, ricorda come “alla politica ed alle istituzioni pubbliche spetti un compito di guida e di educazione e […] che esse possano fare molto per correggere la tendenza alla miopia. Per molti aspetti il tempo è un bene pubblico che deve avere tutele istituzionali [sottolineatura nostra]”[15]. La creazione di un’Agenzia per lo sviluppo sostenibile va in questa direzione.
Occorre dunque dar vita ad un’istituzione che vada al di là della durata dei normali cicli elettorali, poiché, dati i compiti affidati all’Agenzia qui proposta, essa necessita di continuità: quindi, la sua costituzione non potrà essere la scelta di una parte politica e correre il rischio di venire successivamente rovesciata da una maggioranza di orientamento politico opposto. Come aveva ricordato a suo tempo Barbara Wootton, ci sono politiche che non possono essere messe in discussione da una legislatura all’altra e che pertanto richiedono l’approvazione di tutte le parti politiche o, quantomeno, della loro stragrande maggioranza[16]. Nel caso specifico, senza un’istituzione precisa istituita appositamente, è arduo ritenere che lo sviluppo sostenibile possa diventare una politica strutturale dei governi, e che si riesca a trovare, di volta in volta, l’accordo sulle singole iniziative: il consenso, infatti, andrebbe ogni volta ricercato sia tra le forze politiche europee, sia tra le parti costituenti l’Unione europea. Pertanto, si può ipotizzare che il voto parlamentare che dovrà accompagnare l’istituzione dell’Agenzia, convalidare la sua struttura di gestione e approvare il piano di sviluppo che essa presenterà, debba avvenire nel corso di una seduta congiunta del dei parlamenti nazionali e del Parlamento europeo, nella composizione dei paesi favorevoli all’istituzione dell’Agenzia. Alla seduta dovrebbe partecipare anche un rappresentante delle Nazioni Unite, per tener conto del punto di vista del resto del mondo, con diritto di parola, ma non di voto. Da parte sua l’Agenzia dovrebbe presentare un piano con le linee generali della politica di sviluppo che intende seguire. La discussione parlamentare relativa a questo piano dovrebbe riguardare le priorità, i tempi e le modalità di attuazione delle linee di sviluppo, ma non le singole proposte, per i motivi ricordati sopra. Per quanto riguarda invece la struttura di gestione dell’Agenzia, essa potrà fare riferimento al Consiglio Ecofin nella composizione dei paesi favorevoli all’iniziativa[17]; nel caso in cui l’iniziativa fosse fatta propria dai paesi dell’eurozona, la soluzione più adeguata sarebbe quella di farla coincidere con il Consiglio dei governatori previsto dal Trattato istitutivo del meccanismo europeo di stabilità[18].
Prima di approfondire ulteriormente le questioni legate alla struttura e al modus operandi dell’Agenzia, è necessario, però, soffermarsi ancora brevemente sul concetto di “sviluppo sostenibile”,Quando se ne parla, generalmente, si fa riferimento a quanto enunciato nel Rapporto Brundtland del 1987, dove si precisa che per sviluppo sostenibile si intende uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri”[19]. Il dibattito che ha fatto seguito a quel rapporto ne ha evidenziato anche i limiti e le contraddizioni, e consente di avanzare due specificazioni. La prima è che, nella misura in cui esso fa riferimento al soddisfacimento di bisogni, occorre richiamare la distinzione fatta da Luigi Einaudi tra domanda e bisogni, e quindi la differenza tra il compito che spetta al mercato rispetto a quello che spetta allo Stato nel fornire la combinazione ottimale di beni e servizi privati e pubblici. Secondo Einaudi “affermando essere il mercato lo strumento adatto per indirizzare la produzione nel senso di produrre beni e servigi, precisamente nella quantità e della qualità corrispondenti alla domanda degli uomini, non si afferma che il mercato indirizzi altresì la produzione a produrre beni e servigi nella quantità e nella qualità che sarebbe desiderata dagli stessi uomini […]. Sul mercato si soddisfano domande, non bisogni”[20]. Con ciò Einaudi intendeva precisare che il mercato soddisfa una domanda monetaria, mentre vi sono dei bisogni, come il servizio di sicurezza interno ed esterno, la giustizia, l’istruzione, la salute, e così via che, non traducendosi in domanda monetaria, devono essere forniti dallo Stato. La crescita economica e la tutela dell’ambiente, nella misura in cui si sono rivelati obiettivi contrastanti, danno origine al bisogno di “sviluppo sostenibile” che il mercato non soddisfa e che non può che essere soddisfatto dall’azione dell’operatore pubblico. La seconda osservazione è relativa alle conclusioni cui è giunto il dibattito seguito al Rapporto Brundtland in cui si è cercato di dare una definizione di “sviluppo sostenibile” in modo da poterlo tradurre in misure di politica economica. La discussione ha messo in luce che la politica che deve essere privilegiata è quella del sostegno agli investimenti e non ai consumi, e questo è l’indirizzo che viene fatto proprio dal presente documento.
Poiché ciò che distingue le riflessioni che seguono dalle proposte, avanzate da più parti, per un piano europeo di sviluppo riguarda più il tipo di approccio suggerito piuttosto che una valutazione del volume di risorse finanziarie da attivare o degli investimenti da realizzare, su questi ultimi due punti si farà riferimento a documenti già elaborati a questo proposito. Pertanto, per le risorse di cui dovrebbe essere dotata l’Agenzia e per gli investimenti che dovrebbe finanziare, ci si riferirà, rispettivamente ad un documento elaborato da alcuni parlamentari europei[21] ed alla comunicazione della Commissione europea Europa 2020[22].
 
