Anno LIV, 2012, Numero 1-2, Pagina 10
Fiscal compact,
Meccanismo europeo di stabilità
ed Europa a due velocità:
proposte istituzionali per un
governo della zona euro
GIULIA ROSSOLILLO
Con la firma del Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance dell’Unione economica e monetaria (il cosiddetto fiscal compact) e del Trattato che istituisce il Meccanismo europeo di stabilità si è aperta una fase del processo di integrazione europea che pone le premesse per la creazione di un’Europa a due velocità. Da un lato, infatti, per la prima volta nella storia di tale processo, un trattato concluso tra alcuni Stati membri dell’Unione (il fiscal compact è stato firmato solo da 25 Stati su 27[1]) entrerà in vigore con il deposito dello strumento di ratifica da parte solo di dodici Stati membri della zona euro, e non invece da parte di tutti gli Stati membri firmatari. Dall’altro, si stanno delineando istituzioni nuove per governare l’eurozona (un Consiglio dei Governatori che può adottare, almeno in alcune ipotesi, decisioni anche a maggioranza) previste da un trattato che solo dagli Stati parti della stessa è stato firmato e sarà ratificato.
Un simile passo per un verso manifesta la volontà di alcuni Stati di procedere verso forme di integrazione più stretta indipendentemente dal consenso di quegli Stati che invece a tali avanzamenti si oppongono, per l’altro aggiunge un ulteriore tassello alla progressiva identificazione della zona euro come quadro nell’ambito del quale dar vita a forme di integrazione politica. In effetti, non va dimenticato che i due trattati sono strettamente connessi tra loro, dal momento che solo gli Stati che avranno ratificato il fiscal compact potranno beneficiare del sostegno del MES.
Le critiche al fiscal compact fondate sulla contrapposizione tra metodo comunitario e metodo intergovernativo.
Al di là dei suoi contenuti — che comunque implicano l’accettazione da parte degli Stati che ratificheranno il trattato di notevoli limitazioni della propria sovranità in materia di bilancio — è stato soprattutto il metodo utilizzato dagli Stati firmatari del fiscal compact a suscitare non poche critiche, sia da parte dei sostenitori della necessità di seguire sempre e comunque il metodo comunitario, sia da parte di coloro che vedono nella non partecipazione di due Stati membri e nella possibilità di entrata in vigore del trattato con sole dodici ratifiche da parte di Stati della zona euro la manifestazione della volontà di alcuni Stati membri di escluderne altri dal processo. [2]
Simili critiche fanno perno sulla classica contrapposizione tra metodo comunitario e metodo intergovernativo, il primo visto come metodo realmente sovranazionale, democratico e in grado di far prevalere l’interesse comune su quello degli Stati membri, e il secondo come metodo fondato sulla contrapposizione degli interessi degli Stati e volto ad escludere la partecipazione delle istituzioni sovranazionali. Si tratta tuttavia di una contrapposizione abbastanza artificiosa e non suffragata da quanto disposto nei Trattati sull’Unione europea e sul Funzionamento dell’Unione europea, né dal funzionamento reale dell’Unione. In effetti, il cosiddetto metodo comunitario più che opporsi al metodo intergovernativo ne costituisce un perfezionamento:[3] l’estensione del voto a maggioranza qualificata in seno al Consiglio, il ruolo di mediatore svolto dalla Commissione e la presenza di una Corte di giustizia favoriscono il raggiungimento di forme di compromesso tra gli Stati membri; è tuttavia tale compromesso tra gli Stati a costituire ancora oggi lo strumento essenziale di funzionamento dell’Unione.[4] E’ lo stesso meccanismo di revisione dei trattati a rendere manifesto quanto ora affermato. L’art. 48 TUE prevede infatti che sia nel procedimento di revisione ordinaria sia nei procedimenti di revisione semplificata la modifica del trattato sia subordinata al consenso unanime degli Stati, espresso tramite ratifica o tramite decisione all’unanimità del Consiglio europeo.[5]
Se dunque per adottare le disposizioni contenute nel fiscal compact si fosse utilizzata la procedura prevista dall’art. 48 TUE, l’accordo tra tutti gli Stati membri sarebbe stato determinante e la natura del procedimento di revisione sarebbe stata nella sua essenza intergovernativa.
