Anno XXXVI, 1994, Numero 3, Pagina 172
Il problema del sottosviluppo nell’era dell’unificazione mondiale
DOMENICO MORO
1. Il problema del sottosviluppo nell’era dell’unificazione mondiale.
Spesso, quando si parla del problema del sottosviluppo, per evidenziare il forte squilibrio nella distribuzione delle risorse a livello mondiale a favore dei paesi sviluppati, alcuni ricordano che questi ultimi, pur rappresentando il 24% della popolazione, assorbono l’83% del reddito totale, mentre il rimanente 76% della popolazione copre una quota del reddito mondiale pari al 17% del totale.[1] Altri, per sottolineare la drammaticità del problema, attirano invece l’attenzione sui livelli di reddito pro-capite, sostenendo che è aumentato il divario tra il 20% più ricco della popolazione mondiale rispetto al 20% più povero. Altri ancora, per caratterizzare geograficamente il fenomeno, sostengono che è aumentato il divario tra il Nord sviluppato e il Sud sottosviluppato, enfatizzando una sorta di contrapposizione geografica tra due aree con caratteristiche economiche supposte omogenee al loro interno. Tutte queste affermazioni vanno oggi esaminate più criticamente, nel senso che non corrispondono più alla realtà dello sviluppo economico conosciuto dal mondo negli ultimi decenni. Infatti, va osservato in primo luogo che, valutando il reddito mondiale in base ad un comune metro di calcolo, la quota di reddito mondiale dei paesi in via di sviluppo (PVS) è pari al 39% del totale.[2] In secondo luogo, il 20% più povero è di fatto geograficamente concentrato in un’area del mondo e ciò evidenzia un problema, come è intendimento dimostrare con il presente articolo, di natura più ampia del solo problema del sottosviluppo. Infine, negli ultimi anni vi sono stati sviluppi politici importanti, che pongono sotto una nuova luce il problema della povertà di alcune aree del mondo, in quanto stanno emergendo, come dimostra il caso del NAFTA (North-American Free Trade Agreement), esempi di integrazione regionale, e non di opposizione, tra paesi sviluppati e paesi sottosviluppati.
La verità è che ormai più del 50% dell’umanità si è o si sta rapidamente affrancando dall’emergenza del sottosviluppo, ma questo risultato, per quanto positivo, se da un lato non può considerarsi soddisfacente perché quasi la metà dell’umanità versa ancora in condizioni di estrema povertà, dall’altro non si può neppure dire che sia acquisito in maniera irreversibile. Perché lo sia, occorre che l’Unione europea (UE) colga l’occasione della Conferenza intergovernativa del 1996 per compiere un passo avanti verso la sua trasformazione in una vera e propria federazione, al fine di consolidare i risultati raggiunti al proprio interno e di contribuire a difendere la stabilità economico-monetaria a livello mondiale, che, malgrado i disordini momentanei che ha conosciuto, è all’origine dello sviluppo del secondo dopoguerra. Se l’UE dovesse trasformarsi in semplice area di libero scambio, verrebbe a mancare il necessario pilastro europeo della stabilità economica mondiale e si correrebbe il rischio di scivolare verso forme di protezionismo che metterebbero in pericolo il livello di sviluppo conseguito. Il rafforzamento dell’UE, invece, farà sì che la democrazia faccia dei passi avanti verso la sua affermazione anche a livello mondiale, coinvolgendo in questo processo l’ONU e i paesi e le associazioni regionali dove essa non si è ancora affermata.
L’aggiornamento dell’analisi del problema del sottosviluppo, sia pure con le necessarie cautele e precisazioni che saranno richieste di volta in volta, può quindi aiutarci a capire quali sono le responsabilità che pesano sugli Europei e quali iniziative può intraprendere l’UE per risolvere il problema dei paesi più poveri.
Al fine di individuare le aree che possono considerarsi fuori dall’emergenza economica e quelle su cui focalizzare l’attenzione per individuare delle specifiche iniziative, si ricorrerà sia a valutazioni di carattere politico, sia a valutazioni di carattere economico, attraverso l’uso di alcuni indicatori. Per quanto riguarda questi ultimi, il primo è quello suggerito da Fuà, secondo il quale, anche se non bisogna confondere le misure della crescita economica con le valutazioni del benessere, data la non sufficiente affidabilità di valutazioni basate sui livelli di reddito, occorre «prendere atto che storicamente si è verificata una certa connessione tra il livello di reddito di un paese e la durata media della vita dei suoi abitanti»; questa durata «può essere considerata un indicatore significativo del benessere fisiologico goduto dalla popolazione».[3] Tuttavia, poiché la durata media può essere considerata ancora un parametro parziale del benessere e poiché non si può stabilire una corrispondenza biunivoca tra livello di reddito e speranza di vita alla nascita, viene preso in considerazione un nuovo indicatore che l’ONU ha sviluppato nel tentativo di trovare un parametro più significativo del livello di vita di un paese: questo nuovo indicatore è il cosiddetto Indice di sviluppo umano (ISU) e tiene conto della longevità, della conoscenza e del livello di reddito pro-capite. Sulla base di questo parametro, l’ONU ha raggruppato i paesi in tre gruppi: nel primo sono riuniti i paesi ad alto sviluppo umano (di fatto tutti i paesi industrializzati, più altri dell’America latina e dell’Asia normalmente considerati in via di sviluppo), nel secondo quelli a medio sviluppo umano, e nel terzo quelli con il più basso livello di sviluppo umano.[4] Infine, l’altro indicatore preso in considerazione è il tasso di sviluppo medio annuo del Prodotto interno lordo totale, per avere una indicazione del grado di dinamicità della situazione, e del reddito pro-capite, per tener conto di quanto la crescita economica è vanificata da una elevata dinamica dell’incremento demografico.[5]
Iniziando dalle valutazioni di carattere politico, il primo fatto da ricordare riguarda la ratifica del NAFTA da parte dei parlamenti dei paesi interessati, avvenuta alla fine del 1993. Per la prima volta un importante paese a basso reddito pro-capite, il Messico, peraltro già membro dell’OCSE, entra a far parte di una grande area di libero scambio assieme agli Stati Uniti e al Canada. Il NAFTA non è ancora la Comunità economica europea, né tantomeno l’Unione europea. Esso rappresenta però di fatto un approccio nuovo al problema di una politica attiva nei confronti del sottosviluppo, che ha già portato alla richiesta di adesione da parte di altri paesi, quali l’Argentina, il Cile e il Venezuela. Il NAFTA (370 milioni di abitanti) riunisce paesi che presentano una speranza di vita media, al 1992, di 74 anni (il Messico 70), contro una media mondiale di 66 anni, e con un ISU che lo colloca tra i paesi ad alto sviluppo umano. I tre paesi che hanno chiesto di aderire (67 milioni di abitanti), presentano una speranza media di vita pari a 71 anni ed un ISU elevato, pur avendo un reddito pro-capite molto più basso di quello degli USA, e in particolare Cile e Argentina stanno consolidando il loro ritorno alla democrazia. Infatti, il recente Vertice panamericano, promosso dal Presidente Clinton e tenutosi a Miami l’11 e 12 dicembre 1994, ponendo le premesse della creazione di un unico mercato americano entro il 2005, sta rilanciando le comunità economiche regionali come, ad esempio, il MERCOSUR. Queste ultime, nella fase di transizione alla trasformazione del mercato panamericano in una vera e propria federazione, potranno anche sviluppare rapporti di collaborazione con l’Unione europea o altre aree, al fine di riequilibrare il peso dell’economia nordamericana. Intanto, con il NAFTA, il Messico ha scelto la sua via all’affrancamento dal sottosviluppo abbracciando la politica della sempre più stretta integrazione con il Nord America, mentre in altre parti del continente americano hanno ritrovato nuovo slancio processi di integrazione regionale che sembravano sopiti da tempo.