a) Le risorse proprie dell’Agenzia.
 
Al fine sia di promuovere l’obiettivo dello sviluppo sostenibile, sia di affermare il principio della solidarietà tra Stati e tra cittadini europei, l’Agenzia dovrebbe poter contare su risorse finanziarie derivanti da imposte europee, che attesterebbero la volontà dei cittadini europei di sostenere direttamente l’Unione. La riscossione di tali imposte potrebbe provvisoriamente far capo all’Agenzia stessa, in attesa della definizione finale dell’assetto istituzionale federale europeo; oppure, viceversa, a partire dal momento in cui entrerà in vigore, al Meccanismo europeo di stabilità (MES), nel cui Consiglio dei governatori sono presenti i ministri delle Finanze dei paesi dell’eurozona e che, dati i poteri che gli sono attribuiti dal trattato istitutivo, può essere considerato un Tesoro europeo in costruzione[23]. Questa seconda opzione, potrebbe poi trovare un assetto istituzionale sostanzialmente definitivo nel momento in cui il MES, probabilmente in base alla revisione dei trattati esistenti o ad un nuovo trattato, venisse inquadrato in un assetto costituzionale di tipo federale e venisse sottoposto al controllo congiunto dei parlamenti nazionali e del Parlamento europeo nella configurazione dei paesi che hanno concordato il passaggio di sovranità (paesi che è auspicabile possano corrispondere ai membri dell’eurozona, inclusi quelli che non hanno ancora adottato la moneta unica ma che si preparano a farlo e che vogliono già partecipare all’iniziativa, sulla base di eventuali clausole provvisorie).
La riscossione di un’imposta europea da parte dell’Agenzia o del MES, non sarebbe una novità, in quanto la CECA, per lo svolgimento dei suoi compiti, si avvaleva di risorse proprie. Si trattava di “imposizioni” (termine che il trattato istitutivo aveva preferito a quello di “imposta”) sui prodotti carbo-siderurgici fino ad un limite massimo dell’1% del loro valore medio e salvo aumenti superiori a detto limite approvati dall’Alta Autorità (l’attuale Commissione europea) con la maggioranza dei due terzi. Gli Stati europei, quindi, in passato, avevano già convenuto di cedere competenze fiscali ad una Comunità indipendente per far fronte ad un compito specifico. In questo caso, poiché si tratta di istituire un’Agenzia per lo sviluppo sostenibile, l’imposta candidata a finanziarla dovrebbe essere la carbon tax. Per una stima delle risorse mobilitabili, si può ricordare quanto previsto dal Rapporto Haug, Lamassoure e Verhofstadt, che valuta in circa 38-48 miliardi di euro le entrate derivanti da una carbon tax. A queste risorse potrebbero essere aggiunte quelle derivanti dall’introduzione di una tassa europea sulle transazioni finanziarie che, secondo la Commissione europea, ammonterebbero a circa 57 miliardi di euro[24]. In questo modo, si raddoppierebbe nell’insieme la dotazione dell’attuale bilancio europeo. Le risorse finanziarie complessive attivabili potrebbero però essere decisamente superiori in quanto l’Agenzia potrebbe contribuire a sostenerle attraverso i project bonds (ossia progetti a debito che, senza quindi contrarre direttamente debiti, presentino una redditività che consenta loro, totalmente o parzialmente, di far fronte al servizio del debito). Il Rapporto Haug, Lamassoure e Verhofstadt ricorda, infatti, che il fabbisogno finanziario accessibile ai project bonds per sostenere gli investimenti in infrastrutture ammonterebbe a circa 1.800 miliardi di euro (qualora si tratti di progetti in grado di far fronte solo in parte al servizio del debito, la differenza dovrebbe essere coperta dall’imposta). L’aumento della base produttiva e occupazionale conseguente alla politica d’investimento sarebbe ulteriormente rafforzata da una carbon tax, che si applicherebbe anche alle merci importate e potrebbe così stimolare una probabile parziale rilocalizzazione di attività produttive verso il continente europeo.
 
b) L’“impresa comune” come strumento dell’Agenzia per il finanziamento e la realizzazione di investimenti in beni materiali.
 