Piuttosto, il vero nodo della questione — e la differenza tra procedura prevista dall’art. 48 e conclusione di un trattato al di fuori dei meccanismi previsti dal diritto dell’Unione europea — risiede nel fatto che la procedura di cui all’art. 48 TUE avrebbe richiesto l’accordo di tutti gli Stati membri, mentre la conclusione di un accordo internazionale esterno ai trattati ha consentito di giungere a un testo firmato solo dagli Stati che ne condividevano i principi e che erano determinati a trovare forme di cooperazione reciproca più avanzate. Si tratta di una differenza di non poco conto, dal momento che la necessità di conciliare posizioni fortemente divergenti, e in particolare di trovare un compromesso con l’atteggiamento fortemente anti-europeista della Gran Bretagna, avrebbe sicuramente portato all’approvazione di un testo dai contenuti minimali o addirittura all’impossibilità di trovare un accordo.
Fiscal compact, Meccanismo europeo di stabilità ed equilibrio istituzionale dell’Unione.
Il diritto internazionale non vieta che alcuni Stati parti di un trattato ne concludano un secondo tra di loro che modifichi il trattato originario nei loro rapporti reciproci. In particolare, sulla base di quanto dispone la Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati all’art. 41, “due o più parti di un trattato multilaterale possono concludere un accordo avente lo scopo di modificare il trattato solo nei loro reciproci rapporti: a) se la possibilità di una tale modifica è prevista dal trattato; o b) se la modifica in questione non è vietata dal trattato, a condizione che essa: i) non pregiudichi in alcun modo per le altre parti il godimento dei diritti derivanti dal trattato né l’adempimento dei loro obblighi; e ii) non verta su di una disposizione dalla quale non si possa derogare senza che vi sia una incompatibilità con effettiva realizzazione dell’oggetto e dello scopo del trattato”.[6]
Applicata al caso concreto di un trattato concluso tra alcuni Stati membri dell’Unione europea al di fuori dei meccanismi previsti dai trattati istitutivi, tale disposizione si traduce nella necessità che tale accordo non incida sui diritti e doveri discendenti dall’appartenenza all’Unione europea in capo agli Stati che di detto trattato non sono parti. Affinché dunque il fiscal compact, il Meccanismo europeo di stabilità e i loro sviluppi futuri non pongano problemi di compatibilità con il diritto dell’Unione europea, è necessario che la struttura istituzionale dell’Unione e l’acquis rimangano sostanzialmente invariati.[7]
Un principio simile, anche se riferito ai rapporti tra diritto dell’Unione europea e trattati internazionali conclusi dalla stessa con Stati terzi o organizzazioni internazionali, è stato più volte ribadito dalla Corte di giustizia,[8] che in varie occasioni si è pronunciata nel senso dell’incompatibilità con il diritto dell’Unione di progetti di accordi con Stati terzi proprio perché questi avrebbero alterato l’equilibrio istituzionale dell’Unione. Nel parere 1/76[9] la Corte sottolinea già in effetti che “la conclusione, da parte della Comunità, di un accordo internazionale non può avere come effetto la rinuncia all’autonomia d’azione della Comunità stessa nelle sue relazioni esterne né la modifica della sua costituzione interna attraverso l’alterazione di elementi essenziali della struttura comunitaria, per quanto riguarda le prerogative delle istituzioni, il processo di decisione nell’ambito di queste e la posizione reciproca degli Stati membri”.
Sulla base di tale premessa, nel parere 1/91[10] relativo all’accordo sulla creazione dello Spazio economico europeo, la Corte ha pertanto ritenuto che pregiudicasse il sistema delle competenze definito dai trattati e l’autonomia dell’ordinamento giuridico comunitario l’istituzione di un organo giurisdizionale avente il compito di interpretare le norme di tale accordo, in quanto essa avrebbe comportato la violazione da parte degli Stati membri dell’Unione del loro obbligo di sottoporre qualsiasi controversia relativa all’interpretazione o applicazione dei trattati istitutivi unicamente ai modi di composizione previsti da questi.
E sulla base di argomentazioni simili, nel parere 1/09 ha negato la compatibilità con il diritto dell’Unione del progetto di accordo istitutivo di un tribunale competente per le controversie in materia di brevetti europei e comunitari[11] dal momento che tale organo, venendo a sostituirsi, nell’ambito delle sue competenze esclusive, ai giudici degli Stati membri, avrebbe alterato il meccanismo del rinvio pregiudiziale di cui all’art. 267 TFUE.