L’altra area del mondo dove è in corso un rapido mutamento delle condizioni di vita è l’Asia. E’ noto il rapido sviluppo economico degli ultimi anni (oltre il 9% annuo di crescita del PIL, nel periodo 1980-91) delle cosiddette «tigri asiatiche», Corea del Sud, Hong Kong, Taiwan, che insieme contano 71 milioni di abitanti, e che l’ONU annovera tra i paesi ad alto livello di sviluppo umano. A questi sono ormai da aggiungere anche i paesi aderenti all’ASEAN (334 milioni di abitanti), un’associazione costituita nel 1967 da Filippine, Indonesia, Malaysia, Thailandia, Singapore e Brunei (entrato nel 1976), che dal 1° gennaio del 1993 ha dato inizio alla sua progressiva trasformazione in un’area di libero scambio vera e propria con una prima fase di riduzione delle tariffe doganali e che dal luglio del 1994 ha avviato le trattative per estendere la collaborazione dalla politica estera alla politica di sicurezza. Malgrado l’ONU li consideri parte dei paesi a medio sviluppo umano, la crescita del PIL di questo gruppo è sostenuta (5,2% annuo), e la speranza di vita media (64 anni) è, anche se di poco, superiore a quella dei PVS (61). L’ASEAN sta esercitando una forte attrazione sugli Stati confinanti, tanto che, recentemente, sono stati cooptati quali nuovi membri dell’associazione la Cambogia e il Vietnam: quest’ultimo, secondo un’opinione diffusa, entrerà rapidamente nel novero dei paesi più industrializzati dell’area.[6] Tuttavia non sono queste le vere novità per quanto riguarda il punto sulla situazione del sottosviluppo in questa parte del mondo. La svolta decisiva sulla via della crescita economica sta avvenendo in Cina, un paese in cui il Prodotto interno lordo, nel periodo 1980-92, è cresciuto al tasso di quasi il 10% annuo (contro, ad esempio, il 2,3% annuo dell’Unione europea) e la cui economia, che già oggi, come dimensione, è seconda solo a quella degli Stati Uniti, nell’arco dei prossimi dieci anni la supererà. Certamente la crescita di questo paese non è avvenuta in maniera uniforme su tutto il territorio, in quanto ne hanno beneficiato prevalentemente le aree urbane della costa orientale ed alla progressiva apertura al mercato non ha fatto seguito una parallela evoluzione verso l’adozione di istituzioni democratiche. Tuttavia, le condizioni di vita della Cina, che conta 1.150 milioni di abitanti, e che l’ONU considera a medio sviluppo umano, nel secondo dopoguerra sono migliorate in misura sensibile. Basti pensare che la speranza di vita alla nascita ha compiuto un balzo spettacolare, passando da 47 anni nel 1960 a quasi 71 nel 1992.[7]
Per quanto riguarda l’Europa centrale ed orientale e le Repubbliche della CSI, le valutazioni che vanno fatte sono sia politiche sia strettamente economiche. Dal punto di vista politico, il fatto che sia in calendario l’ingresso nell’Unione europea della Polonia, dell’Ungheria, della Repubblica ceca e della Slovacchia non solo sta consolidando la loro crescita economica e le istituzioni democratiche, ma ha innescato un processo di imitazione che si è esteso agli altri paesi dell’Europa centro-orientale e alle Repubbliche baltiche. In secondo luogo, se non si limita lo sguardo al flusso della ricchezza prodotta ed ai livelli di reddito raggiunti nell’Europa centro-orientale e nella CSI, ma anche allo stock di capitale fisico e intellettuale accumulato, quest’area deve essere annoverata nel gruppo dei paesi industrializzati. L’ONU, con l’eccezione della Romania e della Repubbliche asiatiche dell’ex-URSS considerate a medio sviluppo umano, annovera l’Europa centro-orientale e la CSI tra i paesi ad alto sviluppo umano.
Se tutto questo è vero, si può ragionevolmente sostenere che per quanto riguarda le Americhe, l’Asia (con l’importante eccezione, per citare i paesi maggiori, di Pakistan, Bangladesh e India, alcune regioni della quale sono però molto sviluppate e prima o poi trascineranno nel loro sviluppo l’intero continente indiano), l’Europa centro-orientale e la CSI non si può parlare di vero e proprio sottosviluppo. L’unico continente dove questo costituisce il vero problema, sia per il livello di arretratezza economica, sia soprattutto perché ad oggi non si vedono prospettive di soluzione nel medio-lungo termine, è l’Africa. Si può anzi sostenere che la parte del mondo dove il problema strategico è trovare la via dello sviluppo è solo il continente africano.[8]
La peculiarità di questo continente, rispetto alle altre aree del mondo, la si può riscontrare in tutti i parametri che si sono visti sopra ed in altri che danno la misura del divario. Ad esempio, la speranza di vita alla nascita, che per il complesso dei paesi in via di sviluppo è pari a 61 anni, nel caso dell’Africa è pari a 52 anni. Il parametro più generale utilizzato dall’ONU, quello relativo allo sviluppo umano, indica ancora una volta che l’Africa occupa il valore più basso a livello mondiale, poiché l’80% dei paesi considerati a più basso sviluppo umano sono africani. Inoltre, nell’Africa sub-sahariana il PIL pro-capite, nel periodo 1980-91, dato un tasso di crescita della popolazione superiore a quello del PIL totale, ha addirittura avuto uno sviluppo negativo. Dunque, quando si sostiene che è aumentata la distanza tra il 20% più ricco della popolazione mondiale ed il 20% più povero, occorre osservare che quest’ultimo gruppo è molto concentrato geograficamente, in quanto per circa la metà è costituito dalla popolazione africana, il che corrisponde a più di 3/4 della popolazione dell’intero continente.
2. La teoria dello sfruttamento esterno e le cause interne del sottosviluppo.
Per spiegare il basso livello di reddito pro-capite dei PVS si sostiene tuttora la tesi dello sfruttamento di questi ultimi da parte dei paesi industrializzati. Questa teoria mette l’accento sulle cause economiche esterne del sottosviluppo, sottovalutando invece le cause interne.
Un primo argomento su cui si basa la teoria dello sfruttamento è quello dei prezzi troppo bassi delle materie prime e della loro progressiva diminuzione nel lungo periodo, il secondo è quello del peggioramento delle ragioni di scambio (terms of trade): in tutti e due i casi viene espresso il convincimento che i due fenomeni riguardano solo iPVS, ritenuti prevalentemente esportatori di prodotti primari. Il terzo argomento riguarda il ruolo negativo svolto dalle società multinazionali, ritenute responsabili del perseguimento di una politica di sistematico depauperamento delle risorse dei PVS.