La Comunicazione della Commissione europea del 3 marzo 2010, individua tre priorità tra cui la “crescita intelligente — sviluppare un'economia basata sulla conoscenza e sull'innovazione” e la “crescita sostenibile — promuovere un'economia più efficiente sotto il profilo delle risorse, più verde e più competitiva”[25]. La prima comprende l’iniziativa chiamata “Un'agenda europea del digitale” che ha l’obiettivo di realizzare una rete Internet superveloce su scala europea ed assicurare l’accesso ad essa di oltre il 50% delle famiglie europee entro il 2020. La seconda priorità ha l'obiettivo di favorire la transizione verso un'economia efficiente sotto il profilo del consumo di risorse naturali e con basse emissioni di carbonio, di scindere la crescita economica dall'uso delle risorse naturali e dell'energia (decoupling), di ridurre le emissioni di CO2, e di promuovere una maggiore sicurezza energetica. Essa prevede, tra gli altri interventi: l’iniziativa europea per le auto “verdi”; il potenziamento delle reti europee, comprese le reti trans-europee nel settore dell'energia, trasformandole in una super-rete europea, in “reti intelligenti” e in interconnessioni, in particolare quelle delle fonti di energia rinnovabile, con la rete di trasmissione; i progetti infrastrutturali nelle regioni del Baltico, dei Balcani, del Mediterraneo e dell'Eurasia; la politica spaziale e in particolare la realizzazione delle iniziative Galileo e GMES. Nel settore dell’energia, un’iniziativa concreta potrebbe essere la produzione di energia solare in Africa del Nord prevista dal progetto Desertec[26].
Se l’Agenzia deve finanziare progetti d’investimento che presentano un ritorno economico, essa potrebbe ricorrere, ad esempio, allo strumento dell’”impresa comune”, prevista dai trattati esistenti e di cui l’esempio più noto è costituito dall’“impresa comune Galileo” volto alla realizzazione di un sistema europeo di navigazione satellitare[27]. A fronte di queste iniziative l’Agenzia può fornire capitale proprio e quindi essere azionista, oppure fornire capitale di debito a lunghissimo termine, sulla base dell’esempio della Tennessee Valley Authority, costituita nel 1933 nell’ambito del New Deal americano, e che nel 1936 ha contratto un debito per finanziare i suoi investimenti e nel 2006 lo ha rimborsato: nel caso specifico, quindi, l’arco temporale per il rientro del debito è stato di settant’anni. L’assunzione di partecipazioni nelle “imprese comuni” che si potranno di volta in volta costituire, con il tempo rappresenterà parte del patrimonio che le generazioni attuali lasceranno in eredità alle generazioni future.
 
c) Il finanziamento di investimenti in beni immateriali: R&S, istruzione e formazione.
 
L’obiettivo della Commissione è di aumentare la spesa europea in R&S, oggi inferiore al 2% del PIL, contro il 2,6% negli Stati Uniti e il 3,4% in Giappone, soprattutto a causa dei livelli più bassi di investimenti privati, e di potenziare i livelli di istruzione in quanto meno di una persona su tre di età compresa tra 25 e 34 anni ha una laurea, contro il 40% negli Stati Uniti e oltre il 50% in Giappone. Si tratta di obiettivi già previsti dall’Agenda di Lisbona e non raggiunti, in quanto l’Unione, nel caso in cui gli Stati non prendano iniziative, non ha gli strumenti per agire direttamente. L’Agenzia per lo sviluppo sostenibile qui proposta ovvia a questo limite e si propone che operi anche in settori fino ad oggi trascurati, ma destinati a diventare sempre più importanti per effetto del progressivo invecchiamento della popolazione europea, come quello della salute. Può sorprendere il fatto che, negli USA, il settore che assorbe le maggiori risorse finanziarie pubbliche destinate alla ricerca e sviluppo, dopo quello della difesa, sia quello della salute, che viene quindi prima del settore energetico e della NASA. Nel 2010, il governo federale, le università e gli Stati membri hanno investito, in R&S nel settore della salute, oltre 60 miliardi di dollari (nello stesso anno, alla difesa sono andati 81,1 miliardi di dollari, all’energia 10,7 miliardi ed alla NASA 9,3)[28]. Non si sa a quanto ammontino gli investimenti pubblici in R&S dell’Unione europea nel settore della salute: si conosce solo quanto investe la Commissione europea attraverso il bilancio dell’UE (0,6 miliardi di euro nel 2010) e quanto spende il Regno Unito attraverso il National Health Service e lo UK Medical Research Council (complessivamente 1,8 miliardi di euro nel 2010)[29].
 
d) Il raccordo con gli obiettivi delle tradizionali politiche di bilancio.
 