Che la salvaguardia della struttura istituzionale dell’Unione europea e delle competenze della stessa e delle sue istituzioni costituisca un obiettivo di primaria importanza per il diritto dell’Unione emerge d’altronde anche dalle disposizioni sulle cooperazioni rafforzate. Queste ultime, secondo quanto dispone l’art. 326 TFUE, devono rispettare infatti i trattati e il diritto dell’Unione, nonché le competenze, i diritti e gli obblighi degli Stati membri che non vi partecipano.
L’Accordo di Schengen, le cooperazioni rafforzate, il Benelux: spunti di riflessione sull’Europa a due velocità.
La necessità di individuare una soluzione che consenta di conciliare l’esigenza di alcuni Stati di procedere verso una reale integrazione politica e quella di salvaguardare l’equilibrio istituzionale dell’Unione impone di prendere in considerazione le forme di integrazione differenziata sviluppatesi finora nel contesto europeo, o almeno quelle forme di integrazione differenziata che possano fornire spunti utili alla nostra analisi: le cooperazioni rafforzate, l’Accordo di Schengen e il Benelux.
Si tratta di fenomeni molto distanti tra loro: le cooperazioni rafforzate sono infatti previste dai trattati, mentre l’Accordo di Schengen è stato concepito al di fuori dei trattati stessi e inserito in questi solo in un momento successivo. Quanto al Benelux, esso costituisce una forma di integrazione preesistente alla creazione della Comunità economica europea.
Soffermandoci per il momento sui primi due fenomeni citati, va sottolineato che da un punto di vista sostanziale né le cooperazioni rafforzate né l’Accordo di Schengen sono paragonabili a un ipotetico governo della zona euro, perché si tratta di forme di integrazione differenziata che riguardano aspetti molto specifici dell’integrazione. Tuttavia, dalla discussione apertasi dopo l’introduzione nei trattati dell’istituto della cooperazione rafforzata e dalle forme di coordinamento che si erano create tra istituzioni europee e istituzioni Schengen si possono trarre alcuni spunti utili ai nostri fini.
Come è noto, le cooperazioni rafforzate costituiscono una forma di integrazione differenziata prevista espressamente dai trattati, e dunque il legislatore dell’Unione si è preoccupato di garantire che esse non incidessero sull’equilibrio istituzionale della stessa. Perché si possa istituire una cooperazione rafforzata è necessario infatti che si accerti innanzitutto che gli obiettivi della cooperazione non possano essere conseguiti dall’Unione nel suo insieme, che la cooperazione si svolga nell’ambito di competenze non esclusive dell’Unione, che tale cooperazione rispetti i trattati e il diritto dell’Unione e che sia autorizzata dal Consiglio.
Mentre dunque il fiscal compact è un trattato internazionale concluso da alcuni Stati membri al di fuori dei meccanismi istituzionali previsti dai trattati istitutivi, le cooperazioni rafforzate in tali trattati sono pienamente inserite e sono pertanto vincolate ai meccanismi previsti dagli stessi.
L’elemento che, nonostante tale differenza di fondo, può presentare spunti di interesse è tuttavia costituito dall’intervento delle istituzioni dell’Unione nell’ambito di una cooperazione rafforzata. Il trattato non prevede infatti che la cooperazione rafforzata, una volta istituita, sia dotata di una propria autonoma struttura istituzionale, ma che essa si possa servire delle istituzioni dell’Unione. Dal momento che, tuttavia — per definizione — la cooperazione coinvolge solo alcuni Stati membri dell’Unione, il trattato prevede che il Consiglio voti in composizione ristretta. Secondo quanto dispone l’articolo 330 TFUE, infatti, “tutti i membri del Consiglio possono partecipare alle sue deliberazioni, ma solo i membri del Consiglio che rappresentano gli Stati membri partecipanti a una cooperazione rafforzata prendono parte al voto”.