Per quanto riguarda i prezzi delle materie prime, occorre osservare che la loro diminuzione nel lungo periodo tocca tutti i produttori ed esportatori di materie prime e che non è ipotizzabile un danno limitato ai soli PVS, dato che questi pesano solo per 1/3 sull’export mondiale delle materie prime, contro i 2/3 dei paesi industrializzati (gli USA, in particolare, sono il maggior esportatore mondiale di materie prime e di prodotti alimentari). Il calo dei prezzi sembra più verosimile che possa imputarsi alla crisi di sovrapproduzione e al tendenziale minore impiego di materie prime nel ciclo produttivo dovuto a maggior efficienza dei processi produttivi ed al crescente impiego di materie prime riciclate.[9] Inoltre va tenuto presente che ormai le materie prime non rappresentano più la maggior quota dell’export dei PVS: nel 1990 esse erano pari al 46,9% dell’export totale dei PVS, di cui il 24,9% era costituito dal petrolio e da altri combustibili.[10]
Anche l’argomentazione del peggioramento sistematico delle ragioni di scambio (rapporto tra i prezzi delle esportazioni e i prezzi delle importazioni) dei PVS non è sostenibile. Nel periodo 1972-8, mentre i terms of trade dei paesi industrializzati peggioravano dell’1,9% annuo, i terms of trade dei PVS miglioravano del 7,0%, annuo. Successivamente, nel periodo 1982-91, la situazione si è invertita, con i terms of trade dei paesi industrializzati che sono migliorati al tasso dell’1,6% annuo e quelli dei PVS che sono peggiorati del 2,2% annuo.[11] Però, anche se negli ultimi anni vi è stato un peggioramento, esaminando un arco di tempo che va dalla fine degli anni ‘30 fino ad oggi, non è verificata la tesi di un declino strutturale a svantaggio dei soli PVS.[12] Ancora una volta il peggioramento dei terms of trade per questi ultimi sembra più da imputarsi alle stesse ragioni che, più in generale, hanno determinato un calo dei prezzi delle materie prime. Va inoltre aggiunto che il fatto di essere in gran parte esportatori di materie prime non significa automaticamente essere più danneggiati di altri paesi, in quanto tra i paesi esportatori di materie prime ci sono sia ricchi paesi industrializzati (ad es. Australia e Nuova Zelanda), sia ricchi PVS (ad es. Arabia Saudita e Kuwait). In genere questi ultimi si trovano in una posizione relativamente migliore di altri PVS, ed il problema che hanno è piuttosto quello di una maggiore giustizia distributiva interna. Certamente, però, la politica protezionistica delle produzioni agricole perseguita dai paesi industrializzati, ed in particolare dall’UE, non aiuta a sostenere la crescita dei PVS.
Per quanto riguarda il ruolo svolto nei PVS dalle imprese multinazionali, anche se è riconosciuto il sostegno dato da una multinazionale americana al colpo di Stato in Cile, non si può da questo dedurre che venga messa in atto una sistematica politica di sfruttamento economico o che si manifesti un comportamento generale di esercizio diretto del potere politico che può arrivare fino a far cadere regimi che non sono di gradimento. E’ vero invece che esse sono interessate alla stabilità politica di lungo periodo, perché questo consente loro di ricavare profitti dagli investimenti effettuati e ciò spiega perché tendono ad investire nei paesi industrializzati, piuttosto che nei PVS.[13]
Recentemente la teoria su esposta è stata da più parti messa in discussione sia in termini generali[14] sia, nel caso di uno studio prodotto dalla Banca mondiale, con specifico riferimento all’Africa sub-sahariana.[15]
In particolare viene messo sotto accusa il tipo di politica di aiuto che viene prestato ai PVS. Infatti, secondo alcuni autori, il persistere del sottosviluppo è da imputarsi a ragioni interne. Il motivo sarebbe dovuto al fatto che la politica degli aiuti si risolve in finanziamenti che vengono dati ai governi dei PVS i quali, essendo interessati ad assicurarsi un flusso costante di aiuti, tendono a non risolvere il problema del sottosviluppo, mentre vengono tollerate sensibili disuguaglianze economiche quali quelle tra l’alto livello di vita di una ristretta casta di burocrati e dirigenti pubblici legati alla classe politica locale, da un lato, e il basso livello di vita della stragrande maggioranza della popolazione. Questa tesi è condivisa anche da economisti del Terzo mondo che attribuiscono i comportamenti malsani e le inefficienze alla presenza, ritenuta eccessiva, dello Stato nell’economia.[16]
Tuttavia, questa critica alla politica degli aiuti, pur contenendo molti elementi di verità di cui occorre tenere conto, è troppo semplicistica, in quanto non aiuta a capire a quali condizioni essa può essere efficace nel decollo dello sviluppo. Il fatto che la politica degli aiuti, di per sé sola, non garantisca il processo di accumulazione del capitale nei PVS è sempre stato messo in evidenza. Pertanto, di fronte all’esempio dell’Africa, in cui persiste il sottosviluppo, può essere utile ricordare gli elementi fondamentali di questa critica che fu sviluppata in modo efficace nell’immediato dopoguerra dall’economista svedese Ragnar Nurske.[17] Nurske conclude la sua analisi sul processo di formazione del capitale nei paesi sottosviluppati sostenendo che la crescita economica dei PVS in definitiva dipende da loro stessi e quindi dall’esistenza di politiche finalizzate o meno a sostenere il processo di accumulazione. Né la politica degli aiuti, né favorevoli ragioni di scambio, né altri strumenti possono avere qualche efficacia se non sono accompagnati da politiche interne impostate su una ferrea politica di sostegno del processo di accumulazione. Nurske motiva la sua tesi in base ad argomentazioni che negli anni successivi sono state ulteriormente affinate e che si riducono in sostanza a sottolineare il fatto che gli aiuti esterni, in assenza di politiche attive, non si aggiungono al risparmio interno disponibile, ma lo sostituiscono. Questa conclusione nasce dalla constatazione che il livello di risparmio non dipende solo dal livello assoluto di reddito, ma anche dal suo livello relativo e si basa sul noto «effetto dimostrazione», entrato nel dibattito economico alla fine degli anni ‘40. In una situazione, cioè, in cui vengano in contatto due aree, caratterizzate da due diversi livelli di reddito, i consumatori dell’area con i redditi più bassi tenderanno ad imitare i consumatori dell’area con i redditi più elevati, comprimendo la propensione al risparmio. In questa situazione, ed in presenza di una grande velocità di circolazione dell’informazione e di diffusione dei modelli di consumo dei paesi più ricchi a tutto il pianeta, «è quasi sempre possibile, in una certa misura, che i fondi esteri si sostituiscano al risparmio interno in modo che il consumo di quel paese si espanda e non vi sia nessun incremento rilevante nel saggio di accumulazione».[18]
L’affinamento successivo di questa argomentazione si è avuto con la generalizzazione dell’effetto di sostituzione del risparmio esterno al risparmio interno e con l’osservazione del cosiddetto «paradosso dei trasferimenti».[19] Nel primo caso si è estesa l’analisi all’effetto che il flusso di risparmio esterno ha sulla formazione della componente del risparmio interno rappresentata dal risparmio pubblico. La tesi è che, poiché una gran parte dell’indebitamento internazionale dei paesi del Terzo mondo, come è il caso di quelli africani, è indebitamento pubblico, che transita spesso attraverso il bilancio dello Stato o attraverso imprese pubbliche, quando i poteri pubblici vedono venire meno il vincolo di bilancio, sotto l’effetto dell’apporto di capitali esteri, essi tendono ad allentare la disciplina di bilancio riducendo il risparmio pubblico. Questo argomento è tanto più valido quanto più importante è la componente pubblica del risparmio potenziale interno di un paese ed è la situazione in cui si trovano i paesi africani, per i quali l’afflusso di fondi pubblici dall’estero è prevalente rispetto a quello di fondi privati e per i quali, dati i bassi livelli di reddito pro-capite, è ipotizzabile che la quota di risparmio pubblico sia chiamata a svolgere un ruolo decisivo nel processo di accumulazione. Una seconda ragione che può giustificare l’ipotesi di sostituzione tra risparmio esterno e interno, concerne l’effetto di spiazzamento dei risparmi interni privati attraverso l’afflusso di capitali esteri sul mercato locale dei capitali. Se ad un dato istante esiste solo un numero limitato di opportunità di investimento nell’economia nazionale, il fatto che dei capitali esteri vengano investiti nell’economia può ridurre le occasioni di investimento redditizio per i risparmiatori locali. In queste circostanze, i risparmiatori locali sono spinti o a risparmiare di meno, avendo meno occasioni di investimento, oppure a cercare queste occasioni all’estero.