Gli obiettivi tradizionali di una politica di bilancio sono la politica di stabilizzazione del reddito e dell’occupazione, la politica allocativa e la politica redistributiva. Con il Trattato sul fiscal compact, la politica di stabilizzazione sarà una competenza cooperativa europea, mentre la politica allocativa e quella redistributiva (fatta salva la politica ridistributiva tra Stati) resteranno di competenza nazionale. L’Agenzia si occuperebbe di un obiettivo ulteriore: lo sviluppo sostenibile. Va però precisato subito che quest’obiettivo non deve essere una competenza esclusiva (impossibile da perseguire anche in un regime a pianificazione rigidamente centralizzata), bensì una competenza concorrente in quanto gli interventi che una politica per lo sviluppo sostenibile richiede coinvolgono più ambiti territoriali e quindi più livelli di governo. Anche sotto questo profilo l’Agenzia richiama, pertanto, l’esigenza di approdare, in prospettiva, ad un riassetto federale del quadro istituzionale europeo, che preveda l’introduzione del sistema federale a tutti i livelli di governo, dalle regioni all’Europa. Al livello europeo spetterebbe il compito nuovo di fornire l’indirizzo alla politica di sviluppo del sistema economico europeo e finanziare e realizzare progetti di livello continentale o intercontinentale.
 
e) I limiti da porre al campo d’azione dell’Agenzia.
 
Il campo d’intervento di un’Agenzia per lo sviluppo sostenibile rischia di essere interpretato in modo troppo estensivo. Si ritiene che questo pericolo possa essere evitato con le seguenti misure: in primo luogo il bilancio dell’Agenzia deve chiudere in pareggio, vale a dire che essa non può spendere più di quello che incassa; in secondo luogo, i progetti che l’Agenzia deve finanziare devono essere investimenti in capitale e non in consumi; in terzo luogo, deve finanziare progetti di lunghissimo termine e quindi sottratti ad una logica elettorale di breve periodo; in quarto luogo, per evitare il pericolo di una politica incline allo sperpero di risorse pubbliche o a posizioni di rendita, si dovrebbe affiancare all’Agenzia un Comitato ad hoc incaricato di valutare se i progetti da finanziare sono effettivamente anche nell’interesse delle future generazioni[30]. Esso integrerebbe il ruolo di vigilanza esercitato dal mercato nel caso di progetti finanziati a debito. Pertanto si potrebbe prevedere un organismo chiamato ad esprimersi con un parere vincolante sulla bontà dei progetti, sulla falsariga di quanto proposto qualche anno fa da un giovane filosofo tedesco. Quest’organismo, che simbolicamente dovrebbe rappresentare gli interessi delle generazioni future, dovrebbe essere composto “da specialisti di comprovata competenza nelle discipline più significative per la sopravvivenza del genere umano […]”[31]. Questi specialisti, similmente a quanto proposto da Hösle, potrebbero essere eletti per metà dalla Corte di giustizia europea e per metà dal Parlamento europeo.
 