Per quanto concerne invece Parlamento europeo e Commissione, non si prevede alcuna disposizione di tal genere: le due istituzioni intervengono dunque nelle cooperazioni rafforzate nella loro composizione ordinaria. Ora, una simile soluzione — almeno per quanto concerne il Parlamento europeo — non era scontata, e da parte di alcuni[12] si era fatto notare come anche per il Parlamento sarebbe stata più logica una soluzione simile a quella adottata per il Consiglio. La possibilità, oggi oggetto di discussione in relazione all’ipotesi di Europa a due velocità, che anche il Parlamento europeo possa operare a composizione ristretta era dunque già emersa nel dibattito negli anni Novanta. In effetti, se nella fase dell’istituzione di una cooperazione rafforzata ha un ruolo molto limitato, il Parlamento interviene poi nel funzionamento della cooperazione stessa: si pensi all’ipotesi in cui per l’operare della cooperazione rafforzata si renda necessario emanare atti da adottarsi secondo la procedura legislativa ordinaria, cioè secondo una procedura che vede la partecipazione, su un piede di parità, di Parlamento europeo e Consiglio.
Quanto alla Commissione, le obiezioni al fatto che essa debba agire nel suo insieme anche qualora operi nell’ambito di una cooperazione rafforzata sono più rare,[13] in quanto la natura e la formazione di questa istituzione sembrano renderne impossibile il funzionamento in composizione ristretta. Tuttavia, se in relazione a tali forme di cooperazione tra alcuni Stati membri la mancata previsione di un intervento della Commissione in composizione ristretta è forse condivisibile, concernendo le cooperazioni rafforzate generalmente questioni molto specifiche e settoriali del diritto dell’Unione europea, è invece molto più dubbio che tale soluzione possa trovare applicazione, nell’ipotesi in cui si proceda a un’istituzionalizzazione della zona euro come avanguardia all’interno dell’Unione. Da un lato, infatti, nonostante la Commissione rappresenti in teoria gli interessi dell’Unione nel suo complesso, il suo legame con gli Stati è reso palese dalla difficoltà per gli Stati stessi di accettare di essere privati del potere di nominare un proprio commissario: la norma che prevede che dal 2014 la Commissione sia costituita da un numero di commissari inferiore a quello degli Stati membri è stata in effetti messa nel cassetto dal vertice del Consiglio europeo del dicembre 2008.[14] Inoltre, nell’ipotesi in cui si crei una struttura istituzionale della zona euro, non è pensabile che tale zona sia governata da una Commissione nominata da un Consiglio europeo, un Consiglio e un Parlamento europeo composti dai rappresentanti di tutti gli Stati membri. Un simile meccanismo sovvertirebbe infatti i più elementari principi della rappresentanza democratica.
Quanto al Trattato di Schengen, si tratta di un trattato internazionale estraneo al diritto dell’Unione europea e concluso solo tra alcuni degli Stati membri, relativo all’eliminazione delle frontiere interne alla circolazione delle persone e all’introduzione di norme uniformi relative ai controlli alle frontiere esterne, dotato di propri organi. Prima della sua incorporazione nei trattati — e sta qui l’elemento interessante — si erano tuttavia previste delle forme di collegamento con le istituzioni europee. In particolare, la Commissione e il Segretariato generale del Consiglio inviavano degli osservatori nel Comitato esecutivo Schengen e nei gruppi di lavoro. E la Commissione degli affari interni del PE procedeva a un’audizione delle Presidenze Schengen periodicamente.[15] Si era quindi in presenza di una forma di cooperazione tra alcuni Stati esterna ai trattati, ma collegata in qualche modo alle istituzioni dell’Unione, le quali tuttavia non subivano alcuna modifica, né venivano investite di nuove competenze.
Se dalle due esperienze sopra citate è possibile trarre alcune indicazioni anche per future forme di istituzionalizzazione della zona euro, l’esempio che presenta forse più somiglianze con l’ipotesi qui in discussione è tuttavia quello del Benelux che, pur costituendo una forma di integrazione differenziata particolare, in quanto preesistente al Trattato CEE, presenta un certo interesse ai fini della nostra analisi. In effetti, l’art. 350 del TFUE stabilisce che “le disposizioni dei trattati non ostano all’esistenza e al perfezionamento delle unioni regionali tra il Belgio e il Lussemburgo, come pure tra il Belgio, il Lussemburgo e i Paesi Bassi, nella misura in cui gli obiettivi di tali unioni regionali non sono raggiunti in applicazione dei trattati”. Come ha precisato la Corte di giustizia,[16] tale disposizione consente agli Stati membri del Benelux di applicare le norme vigenti nell’ambito della loro unione in deroga alle norme comunitarie, tutte le volte in cui detta unione precorra l’attuazione del mercato comune. Secondo la Corte, il principio di uniformità di applicazione e di interpretazione del diritto dell’Unione europea non si oppone all’esistenza di questa cooperazione più stretta. Tale principio impone infatti di attribuire la medesima portata a norme comuni, ma non impedisce la produzione di norme nuove per un gruppo più piccolo di Stati.