Il «paradosso dei trasferimenti»,[20] dal canto suo, suggerisce che quando un’economia beneficia di un trasferimento dall’estero, invece di conseguire un miglioramento del livello di benessere, in termini di maggior reddito disponibile, essa in realtà può esserne impoverita. Un trasferimento di risorse reali può avere un’influenza negativa su un sistema economico se modifica in senso sfavorevole l’evoluzione delle ragioni di scambio e se interviene in un contesto in cui esistono distorsioni nel funzionamento del mercato. Il primo caso si verifica quando il trasferimento di risorse modifica le ragioni di scambio alterando le condizioni dell’offerta e della domanda di beni sui mercati internazionali. In particolare, il trasferimento avrà un effetto negativo sul paese beneficiario se lo conduce ad aumentare la sua domanda di prodotti esteri più di quanto il paese che ha trasferito le risorse non riduca la sua domanda di quelle stesse merci, provocando così un aumento dei prezzi all’importazione. L’effetto del trasferimento sarà positivo nel caso contrario. Storicamente, i paesi del Terzo mondo, tra il 1970 ed il 1982, hanno beneficiato di trasferimenti netti crescenti. Il fatto è che quando si è posto il problema del loro eccessivo indebitamento e si sono messe in atto politiche per il rimborso, attivando trasferimenti in senso opposto, questa politica ha trovato attuazione contemporaneamente in tutti i paesi. Questi, per generare le risorse necessarie al rimborso hanno dovuto sia comprimere le importazioni, sia forzare le esportazioni in una fase in cui le economie dei paesi industrializzati erano in difficoltà. Da ciò ha avuto origine parte del deterioramento delle ragioni di scambio dei PVS a partire dalla seconda metà degli anni ‘80.
Gli argomenti relativi alle distorsioni introdotte nell’equilibrio concorrenziale di mercato sembrano ancora più pertinenti. Un esempio importante di queste distorsioni è quello che riguarda le politiche commerciali, spesso protezionistiche, che vengono attuate dai PVS. E’ possibile che i costi prodotti da politiche protezionistiche siano accresciuti da un trasferimento netto dal resto del mondo, come nel caso in cui il trasferimento vada ad accrescere la domanda dei beni locali protetti. L’aumento della produzione di questi beni, già inizialmente costosa per effetto della protezione, potrà rivelarsi dannosa per l’economia. Questi danni si produrranno al momento del rimborso del debito, nella misura in cui l’economia inizialmente beneficiaria non avrà saputo accumulare le risorse necessarie, perché assorbite da una cattiva allocazione delle risorse che provoca costi di fatto irreversibili. Va però anche detto che un risultato di questo genere si produce se la politica di protezione è fine a sé stessa, vale a dire non finalizzata ad una temporanea difesa di un’industria che sta nascendo, e senza concorrenza all’interno dell’economia beneficiaria del trasferimento. Infine vi possono essere distorsioni legate al trasferimento stesso. Questo è il caso di contributi o di prestiti d’aiuto condizionati all’acquisto di beni prodotti dal paese da cui ha avuto origine il trasferimento. In questo caso il vantaggio per il paese beneficiario del trasferimento si trova ridotto dal fatto che l’aumento della domanda di beni di importazione può danneggiarne le ragioni di scambio, oltre al fatto che non si creano i presupposti per l’eventuale successivo rimborso del trasferimento. Questa situazione sembra particolarmente vera per i paesi dell’Africa sub-sahariana, per i quali i crediti pubblici bilaterali, cioè quelli per i quali il vincolo dell’acquisto di beni dal paese donatore è più stringente, rappresentano circa il 67% dei crediti pubblici totali, contro una media del 58% per l’insieme dei paesi in via di sviluppo.
Dopo quasi cinquant’anni di politica degli aiuti a favore dei PVS, è necessario rivalutare queste critiche alla politica degli aiuti, prendere atto che praticamente la generalità dei governi africani ha fallito nella sua politica di sostegno del processo di accumulazione e chiedersi perché è successo e che cosa di nuovo, o di diverso, occorre intraprendere. Intanto bisogna constatare che la politica tradizionale degli aiuti è messa in discussione anche presso la World Bank. Quest’ultima, in uno studio recente, sostiene la tesi che la crescita economica di un paese è direttamente proporzionale alla crescita delle principali aree urbane che lo compongono e che pertanto solo superando le strozzature ed i vincoli che limitano la crescita economica delle città si potrà assicurare il rapido sviluppo del sistema economico nel suo complesso.[21] Questo nuovo indirizzo della politica degli aiuti, peraltro, avrebbe il grande vantaggio di attivare progetti aventi migliori garanzie di redditività — sia pure diluita nel tempo — e di essere più facilmente controllabile.
L’insieme di queste considerazioni ha una validità che si estende a tutti i paesi in via di sviluppo, e invita a prendere in considerazione le ragioni interne del sottosviluppo, ma non spiega ancora fino in fondo le ragioni del maggior ritardo africano. Inoltre, il limite di questo approccio è che, per quanto riguarda l’esame delle ragioni esterne, prende in considerazione solo cause economiche, mentre per quanto riguarda le ragioni interne analizza motivazioni che non sembrano decisive.