5. Le proposte federaliste nella prospettiva dell’istituzione di una federazione all’interno dell’Unione europea.
 
Al fine di riaprire il dibattito su come si possono realizzare passi avanti verso una federazione all’interno dell’attuale quadro europeo, può essere utile riprendere la discussione da quando il problema è stato affrontato per la prima volta, vale a dire dalle proposte del 1986 di Francesco Rossolillo ed Antonio Padoa-Schioppa, anche per vedere come, nel frattempo, si è modificata la situazione europea[32]. Si ricorda che allora di trattava di dare seguito all’iniziativa lanciata da Spinelli, ed approvata dal Parlamento europeo nel febbraio del 1984, di procedere all’istituzione di un’Unione europea in sostituzione della Comunità europea. Poiché il Consiglio europeo, per l’opposizione della Gran Bretagna, bocciò l’iniziativa, i federalisti si chiesero se fosse giuridicamente possibile procedere all’istituzione di un’Unione europea come quella proposta da Spinelli all’interno dell’allora Comunità europea. Si tratta quindi di richiamare, in particolare, l’aspetto politico e gli aspetti economici dalla proposta tecnico-giuridica avanzata in quegli anni. Per quanto riguarda l’aspetto politico, si ricorda che la proposta di costituzione dell’Unione dentro la Comunità aveva l’obiettivo di superare l’ostacolo allora rappresentato da Gran Bretagna, Danimarca, Grecia e Portogallo.
La procedura suggerita non prevedeva la rottura immediata con quei paesi, ma di presentare inizialmente un progetto di Trattato-costituzione da parte degli Stati favorevoli e di ricorrere all’art. 236 della Comunità (che prevede il voto unanime) al fine di andare avanti con il consenso di tutti. Solo una volta constatata l’impossibilità di trovare l’accordo unanime sul progetto di un’Unione dentro la Comunità, si sarebbe scelta la via di una rottura formale con la Gran Bretagna e con gli altri paesi contrari.
Per quanto riguarda gli aspetti strettamente economici della proposta tecnico-giuridica che allora venne proposta per la discussione, le conclusioni erano le seguenti:
1. risorse proprie e bilancio: le risorse sarebbero rimaste attribuite alla Comunità, mentre l’Unione avrebbe dovuto dotarsi di risorse proprie, ricorrendo a ulteriori trasferimenti;
2. politica agricola comune: avrebbe potuto continuare a far capo alla Comunità;
3. coesione: si ipotizzava una competenza concorrente e l’armonizzazione delle politiche regionali e sociali tra Comunità ed Unione;
4. moneta: si sosteneva che non presentava un conflitto, in quanto l’Unione avrebbe potuto inquadrare l’allora SME nel proprio sistema istituzionale e successivamente procedere verso un’unione monetaria;
5. mercato interno: si trattava di salvaguardare gli accordi raggiunti, di volta in volta, tra l’Unione ed i paesi esterni ad essa.
Rispetto alla proposta formulata in quei termini, che voleva tener conto della necessità di superare l’opposizione di chi non voleva la rottura, oppure dei “legalitari” che volevano rigidamente attenersi a quanto prevedevano i trattati, si può oggi constatare che ci troviamo in una situazione più favorevole per almeno due ragioni: la prima è che, con l’euro, abbiamo già a livello europeo un potere di natura federale, per cui ci troviamo già in una situazione in cui convivono un embrione di federazione (l’eurozona) dentro la confederazione (l’UE); la seconda è che con la decisione del Consiglio europeo del 9 dicembre scorso si è già di fatto consumata la rottura con la Gran Bretagna. Per quanto riguarda gli altri aspetti economici toccati dalla proposta di allora, non vi sarebbero particolari aggiustamenti da fare.
 
6. La procedura per l’istituzione di una politica di sviluppo sostenibile dell’eurozona nel quadro della politica di bilancio dell’UE.
 
La proposta di istituire un’Agenzia capace di decidere e di agire in proprio rovescia l’approccio fino ad ora seguito dalla Commissione europea che si limita a chiedere al Consiglio europeo di promuovere e coordinare iniziative nazionali. Gli Stati favorevoli all’iniziativa, promuovendo un’Agenzia dotata di uno statuto simile a quello della BCE e con organi di governo che restano in carica più a lungo della durata di una legislatura, si doterebbero di uno strumento atto ad intervenire direttamente sul territorio dei paesi partecipanti al fine di attuare una politica di sviluppo sostenibile.
La procedura per la sua istituzione potrebbe essere, se ci fossero le condizioni politiche, in prima istanza, quella di sfruttare le norme previste dal Trattato di Lisbona. Pertanto, potrebbe essere inizialmente proposta come una cooperazione rafforzata e, in questo caso, sarebbe utile che potesse esseresostenuta da un’iniziativa dei cittadini europei, promossa in conformità a quanto previsto dall’art. 11.4 del Trattato di Lisbona. La proposta di cooperazione rafforzata dovrebbe essere indirizzata alla Commissione europea da parte di uno o più Stati favorevoli a procedere. Se si constatasse che questa via è impercorribile[33], i paesi favorevoli potrebbero procedere al di fuori dei trattati, come avvenuto per il Trattato sul meccanismo europeo di stabilità e sul fiscal compact. Se nel frattempo si fosse proceduto a raccogliere il milione di firme necessario per presentare un’iniziativa dei cittadini europei, questa fornirebbe il supporto popolare a procedere in tal senso. L’iniziativa fuori dai trattati dovrebbe avere il voto, oltre che dei parlamenti nazionali interessati, anche del Parlamento europeo che potrebbe approvarla con la formula utilizzata per l’approvazione del Trattato sul fiscal compact, vale a dire chiedendo che nell’arco dei successivi cinque anni il trattato istitutivo dell’Agenzia sia incorporato nei trattati esistenti.
Per quanto riguarda il funzionamento degli organi dell’Unione europea in rapporto all’Agenzia, l’indicazione secondo cui “essi non dovranno essere duplicati, ma agire nelle due funzioni di organi” dell’eurozona e dell’Unione varrebbe solo per il Parlamento europeo[34]. L’Agenzia, come già detto, nello svolgimento del suo compito istituzionale, risponderebbe al Consiglio Eco-fin/Consiglio dei governatori. Per quanto riguarda invece la Corte di giustizia, i membri dei paesi che non partecipassero all’iniziativa “sarebbero competenti, insieme agli altri, in tutte le controversie riguardanti [l’Unione] e in quelle riguardanti i rapporti tra [l’Unione e l’eurozona]”[35]. Infine, per quanto riguarda il raccordo con l’attuale bilancio europeo, il fatto di chiamarla Agenzia lascia aperta la strada a una futura fusione delle due istituzioni. In prospettiva, quindi, l’Agenzia, sempre mantenendo le sue caratteristiche strutturali, potrebbe funzionare come la sezione di bilancio di un futuro Ministro europeo per lo sviluppo sostenibile. In ogni caso, si potrebbe fin dall’inizio prevedere che il bilancio dell’Agenzia sia inserito, come già fatto nel 1993 per il Fondo europeo di sviluppo, in un capitolo ad hoc del bilancio dell’Unione europea, in attesa che, quando i tempi saranno maturi, sia consolidato con quest’ultimo.