Il Benelux è dotato poi di una propria Corte, formata da giudici delle corti supreme degli Stati partecipanti, abilitata ad operare rinvii pregiudiziali alla Corte di giustizia; mentre — come è noto — gli Stati membri del Benelux sono rappresentati individualmente nelle istituzioni dell’Unione europea.
Ora, la Corte di giustizia non ha mai esteso i principi relativi all’esistenza e al funzionamento del Benelux ad entità diverse da questo. Non ha però mai nemmeno affermato il contrario. In teoria non è quindi escluso che all’interno dell’Unione si formino unioni di Stati, che non fanno uso per il loro funzionamento delle istituzioni dell’Unione, ma di istituzioni proprie, e i cui componenti sono invece rappresentati singolarmente nelle istituzioni dell’Unione.
La transizione verso la creazione di un nucleo federale all’interno dell’Unione.
Gli esempi di integrazione differenziata ora illustrati sono suscettibili di fornire alcuni elementi di riflessione utili alla soluzione del problema cruciale al quale si trova oggi di fronte il processo di integrazione europea: quello di trovare soluzioni in grado da un lato di fornire risposte efficaci alla crisi evidente nella quale il processo si trova, dall’altro di superare la riluttanza degli Stati a compiere il salto federale e dunque a cedere la propria sovranità a un governo europeo legittimato democraticamente. Anche i governi nei quali vi è maggiore consapevolezza dei rischi che la crisi del processo di integrazione comporta, si trovano infatti nella difficile situazione di dover conciliare l’esigenza di fornire risposte rapide all’opinione pubblica colpita dalla crisi economica e la necessità di adottare misure di austerità per evitare che la crisi stessa porti al crollo della moneta unica.
Di fronte a una simile situazione e all’incalzare degli avvenimenti, è estremamente difficile prevedere quali possano essere gli scenari futuri e in che direzione evolverà il quadro. Non si può escludere addirittura che l’Unione europea si restringa fino a venire a coincidere con la zona euro, e che l’area ad essa esterna (costituita dagli Stati tra i quali non circola la moneta unica) si trasformi in un’area di libero scambio. In un’ipotesi di questo genere, le istituzioni attuali dell’Unione europea diverrebbero le istituzioni della nuova Unione europea federale, e assumerebbe senso la proposta, avanzata da più parti, di un’elezione diretta del Presidente della Commissione. Se l’Unione europea e la zona euro venissero a coincidere, infatti, si porrebbe il problema di dotare la struttura istituzionale della nuova Unione di un governo legittimato democraticamente, e l’elezione diretta del Presidente di tale esecutivo (la Commissione) costituirebbe il primo passo in questa direzione.
Lo scenario ora ipotizzato non sembra tuttavia all’ordine del giorno, e proporre oggi, in un’Unione europea a 27, l’elezione diretta del Presidente della Commissione, nella speranza che questo costituisca un antidoto alla crisi, è illusorio. Il problema che si pone infatti oggi con urgenza è quello di dotare l’eurozona di un governo, risolvendo in tal modo la contraddizione tra dimensione nazionale della politica economica e dimensione sovranazionale della politica monetaria. In questo contesto, l’elezione diretta del Presidente della Commissione da parte dei cittadini dei 27 Stati membri non comporterebbe alcun passo in avanti nella direzione dell’istituzionalizzazione e della democratizzazione dell’eurozona, dal momento che un governo di quest’area dovrebbe per definizione essere legittimato democraticamente solo dai cittadini dei paesi che di essa fanno parte.
All’esigenza di dotare l’eurozona dei mezzi per far fronte alla crisi e per evolvere verso una forma di carattere federale potrebbe invece rispondere la proposta di creare un’Agenzia indipendente per lo sviluppo sostenibile,[17] in grado di finanziare progetti di crescita; organismo indipendente dai governi nazionali — e dunque svincolato da condizionamenti di tipo elettorale — in grado di reperire le risorse finanziarie necessarie per la propria attività.