3. L’Africa: un continente escluso dal processo di unificazione economica mondiale.
Tutti i continenti partecipano al processo di unificazione del mercato a livello mondiale, tranne il continente africano. Approfondendo le motivazioni del sottosviluppo, la peculiarità africana si manifesta con riferimento al suo inserimento nel mercato mondiale. L’export totale dei paesi africani, secondo il GATT, nel 1991 è stato pari a 99 miliardi di dollari, lo stesso livello di 10 anni prima. La quota dell’export africano sul commercio mondiale, che nel frattempo si è sensibilmente incrementato, si è quindi ridotta dal 5,0% nel 1981 al 2,8% nel 1991: di fatto l’Africa, malgrado molti suoi paesi esportino una quota importante del proprio PIL, si è chiusa rispetto al resto del mondo (per fare un confronto, si può osservare che l’export della sola Taiwan, che nel 1981 era pari al 23% dell’intero export africano, nel 1991 è stato pari al 77%). Mai paesi dell’Africa sono anche chiusi ognuno rispetto agli altri paesi africani, come mostrano alcuni confronti relativi alla dimensione del commercio intra-regionale delle principali aree mondiali. Infatti, se in Europa, secondo il GATT, nel 1991, il commercio intra-europeo ha rappresentato il 72% dell’intero export dei paesi europei, il commercio intra-asiatico il 46%, quello intra-americano del Nord il 33% e quello del Sud il 16%, il commercio intra-africano è stato pari solo al 6,6% dell’export totale del continente.[22]
Quest’ultimo fatto è di una particolare gravità in quanto se, da un lato, l’azione delle multinazionali pone un problema di controllo democratico a livello mondiale, d’altro lato è anche vero che esse sono uno degli strumenti di unificazione del mercato. Infatti, secondo l’ONU, le cosiddette transnational corporations (TNC) alimentano più del 70% del commercio mondiale, ed in particolare si stima che il 25% del commercio mondiale è costituito da scambi tra società appartenenti allo stesso gruppo multinazionale.[23] La conclusione evidente è che il continente africano, nella misura in cui non riesce ad attirare gli investimenti delle TNC, resta escluso dal processo di globalizzazione dei mercati che sta portando alla nascita di una economia mondiale.
Un’altra indagine dell’ONU sugli investimenti diretti all’estero delle TNC, conferma che il mercato africano non è attrattivo per gli investitori esteri. Nel periodo 1981-85, il flusso degli investimenti esteri diretti delle TNC nell’America latina era pari a 6 miliardi di dollari all’anno, che nel 1992 sono saliti a 16 miliardi. Nello stesso periodo, gli investimenti diretti esteri nel Sud-Est asiatico (Giappone escluso) sono passati da 5 miliardi di dollari all’anno a 21 miliardi. In Africa, invece, nel 1992, con 2 miliardi di dollari, gli investimenti sono rimasti pari allo stesso livello medio annuo della prima metà degli anni ‘80.[24] Va infatti rilevato, con riferimento al problema dell’indebitamento con l’estero dei PVS, che la caratteristica dell’Africa è di avere un indebitamento contratto prevalentemente nei confronti di istituzioni pubbliche, al contrario di quanto avvenuto per altre aree del mondo dove i prestiti privati hanno avuto uno sviluppo maggiore.[25]
Secondo lo studio della World Bank sopra ricordato sulla situazione economica dell’Africa, per comprendere le ragioni del sottosviluppo del continente occorre risalire alla situazione in cui si sono trovati gli Stati africani al momento del processo di decolonizzazione. A causa della mancanza di capitali e di capacità imprenditoriali interne, dell’indisponibilità — appena ritrovata l’indipendenza — a ricorrere al capitale estero e, come corollario di quest’ultimo fatto, della sfiducia verso il mercato, quasi tutti i paesi africani scelsero di fare affidamento sullo Stato come strumento diretto dell’accumulazione di capitale e quindi come regolatore dello sviluppo. L’altra scelta fondamentale fatta, sottolinea la World Bank, è stata quella di puntare subito sull’industrializzazione, vista come la chiave di volta per un rapido sviluppo, al fine di contenere il ricorso alle importazioni di manufatti, e anche perché l’agricoltura era penalizzata dai prezzi declinanti dei suoi prodotti. In base a questa scelta, l’agricoltura è stata fin dall’inizio fortemente tassata al fine di raccogliere fondi pubblici per il finanziamento dell’industrializzazione. I governi hanno creato imprese pubbliche e approvato provvedimenti per il controllo dei prezzi, limitazioni al commercio con l’estero, interventi discrezionali per l’allocazione delle riserve di valute estere nel perseguimento di obiettivi sociali. Nel frattempo veniva creata la struttura burocratica ed amministrativa necessaria per la gestione dei nuovi Stati nati dal processo di decolonizzazione, struttura che, dato l’indirizzo impresso ad un modello di sviluppo nazionale e pubblico, aumentò ulteriormente il peso dello Stato nell’economia. Secondo la World Bank sta in questo la ragione fondamentale delle deboli scelte di politica economica adottate dagli Stati africani, che ha impedito loro di prendere le necessarie misure rigorose indispensabili ad uno sviluppo sano del sistema economico. Queste considerazioni pongono in una nuova luce le valutazioni già espresse da Kohlhammer, il quale sostiene che le cause del sottosviluppo non sono da ricercarsi all’esterno dei paesi sottosviluppati, bensì alloro interno.
Per quanto riguarda l’argomento dei prezzi declinanti delle materie prime, certamente bisogna osservare che per l’Africa la dipendenza della propria economia dall’export di prodotti primari è più alta che per gli altri PVS e quindi più sensibile all’andamento dei loro prezzi. Infatti, verso la metà degli anni ‘80, erano pari all’80% dell’export totale, come negli anni ‘60, e questo significa, come sostiene la World Bank, che, pur in un così lungo lasso di tempo, l’Africa, contrariamente a quanto avvenuto in altre parti del mondo, non ha saputo diversificare la sua base produttiva e quindi la composizione delle esportazioni.[26] Infatti, ponendo a confronto due paesi africani, Ghana e Nigeria, e due paesi asiatici, Indonesia e Thailandia, nel 1965 questi ultimi avevano un reddito pro-capite più basso dei primi due, mentre nel 1990 il PIL pro-capite dell’Indonesia è stato il triplo di quello nigeriano, pur essendo tutti e due esportatori di petrolio, ed il PIL pro-capite della Thailandia quasi quattro volte superiore a quello del Ghana, pur essendo inizialmente tutti e due paesi prevalentemente agricoli.[27]
Per quanto riguarda l’argomentazione relativa ai terms of trade l’Africa rappresenta di nuovo un caso a parte. Nel periodo 1975-84 sono cresciuti solo dello 0,4% annuo per l’intero continente e diminuiti dell’1,0% annuo per l’Africa sub-sahariana, mentre nel periodo 1985-92 sono scesi, rispettivamente, del 3,9% e del 3,6% annuo.[28] Tuttavia, secondo la World Bank, questo non è ancora sufficiente a spiegare il declino economico dell’Africa sub-sahariana. La diminuzione del reddito netto dall’estero, per effetto del peggioramento dei terms of trade per l’Africa sub-sahariana (Nigeria esclusa), tra il 1971-73 ed il 1981-86, è stata del 5,4% del PIL. Ora, tenuto conto che un’incidenza sul PIL di minori redditi dall’estero, per effetto del declino dei terms of trade, dell’1% annuo significa mediamente un minor sviluppo del tasso di crescita del PIL dello 0,8% all’anno, nel caso in esame ha voluto dire un minor tasso di crescita annuo del PIL dello 0.4%, con un’incidenza negativa, quindi, relativamente bassa. Bisogna però, ricordare che i trasferimenti netti dall’estero durante gli anni ‘70-‘80 sono aumentati per compensare in parte i minori afflussi di redditi per effetto dei terms of trade. Secondo la World Bank, l’Africa sub-sahariana ha ricevuto nel periodo 1971-86 più aiuti di qualunque altra area del mondo. In particolare l’incidenza dei trasferimenti netti dall’estero sul PIL è passata dal 2,5% nel periodo 1971-73, al 4,3% nel periodo 1974-80, al 3,6% nel periodo 1981-86. Escludendo la Nigeria dal novero dei paesi subsahariani, gli stessi valori sono stati, rispettivamente, pari al 3,7%, 7,0% e 6,4%. Anche se gli effetti economici dei due fenomeni (peggioramento dei terms of trade ed aumento dei trasferimenti) non sono gli stessi, l’incidenza annua sul PIL dei trasferimenti netti dall’estero è stata superiore all’impatto negativo annuo del declino dei terms of trade. A ciò va aggiunto che i paesi che invece hanno beneficiato di un trend positivo nei terms of trade, non hanno saputo capitalizzare questo vantaggio, ma l’hanno annullato aumentando le spese pubbliche correnti, e finanziando sia progetti non redditizi che le fughe di capitali. In particolare, la politica di investimento seguita è stata molto diversa in Africa, rispetto al Sud-Est asiatico. Ad esempio, nel periodo 1965-72 gli investimenti sul PIL della Nigeria sono stati pari al 16,6%, mentre in Indonesia incidevano per il 12,8%, ma nel periodo 1987-90 in Nigeria sono scesi al 15,4%, del PIL ed in Indonesia sono saliti al 33,9%.