* Il presente lavoro è la versione scritta di una conferenza tenuta presso la sezione MFE di Milano il 17 gennaio 2012. La proposta qui contenuta ha un obiettivo minimo, il coinvolgimento dell’eurozona, ed un obiettivo massimo, il coinvolgimento degli Stati che si sono dichiarati favorevoli al fiscal compact, con l’esclusione di Gran Bretagna e Repubblica Ceca.
[1] Infatti, la politica dell’Agenzia non può che essere inquadrata nell’ambito delle competenze strutturali di un vero e proprio governo federale.
[2] Tommaso Padoa-Schioppa, La veduta corta (conversazione con Beda Romano sul Grande Crollo della finanza), Bologna, Il Mulino, 2009.
[3] Il modello di sviluppo cui Padoa-Schioppa fa esplicito riferimento è quello americano, ma il contenuto del libro, in realtà, è una critica, in senso lato, ad un modello di sviluppo fondato sul credito.
[4] OPEC, Monthly Oil Market Report, febbraio 2012.
[5] Tommaso Padoa-Schioppa, La veduta corta ..., op. cit., p. 61.
[6] Aymeri de Montesquiou, Rapport d’information fait au nom de la délégation pour l’Union européenne sur la politique européenne de l’énergie, Rapporto n. 259 del Senato francese, 15 marzo 2006; Jean-Marie Colombani, “Une nouvelle donne”, Le Monde, 30 dicembre 2006.
[7] John Drexhage and Deborah Murphy, Sustainable Development: From Brundtland to Rio 2012, UN High Level Panel on Global Sustainability, settembre 2010.
[8] Michel Ternisien, Michel Tudel, “De 1974 à 2011, l'indiscipline budgétaire a conduit la France à s'endetter”, Le Monde, 2 dicembre 2011.
[9] Tommaso Padoa-Schioppa, La veduta corta ..., op. cit., p. 38.
[10] Gianni Ruta, militante federalista della Sezione MFE di Roma, quando era direttore finanziario dell’allora Stet, intervenendo nel corso di un dibattito del comitato centrale MFE della seconda metà degli anni Settanta, fece notare che la sospensione della convertibilità del dollaro in oro avrebbe consentito di finanziare qualunque aumento del prezzo del petrolio in cui si sarebbe incorsi.
[11] Tommaso Padoa-Schioppa, Due anni di governo dell’economia (maggio 2006-maggio 2008), Bologna, Il Mulino, 2011, p. 502.
[12] V., ad esempio: Debrun X., Hauner D., Kumar M. S., “Independent fiscal agencies”, Journal of Economic Surveys, n. 1/23, 2009; Manmohan S. Kumar, Teresa Ter-Minassian (a cura di), Promoting Fiscal Discipline, Washington, IMF, 2007. Il problema della compatibilità tra politiche keynesiane, istituzioni democratiche e politiche finanziarie sane è stato affrontato soprattutto dalla scuola della public choice. In particolare, secondo James Buchanan, uno dei teorici della public choice, Keynes ha fornito la giustificazione ideologica all’abbandono dell’obiettivo del pareggio di bilancio e le politiche keynesiane, in assenza di adeguati vincoli costituzionali, conducono strutturalmente al perseguimento di politiche in deficit e al progressivo aumento del debito pubblico (V. James M. Buchanan, Richard E. Wagner, Democracy in Deficit: the Politcal Legacy of Lord Keynes, Indianapolis, Liberty Fund, 1977).
[13] Quest’argomentazione è pensata, in particolare, con riferimento ai governi di Stati sovrani e indipendenti. Il requisito della sovranità assoluta, infatti, svolge piuttosto un ruolo di incentivo nei confronti degli investitori, convinti che uno Stato sovrano offra piena garanzia sui titoli del debito pubblico nel caso di gravi crisi fiscali. L’esperienza, però, dimostra che il mercato, in assenza di regole, provoca invece disastri finanziari (V. Carmen M. Reinhart, Kenneth S. Rogoff, Questa volta è diverso, Milano, Il Saggiatore, 2010). Nel caso, invece, di governi di Stati membri di una federazione, se il governo federale, come nel caso degli USA, dà al mercato il segnale che non interverrà a loro favore quando si trovano in difficoltà finanziarie, e se questo atteggiamento del governo federale