Si tratta dunque di vedere, alla luce delle esperienze passate di integrazione differenziata, come garantire che l’Agenzia costituisca un ulteriore passo verso la creazione di un governo federale e come configurare i rapporti tra la stessa e le istituzioni dell’Unione.
Quanto al primo aspetto, il primo problema da affrontare riguarda il quadro nel quale inserire tale Agenzia, problema al quale è strettamente collegato quello dell’individuazione del meccanismo attraverso il quale dar vita a un organismo di tal genere. Se l’Agenzia è concepita come strumento attraverso il quale consentire agli Stati membri che vogliono risolvere i problemi strutturali della zona euro di uscire dalla logica della mera imposizione di vincoli di bilancio per avviarsi verso una soluzione effettiva della crisi, va da sé che il quadro nel quale collocare tale Agenzia è già definito dal fiscal compact e dal Meccanismo europeo di stabilità, ed è costituito dagli Stati che ratificheranno tali trattati. L’Agenzia rappresenterebbe in altre parole un completamento del MES e del fiscal compact, nel senso che quest’ultimo prevede unicamente vincoli e misure volte al rigore in materia di bilancio, mentre l’Agenzia coprirebbe il profilo della crescita. E’ lo stesso art. 1 del fiscal compact a parlare di crescita sostenibile, occupazione, competitività e coesione sociale, tutti obiettivi che vengono enunciati, ma che non sono raggiunti attraverso le disposizioni di questo trattato.
In astratto, un simile risultato potrebbe essere conseguito attraverso la messa in opera di una cooperazione rafforzata tra gli Stati che si sono vincolati al MES e al fiscal compact. Una soluzione di questo genere, tuttavia, presenta alcuni inconvenienti.
In primo luogo, il fatto che la cooperazione rafforzata può essere autorizzata solo in seguito alla verifica del fatto che i suoi obiettivi non possono essere conseguiti dall’Unione nel suo insieme e richiede il voto favorevole di 14 commissari, l’approvazione a maggioranza assoluta da parte del Parlamento europeo e l’autorizzazione a maggioranza qualificata da parte del Consiglio, obiettivi di non facile realizzazione, considerato che il raggiungimento della maggioranza qualificata in Consiglio richiede l’accordo di gran parte degli Stati (la minoranza di blocco può essere costituita anche solo da 4 Stati che totalizzino 91 voti[18]) e che la Commissione ha una posizione tradizionalmente piuttosto ostile alle forme di integrazione differenziata.[19]
In secondo luogo, la circostanza che — come sottolineato — nel funzionamento della cooperazione rafforzata solo il Consiglio agisce in composizione ristretta, mentre Parlamento europeo e Commissione agiscono nella loro composizione piena. Di fatto, dunque, nel funzionamento della cooperazione possono intervenire anche i commissari e i parlamentari europei provenienti da Stati estranei alla stessa.
Simili circostanze rischiano di rendere il meccanismo di creazione dell’Agenzia complesso e il funzionamento della stessa inefficace; dunque di indebolire l’Agenzia.
Detti limiti potrebbero invece essere superati se l’Agenzia si fondasse, come il fiscal compact e il Meccanismo europeo di stabilità, su un trattato stipulato al di fuori dei meccanismi istituzionali dell’Unione europea, e dunque se fossero gli Stati parti di entrambi i trattati ora citati a dar vita, con un trattato internazionale, a tale Agenzia.
In questo contesto, il Parlamento europeo — o meglio i parlamentari europei degli Stati parti del trattato istitutivo dell’Agenzia — assumerebbe un ruolo determinante. In primo luogo, infatti, per evitare che l’Agenzia diventi un organo definitivo anziché una tappa per la creazione di un vero governo politico della zona euro, si potrebbe pensare di inserire nel suo trattato istitutivo una norma — come quella che era contenuta fin dal 1957 nel Trattato CEE e che prevedeva la presentazione da parte del PE di proposte volte alla sua elezione a suffragio universale diretto[20]— che attribuisca al Parlamento europeo in formazione ridotta (e dunque ai parlamentari europei degli Stati che avranno ratificato il fiscal compact e il trattato istitutivo dell’Agenzia) il potere di convocare una convenzione volta alla creazione di un vero e proprio esecutivo della zona euro, e che stabilisca dunque le modalità di nomina di un governo legittimato democraticamente.