Per soffermarci sulle ragioni interne, quello che sostanzialmente viene messo in discussione è il modello di sviluppo che ha portato ad un crescente intervento dello Stato nell’economia ed a cui sono da aggiungere insufficienti investimenti in infrastrutture. La soluzione che propone la World Bank costituisce una critica al modello di sviluppo seguito dai paesi africani: privatizzazione delle banche, dei servizi pubblici e delle imprese, minor tassazione dell’agricoltura, abbandono della politica di controllo dei prezzi e dei tassi di cambio, ecc.: tutto ciò significa adottare un modello di sviluppo liberistico. Tuttavia, il punto debole della proposta, nel complesso ragionevole, sta proprio nel limitarsi a suggerire l’adozione di una politica di apertura al mercato privato: questo non è sufficiente, in quanto il modello economico liberistico è comunque compatibile con un sistema politico autoritario e ciò è considerato sempre meno accettabile dalla comunità internazionale, che rivendica maggiore democrazia, anche quando si tratta di un PVS. La democrazia, inoltre, è il meccanismo istituzionale indispensabile per il raggiungimento di livelli di vita più avanzati. A questo proposito, il Ministro del lavoro americano Robert Reich, commentando le sanzioni, discusse nell’ambito del GATT, da attivare nei confronti di quei paesi che non prevedono una legislazione sociale e ambientale paragonabile a quella delle democrazie occidentali (da qui l’accusa di dumping sociale ed ambientale), ha sostenuto che tale legislazione non può venire introdotta per decreto, o per atto di forza esterno, in un paese povero, ma è una conseguenza della crescita economica.[29] Il problema, secondo Reich, è piuttosto quello dei meccanismi che possono assicurare uno sviluppo parallelo della crescita economica e della legislazione sociale e ambientale. La conclusione è che solo con la democrazia, quindi con libere elezioni e con il pluralismo politico, si introduce nel sistema economico il meccanismo istituzionale attraverso il quale i vantaggi dello sviluppo vengono equamente distribuiti tra le generazioni attuali, con i miglioramenti salariali, e quelle future, con la salvaguardia dell’ambiente.[30]
4. Il vincolo allo sviluppo dell’Africa: la sicurezza.
In definitiva, dunque, tutta l’analisi vista sopra porta ad evidenziare la particolare situazione dell’Africa rispetto alle altre aree del mondo generalmente annoverate tra quelle dei PVS. Occorre però anche dire che la Comunità europea ha sviluppato nei confronti dei paesi africani una politica innovativa fin dagli anni ‘70. Nel 1974, come è noto, è stata firmata la prima Convenzione di Lomé. Con questa intesa, per la prima volta nella storia dei rapporti tra paesi industrializzati e PVS, vengono previste misure di agevolazione dell’export di prodotti dei PVS verso la Comunità europea (oggi Unione europea), senza reciprocità per i prodotti europei esportati verso l’Africa. Tuttavia, la misura più innovativa riguarda le istituzioni che sono state introdotte per la gestione della Convenzione. Infatti, quest’ultima — ed è questo che la caratterizza rispetto alle politiche per gli aiuti avviate in altre parti del mondo — ha istituito un’Assemblea parlamentare paritetica con il compito di verificare l’attuazione degli accordi, che costituisce la sede dove possono essere discussi i miglioramenti necessari.
L’importanza della Convenzione di Lomé è stata più volte sottolineata dai federalisti, che hanno peraltro criticato la linea europea di eccessiva indifferenza al sistema politico interno degli Stati africani, in quanto la Comunità ha finito per finanziare anche regimi antidemocratici ed autoritari.[31] Oltre a questi limiti politici dell’accordo, vanno anche ricordati quelli economici, dato che esso non ha condotto al conseguimento di tutti gli obiettivi che ci si attendeva. In effetti, le importazioni della CEE dai paesi dell’Africa, Caraibi e Pacifico (ACP) aderenti all’accordo si sono ridotte rispetto al totale delle importazioni dai PVS e la Convenzione non è servita a diversificare la composizione delle loro esportazioni, essendo ancora costituite per circa l’80% da materie prime (fatto, questo, che costituisce l’eccezione di maggior rilievo all’interno dei PVS).[32]
Certamente, però, la Convenzione di Lomé ha impedito il peggioramento delle condizioni di vita dei PVS africani nel momento in cui nel resto del mondo si ponevano le basi per il sorgere di nuove aree di sviluppo, nonostante in Africa non si vedano ancora i sintomi di una tendenza positiva nel processo di sviluppo, così come sta avvenendo altrove. La Convenzione di Lomé non risponde infatti al problema strategico del continente africano, quello della sicurezza e della stabilità politica.