si accompagna a vincoli statali di carattere costituzionale riguardo all’indebitamento eccessivo, il mercato segnala per tempo, generalmente con l’aumento dei tassi di interesse, il deterioramento delle finanze pubbliche ed impone un riaggiustamento dei conti pubblici. Nel caso di Stati federali dove vi sono invece vincoli costituzionali alla solidarietà tra i diversi livelli di governo, come ad esempio nella Germania Federale, il rispetto della compatibilità tra il vincolo della solidarietà e l’obiettivo di finanze pubbliche sane ha imposto l’introduzione di vincoli costituzionali, validi per tutti i livelli di governo, a deficit e debito pubblico.
[14] La richiesta del pareggio di bilancio risponderebbe anche al problema evidenziato da Tommaso Padoa-Schioppa a proposito dell’abbandono della costituzione monetaria internazionale avvenuta con la sospensione della convertibilità del dollaro in oro. Quella decisione ha sancito l’abbandono definitivo di qualunque legame con l’oro (che comportava aggiustamenti quasi “automatici” delle finanze pubbliche e della bilancia dei pagamenti di uno Stato) e il passaggio a un sistema basato unicamente sulla carta-moneta (V. R. Triffin, Il sistema monetario internazionale (ieri, oggi e domani), Torino, Einaudi, 1973). Va da sé che quest’ultimo, se si vogliono evitare effetti inflazionistici, richiede l’adozione di vincoli costituzionali per una corretta gestione della politica monetaria e delle finanze pubbliche.
[15] Tommaso Padoa-Schioppa, La veduta corta..., op. cit., p. 77.
[16] Barbara Wootton, Freedom under planning, New York, The University of North Carolina Press, 1945. Gli esempi che fa la Wootton sono la costituzione del London Passenger Transport Board, del Central Electricity Board e della BBC.
[17] La ragione del riferimento al Consiglio Ecofin è dovuta al fatto che ogni anno esso prepara ed adotta, assieme al Parlamento europeo, il bilancio dell’Unione europea.
[18] V. Consiglio europeo, Trattato che istituisce il meccanismo europeo di stabilità, T/ESM 2012/it.
[19] Rapporto della Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo, Il futuro di noi tutti, Milano, Bompiani, 1988.
[20] Luigi Einaudi, Lezioni di politica sociale, Torino, Einaudi, 1964, p. 23.
[21] J. Haug, A. Lamassoure, G. Verhofstadt, Europe for Growth (For a radical change in financing the EU), 2011.
[22] Comunicazione della Commissione, EUROPA 2020 - Una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva, Bruxelles, 3.3.2010 COM(2010) 2020.
[23] L’esigenza che al Meccanismo europeo di stabilità, istituito per perseguire l’obiettivo della politica del rigore, si aggiungano meccanismi atti a promuovere la crescita sostenibile dell’economia europea è richiamata nella risoluzione del Parlamento europeo del 23 marzo 2011 che approva la modifica dell’art. 136 e l’istituzione del MES (v. P7_TA(2011)0103 e, in particolare, il par. 10 che: “invita la Commissione a studiare altri meccanismi atti a garantirela stabilità finanziaria e una crescita economica sostenibile e adeguata nella zona euro, nonché a formulare le necessarie proposte legislative; sottolinea la necessità che il meccanismo europeo di stabilità comprenda misure destinate a ridurre i rischi per la stabilità finanziaria, economica e sociale, fra cui un'efficace regolamentazione dei mercati finanziari, la revisione del patto di stabilità e crescita e un miglior coordinamento economico, l'introduzione di strumenti per ridurre gli squilibri macroeconomici nella zona euro e misure finalizzate al risanamento dell'ambiente”). Per quanto riguarda invece l’attribuzione al MES del potere di riscuotere i proventi derivanti dalle due imposte che qui si ipotizza debbano finanziare l’attività dell’Agenzia (ossia una carbon tax e una tassa sulle transazioni finanziarie) si potrebbe, però, porre un problema. Se, dato il compito dell’Agenzia, sarebbe giustificabile che essa si finanzi con i proventi della carbon tax, sarebbe invece più logico attribuire i proventi della tassa sulle transazioni finanziarie direttamente al MES per l’assolvimento dei suoi compiti (intervenire a sostegno del debito sovrano di uno Stato membro soggetto a un attacco speculativo dei mercati). Si tratta quindi di un punto che necessita ulteriori approfondimenti.