Inoltre, dal momento che l’Agenzia gestirebbe risorse proprie, si porrebbe in modo ineludibile il problema del suo controllo democratico, che ancora una volta potrebbe essere esercitato dai parlamentari europei degli Stati che hanno ratificato il suo trattato istitutivo.[21]
Quanto ai rapporti tra l’Agenzia così configurata e le istituzioni dell’Unione, proprio per rispondere all’esigenza — sopra sottolineata — di non alterare la struttura istituzionale della stessa, sarebbe utile prevedere qualche forma di coordinamento con le istituzioni dell’Unione, come si era fatto con il trattato di Schengen.
Si tratterebbe evidentemente di una soluzione istituzionale di tipo provvisorio: la creazione dell’Agenzia non comporterebbe infatti automaticamente un salto verso un governo federale della zona euro. Essa potrebbe costituire, tuttavia, non solo uno strumento attraverso il quale rispondere all’esigenza — urgente — di affiancare la crescita al rigore, ma anche una sorta di laboratorio nel quale sperimentare nuove soluzioni istituzionali in vista della trasformazione della zona euro in un vero e proprio Stato federale.
[2] Sul punto v. J-C. Piris, The Future of Europe. Towards a Two-Speed EU?, Cambridge, 2012, p. 6 e 66, il quale sottolinea la differenza tra “two-speed Europe” e “two-class Europe”. Il Trattato istitutivo del Meccanismo europeo di stabilità non ha suscitato tali polemiche in quanto in qualche modo “autorizzato” dall’art. 136 TFUE recentemente modificato, secondo il quale “gli Stati membri la cui moneta è l’euro possono istituire un meccanismo di stabilità da attuare ove indispensabile per salvaguardare la stabilità dell’intera zona euro. La concessione di qualsiasi assistenza finanziaria necessaria nell’ambito del meccanismo sarà soggetta a una rigorosa condizionalità”.
[3] In questo senso v. P. Magnette, Le régime politique de l’Union européenne, 3. éd., Paris, 2009, p. 38.
[4] Come sottolinea P. Magnette, Le régime politique, op. cit., p. 109 ss., “ainsi conçue, la supranationalité n’est pas destinée à remplacer la coopération intergouvernementale, elle vise au contraire à la rendre possibile”. Sul punto v. anche J-P. Jacqué, Le nouveau discours sur la méthode, Notre Europe, septembre 2011.
[5] Al par. 5 dell’art. 48 TUE si legge che “qualora, al termine di un periodo di due anni a decorrere dalla firma di un trattato che modifica i trattati, i quattro quinti degli Stati membri abbiano ratificato detto trattato e uno o più Stati membri abbiano incontrato difficoltà nelle procedure di ratifica, la questione è deferita al Consiglio europeo”. Si tratta tuttavia di una disposizione che – oltre a dilatare i tempi della decisione sull’entrata in vigore del trattato modificativo – non sembra modificare la sostanza delle cose, dal momento che la decisione in seno al Consiglio europeo sarà presa all’unanimità o per consensus, ed è difficile pensare che gli Stati che non hanno ratificato il trattato acconsentano a che esso entri in vigore solo tra gli Stati che hanno proceduto alla ratifica.
[6] In merito a tale disposizione v. N. Quoc Dinh, “Evolution de la jurisprudence de la Cour internationale de La Haye relative au problème de la hiérarchie des normes conventionnelles”, in Mélanges offerts à Marcel Waline, Paris, 1974, pp. 215 ss.; M. Zuleeg, “Vertragskonkurrenz im Völkerrecht. Teil I: Veträge zwischen souvränen Staaten”, in German Yearbook of International Law, 1977, pp. 246 ss. Come nota E. Roucounas, Engagements parallèles et contradictoires, Recueil des Cours, 1987-VI, vol. 206, pp. 21 ss., spec. pp. 227 ss., alcuni trattati internazionali, quali la convenzione di Montego Bay sul diritto del mare, del 1982, prevedono espressamente la possibilità che alcuni Stati contraenti modifichino o sospendano le disposizioni del trattato stesso nei loro rapporti reciproci. Nello stesso senso è lo statuto dell’OIL, secondo il quale alcuni Stati membri possono concludere tra loro un accordo che tocca materie di competenza dell’organizzazione.