L’Africa è un continente instabile. Nell’arco di quarant’anni, trentacinque conflitti importanti hanno provocato circa una decina di milioni di morti nella sola Africa sub-sahariana, ed all’inizio degli anni Novanta si contavano ancora tredici conflitti in corso. Nel 1990, Jacques Delors, Presidente della Commissione europea, sostenne che negli anni Novanta l’Africa sarebbe divenuta una zona di instabilità fondamentale. La divisione del continente in 53 Stati, che ne fanno l’area più frammentata del mondo, assieme alla delimitazione arbitraria dei confini ereditati dal periodo coloniale e al modello di Stato nazionale unitario e centralizzato ereditato dall’Europa, sono correntemente indicati come le cause di una tensione permanente. Dal 19 al 21 maggio del 1991, a Kampala, in Uganda, un mese prima che si riunisse il Consiglio dei Capi di Stato e di governo dei paesi aderenti all’Organizzazione per l’unità africana (OUA), per iniziativa dell’Africa Leadership Forum, e con il sostegno dell’OUA e dell’ONU, ebbe luogo una importante riunione di personalità politiche africane e non africane e di rappresentanti di movimenti pacifisti e per l’integrazione regionale, sul tema «Towards a Conference on Security, Stability, Development and Cooperation in Africa».[33] Il documento approvato a Kampala riconosce che «l’erosione della sicurezza e della stabilità in Africa è una delle cause principali delle sue continue crisi e uno dei principali ostacoli alla creazione di una solida economia e di una efficace cooperazione intra- e inter-africana». Riconosce, inoltre, che l’interdipendenza degli Stati africani ed il legame tra la loro sicurezza, stabilità e sviluppo richiede una risposta collettiva africana, propone la costituzione di una Conferenza sulla sicurezza, sviluppo e cooperazione in Africa (CSSCA), consapevole che la sicurezza interna ed esterna deve discendere da una struttura di sicurezza continentale comune e collettiva. Secondo il documento, la sicurezza deve essere il primo pilastro della CSSCA a causa dei legami organici tra la sicurezza di tutti gli Stati africani nel loro insieme e la sicurezza di ciascuno di essi. L’Africa sotto la CSSCA dovrebbe istituire una struttura continentale di peace-keeping che, qualora fosse necessario, non escluda interventi dell’ONU. Il documento inoltre sostiene la necessità di creare una Comunità economica africana che favorirà la creazione di istituzioni con competenze a livello continentale, anche se prende atto della necessità che emerga uno Stato leader del processo di cooperazione. Per dare avvio alla Convenzione vengono invitati tutti quegli Stati la cui azione ha un impatto sulla stabilità, sicurezza, sviluppo e cooperazione dell’Africa. Anche se il documento non ha ancora avuto conseguenze pratiche, occorre tuttavia ricordare che il vertice dei Capi di Stato e di governo dei paesi aderenti all’OUA che ebbe luogo il mese successivo alla riunione di Kampala, nel suo comunicato finale ha riconosciuto che fino a quando i paesi africani non si faranno carico collettivamente della sicurezza e stabilità del continente non vi saranno speranze per lo sviluppo socio-economico dell’Africa.[34]
Con il processo di decolonizzazione, le potenze coloniali europee sono uscite dalla scena africana, ma questo fatto non ha tenuto il continente fuori dalla politica del confronto tra Stati Uniti ed URSS che si è manifestato attraverso l’assistenza militare data agli Stati, o alle fazioni che propendevano per l’una o l’altra delle superpotenze. Una responsabilità parziale nel mantenimento della pace in Africa ricadeva sulla Francia, nei confronti delle ex-colonie francesi. Il ruolo è stato svolto con molte difficoltà, e la recente svalutazione del franco CFA, seguita dal conflitto in Ruanda, ha significato il tramonto anche di questa limitata responsabilità per la sicurezza del continente africano.
Analizzando le spese militari dei paesi africani e confrontandole con quelle dei paesi industrializzati si ha una misura di come le tensioni interne ed esterne siano alla base di un enorme spreco di risorse. Infatti, mentre i paesi industrializzati, nel loro complesso, investono in spese militari circa il 3,4% del PIL (1990-91), paesi come l’Egitto, il Gabon ed il Marocco spendono il 4-5%, Libia e Zimbabwe l’8-9%, Mozambico, Etiopia ed Angola il 13-20%.
Se il problema che sta alla radice di tutte le difficoltà dell’Africa è quello della sicurezza (e ne sono un esempio i conflitti in Eritrea, Angola, Mozambico, Somalia, Ruanda), l’Unione europea ha una grande responsabilità nel concorrere ad assicurarla, e qualche cosa si sta muovendo. Nel corso della riunione tenutasi all’inizio di ottobre, a Libreville, l’Assemblea paritetica della Convenzione di Lomé IV, adottando la relazione di John Corrie sulla revisione a metà percorso della Convenzione stessa, ha chiesto che venga rafforzato l’articolo 5[35] che regolamenta i diritti dell’uomo, introducendo l’impegno a realizzare i valori democratici.[36] E’ stata però respinta la definizione secondo cui la democrazia è caratterizzata dal suffragio universale, dal multipartitismo e dalla libertà di stampa, adottando invece una formula secondo cui «non esiste un modello prestabilito di democrazia». Tuttavia deve essere ricordato un passo molto importante della relazione che è stata approvata, in quanto apre concrete prospettive nei rapporti tra Unione europea ed Africa, là dove si sostiene che l’Assemblea si deve riunire con più frequenza e, soprattutto, che deve avere più poteri legislativi.[37] Se per quanto riguarda la democrazia il processo si sta lentamente mettendo in moto, il contenuto dell’articolo 3 della Convenzione — secondo il quale i paesi ACP determinano in modo sovrano principi, strategie e modelli di sviluppo delle loro economie e delle loro società — evidenzia il persistere di ostacoli e chiusure sul fronte economico-sociale. Anche questo testo dovrebbe essere rivisto, introducendo l’idea che l’economia di mercato, sia pure da realizzare gradualmente e con tutti i correttivi necessari, è il presupposto per l’integrazione del sistema economico africano nell’economia mondiale.
Inoltre, nel corso dei lavori dell’Assemblea paritetica, forse per la prima volta in termini così espliciti, ha fatto irruzione anche il problema ormai improcrastinabile della prevenzione dei conflitti. Con una risoluzione, depositata da alcuni parlamentari europei (tra cui Kouchner, Bertens, Hory, Maij-Weggen) e dal gruppo ACP, l’Assemblea, dopo aver ricordato i conflitti che hanno interessato la Liberia, l’Angola, il Sudan e, soprattutto, il Ruanda, fa appello alla comunità internazionale perché venga studiata la creazione di un esercito permanente per la tutela dei diritti dell’uomo. Si rammarica inoltre del fatto che le organizzazioni regionali africane e in particolare l’OUA non abbiano ancora creato delle strutture capaci di agire in modo efficace per impedire lo scoppio di conflitti, e a tal fine esige che il Consiglio ACP-UE studi seriamente la creazione di strutture di cooperazione politica.[38]