[24] European Commission, Proposal for a Council Directive on a common system of financial transaction tax and amending Directive 2008/7/EC, COM(2011) 594 final, del 28 settembre 2011.
[25] Comunicazione della Commissione, EUROPA 2020…, op. cit.
[26] Le informazioni sui promotori dell’iniziativa e sul contenuto della proposta possono essere trovate in: http://www.desertec.org/.
[27] Se l’Agenzia dovesse ricorrere all’istituzione di “imprese comuni” si porrebbe il problema del loro controllo. Si potrebbe in questo caso pensare ad una partecipazione paritetica da parte dell’Agenzia e degli Stati che concorreranno all’istituzione dell’Agenzia, ma con il casting vote in capo al rappresentante dell’Agenzia, in modo da superare i limiti della governance dell’impresa comune Galileo, incapace di esprimere il punto di vista dell’interesse europeo, in quanto ostaggio degli interessi nazionali.
[28] Il governo federale USA ha investito 34,5 miliardi di dollari, le università 11,1 miliardi, gli Stati 3,6 e altre agenzie pubbliche federali 11,1: Research America, 2010 U.S. Investment in Health Research, http://www.researchamerica.org/; Congressional Research Service, Federal Research and Development Funding: FY2011, 10 giugno 2011.
[29] Mark McCarthy, “Who support health research in Europe?”, European Journal of Public Health, 20, n. 1 (2010).
[30] Un’obiezione che potrebbe essere sollevata è che con questa proposta l’aumento delle risorse europee non riguarda il bilancio dell’UE, ma un’altra istituzione. La risposta che deve essere data è che quello che deve interessare i federalisti è che aumentino le risorse in capo all’Europa e sostenere la creazione d’istituzioni europee che dimostrino (come la BCE) di saper funzionare: solo così l’opinione pubblica europea si convincerà che esse sono la risposta ai problemi nazionali.
[31] Vittorio Hösle, Filosofia della crisi ecologica, Torino, Einaudi, 1992, p. 152.
[32] Francesco Rossolillo, “Unione Europea e Comunità”, Il Federalista, 28, pp. 151-56 (1986). Si tratta del saggio ripubblicato in questo numero della rivista. Antonio Padoa-Schioppa, “Unione Europea e Comunità Europea: due assetti istituzionali incompatibili?”, Il Federalista, , 30, pp. 210-13 (1988).
[33] V. su questo punto Giulia Rossolillo, “Fiscal compact, Meccanismo europeo di stabilità ed Europa a due velocità: proposte istituzionali per un governo della zona euro”, Il Federalista, 54, n. 1-2 (2012), p. 10.
[34] Francesco Rossolillo, “Unione Europea e Comunità”, op. cit. Dato l’obiettivo di creare un’Unione europea all’interno dell’allora Comunità europea, aveva senso prevedere che anche la Commissione europea non dovesse essere duplicata. Nel caso dell’Agenzia si tratta, invece, di dar vita ad un nuovo organismo con un compito delimitato.
[35] Francesco Rossolillo, “Unione Europea e Comunità”, op. cit. Si porrebbe, naturalmente, un problema di ripartizione dei costi di funzionamento delle istituzioni esistenti. Ora, nel caso di una cooperazione rafforzata i trattati prevedono che il bilancio europeo si faccia carico dei soli costi amministrativi. Se fosse necessario ricorrere a un’iniziativa fuori dei trattati, la ripartizione dei costi, anche di quelli amministrativi, dovrà essere oggetto di un accordo con l’Unione europea.

 

 

 

il federalista logo trasparente

The Federalist / Le Fédéraliste / Il Federalista
Via Villa Glori, 8
I-27100 Pavia