[7] Facendo riferimento alla Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, J-C. Piris (The Future of Europe, op. cit., p. 137) nota come “an additional treaty would not require the consent of other EU member States, on condition that their interests are not harmed and that the EU treaties as well as the EU law adopted on their basis remain fully applicable”.
[8] Secondo quanto dispone l’art. 218, par. 11, TFUE, “Uno Stato membro, il Parlamento europeo, il Consiglio o la Commissione possono domandare il parere della Corte di giustizia circa la compatibilità di un accordo previsto con i trattati. In caso di parere negativo, l’accordo previsto non può entrare in vigore, salvo modifiche dello stesso o revisione dei trattati”.
[9] Corte di giustizia, parere 26 aprile 1977, 1/76, in Raccolta, 1977, p. 741.
[10] Corte di giustizia, parere 14 dicembre 1991, 1/91, in Raccolta, 1991, p. I-6079. In seguito alla modifica del progetto di accordo sull’istituzione dello Spazio economico europeo, e in particolare alla modifica del meccanismo di controllo giurisdizionale, la Corte, chiamata a pronunciarsi sulla compatibilità con i trattati del nuovo progetto, ha espresso parere positivo, consentendo in questo modo la conclusione dell’accordo in questione (Corte di giustizia, parere 10 aprile 1992, 1/92, in Raccolta, 1992, p. I-2821). Come nota la Corte in quest’ultimo parere, garantire l’autonomia dell’ordinamento giuridico dell’Unione presuppone che le competenze di questa e delle sue istituzioni non siano snaturate. Questo implica che i meccanismi diretti a garantire l’uniformità di interpretazione delle norme di un accordo internazionale del quale l’Unione è parte non producano l’effetto di imporre all’Unione e alle sue istituzioni una determinata interpretazione delle norme di diritto dell’Unione europea riprese da detto accordo. Sulla nozione di autonomia dell’ordinamento giuridico dell’Unione v. T. Lock, “Walking on a Tightrope: the Draft ECHR Accession Agreement and the Autonomy of the EU Legal Order”, in Common Market Law Review, 2011, p. 1025 ss., spec. p. 1028 ss.
[11] Corte di giustizia, parere 8 marzo 2011, 1/09, non ancora pubblicato.
[12] In questo senso v. H. Bribosia, “Différenciation et avant-gardes au sein de l’Union européenne”, in Cahiers de droit européen, 2000, pp. 57 ss., spec. p. 72, secondo il quale, nell’ipotesi di creazione di un vero e proprio nucleo federale, sarebbe inevitabile pensare a un Consiglio e a un Parlamento europeo a composizione variabile (p. 75). Sul punto v. anche C. Guillard, L’intégration différenciée dans l’Union européenne, Bruxelles, 2006, p. 150.
[13] V. però J-C. Piris, The Future of Europe, op. cit., p. 57 e pp. 117 ss.
[14] U. Draetta, Elementi di diritto dell’Unione europea, Parte istituzionale, V ed., Milano, 2009, p. 125.
[15] Sul punto v. C. Guillard, L’intégration différenciée, op. cit., pp. 165 ss.
[16] Corte di giustizia, sentenza 16 maggio 1984, causa 105/83, Pakvries BV, in Raccolta, 1984, p. 2101.
[17] V. D. Moro, “Eurozona e Agenzia indipendente per lo sviluppo sostenibile (conciliare una politica di sviluppo dei paesi dell’eurozona con la politica di bilancio dell’UE)”, Il Federalista, 54, n.1 (2012), p.24. Nel senso che la creazione di un’Agenzia indipendente dai governi nazionali potrebbe costituire una soluzione, almeno temporanea, v. anche M. Devoluy, L’Euro est-il un échec?, Paris, 2011, p. 52.
[18] A decorrere dal 1° novembre 2014, come dispone l’art. 16.4 TUE, la maggioranza qualificata dovrebbe essere calcolata con un metodo differente, non più basato sulla ponderazione dei voti. Il raggiungimento della maggioranza richiederà comunque ancora l’accordo di un gran numero di Stati, tanto che la diposizione citata ribadisce che la minoranza di blocco dovrà essere costituita da almeno quattro Stati membri.
[20] Art. 138 TCEE.
[21] J-P. Piris, The Future of Europe, op. cit., pp. 128 ss., indica come terza via quella dell’elezione di un Parlamento europeo ristretto.