5. Una politica mondiale ed europea per la sicurezza e lo sviluppo dell’Africa: proposte per una discussione.
Willy Brandt, nel suo rapporto sulle relazioni Nord-Sud, ha messo in evidenza che si è ormai di fronte a problemi che riguardano tutta quanta l’umanità e che pertanto la loro soluzione dovrà essere trovata a livello mondiale.[39] Il sottosviluppo, secondo Brandt, è uno di questi e per sconfiggerlo suggerisce l’avvio di trasferimenti automatici di fondi, finanziati da forme di tassazione internazionale. «Ci si farà osservare che è difficile pensare all’applicazione di imposte internazionali in assenza di un governo internazionale. Noi però siamo dell’avviso che l’indispensabilità di certi aspetti di quello che potrebbe definirsi ‘governo internazionale’ si sia già rivelata inevitabile per la soluzione di problemi collettivi e nazionali, e che alla fine del secolo il mondo con ogni probabilità non potrà funzionare senza una qualche forma accettabile di tassazione internazionale e senza modalità di formulazione delle decisioni che trascendano di gran lunga le procedure attuali».[40] Con queste frasi, Brandt traccia il quadro generale all’interno del quale deve svilupparsi una efficace politica contro il sottosviluppo, indica le modalità della sua attuazione e pone il problema del rafforzamento dei poteri delle attuali istituzioni mondiali. Alla luce di quanto si è visto prima, per meno della metà della popolazione mondiale si tratterebbe di gestire l’uscita dall’emergenza del sottosviluppo, per l’altra parte della popolazione mondiale si tratterebbe invece di attuare una migliore redistribuzione del reddito al proprio interno ed a favore della prima. In una prima fase, il governo internazionale di cui parla Brandt avrà, presumibilmente, solo il potere di occuparsi del primo problema, tenendo conto del fatto che la caduta del muro di Berlino, tra l’altro, ha avuto il significato della fine della contrapposizione di due modelli antitetici di sviluppo economico ed ha aperto il dibattito su quale modello di sviluppo si deve dare il genere umano. Del resto, l’Organizzazione mondiale per il commercio, di recente istituzione, che dovrà gestire la politica commerciale e della concorrenza tra i paesi aderenti all’accordo, va in questa direzione e si porrà prima o poi il più generale problema di una politica redistributiva a livello mondiale. E’ tuttavia possibile che trascorra ancora un certo lasso di tempo prima che questa consapevolezza, dopo aver prodotto le necessarie trasformazioni istituzionali, si traduca in fatti concreti. Nel frattempo si possono individuare dei passi in questa direzione, soprattutto nei confronti delle aree più emarginate come il continente africano. Rispetto a quest’ultima area, all’UE, per ragioni geografiche e commerciali, compete una specifica responsabilità nel garantirne la sicurezza. Tuttavia essa non potrà assumersela direttamente ed autonomamente, in quanto sarebbe politicamente inaccettabile per i paesi africani. Del resto, con la fine del confronto militare tra USA ed URSS, anche gli interventi degli USA al di fuori dei propri confini, come dimostrato dal caso dell’intervento nella ex-Jugoslavia o in Somalia, devono avere l’avallo dell’ONU. In Africa, quindi, l’UE potrà contribuire, anche in misura decisiva, a svolgere un ruolo di stabilizzazione politica solo se in concorso con l’OUA e solo se agisce nel contesto di una politica dell’ONU volta ad assicurare la pace nel continente africano e in quanto articolazione regionale delle Nazioni Unite a ciò preposta. Il ritorno alla stabilità sul continente africano potrebbe svilupparsi in base a due stadi di sviluppo, il primo di carattere più generale per creare il quadro minimo entro il quale potrebbe svilupparsi il secondo stadio, costituito dai più impegnativi obiettivi di costituzione di comunità economiche simili alla CE e destinate a divenire delle vere e proprie federazioni regionali.
Il quadro istituzionale generale all’interno del quale potrebbe essere avviato il processo di cooperazione per la sicurezza è la CSSCA di cui si è discusso al vertice di Kampala e la sede istituzionale in cui potrebbe venire proposta è l’Assemblea paritetica della Convenzione di Lomé, la quale ha già richiesto che venga studiata l’istituzione di un esercito permanente per la prevenzione dei conflitti. L’Assemblea paritetica potrebbe quindi fare propria la proposta della riunione di Kampala e sostenere che venga promossa, sotto l’egida dell’ONU e dell’OUA, una Conferenza per la sicurezza, lo sviluppo e la cooperazione in Africa, con l’obiettivo di discutere delle condizioni per avviare il processo di disarmo generale e controllato del continente. Al fine di rendere più rappresentativa l’Assemblea paritetica, l’Unione europea dovrebbe chiedere l’estensione della Convenzione di Lomé al Sudafrica, dove si sono affermati la democrazia ed il multi-partitismo, che devono essere consolidati, ed ai paesi dell’Africa settentrionale. Una volta insediata la CSSCA, una prima misura che l’Unione europea può prendere è quella di porre fine al commercio internazionale di armi verso i paesi africani. E’ noto infatti che l’86% del commercio internazionale di armi è alimentato da Russia, Cina, Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna, che sono tutti membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’ONU, mentre gli ultimi due sono anche membri dell’Unione europea.[41] La seconda iniziativa che l’UE potrebbe promuovere è l’avvio del dibattito sul varo di un piano di sviluppo economico che, sul modello del Piano Marshall, preveda gli stessi stringenti vincoli economici ed istituzionali.[42]
Il secondo stadio, che costituirebbe la fase più avanzata, potrà essere avviato solo se si metteranno in moto dei processi di integrazione regionale, che in un momento successivo potranno sfociare in una più ampia Federazione africana.[43] Sulla base dell’esperienza europea, la presenza dell’UE potrà agevolare, soprattutto se attiverà forti pressioni in questo senso, il processo, ma perché questo abbia successo occorrerà che sul continente emerga il motore locale del processo di unificazione, la leadership africana, così come lo sono la Francia e la Germania per l’unificazione europea. Poiché il motore non potrà essere il frutto di un intervento discrezionale dell’UE o dell’ONU, ma tendenzialmente emergerà da sé, si possono solo fare delle speculazioni su quali Stati africani, o quali leaders africani, potranno svolgere questo ruolo. Una volta identificati questi ultimi, sarà però importante stabilire con essi rapporti di collaborazione per sostenere il federalismo africano.
L’immensità e le caratteristiche del territorio africano suggerirebbero di pensare ad un continente ripartito in tre grandi zone che coincidono con la classificazione utilizzata correntemente dagli organismi internazionali: Africa australe, Africa tropicale, ed Africa settentrionale. Nel primo caso, sembrerebbe che dal Sudafrica possano partire i primi segnali, dopo una fase di stabilizzazione che deve seguire l’affermazione della democrazia, di una volontà favorevole all’integrazione regionale. Una propensione in questo senso dovrebbe derivare dal fatto che lo Stato sudafricano, oltre ad essere il più avanzato sul piano economico, è anche lo Stato dove si sono svolte le più importanti elezioni multi-etniche degli ultimi decenni. Inoltre, essendo anche il più integrato nell’economia mondiale, dovrebbe essere il più disponibile dell’Africa australe a stimolare processi di cooperazione economica nell’area.
Per quanto riguarda l’Africa settentrionale, individuare lo Stato africano che potrà assumersi il ruolo di motore dell’unificazione politica regionale non è facile. Tuttavia, anche sulla base delle prime timide politiche di integrazione che si sono sviluppate nell’area, l’unificazione dei paesi del Maghreb potrebbe costituire un eccellente punto di partenza. Un ruolo importante potrà comunque essere svolto dall’Unione europea. In effetti con l’allargamento dell’UE ai paesi del Nord la necessità dell’attivazione di una politica di sicurezza e di sviluppo del continente africano rischia di essere sottovalutata. All’Europa compete invece una responsabilità di fatto storica: riportare il mare Mediterraneo ad essere non più una barriera che divide il continente europeo dal continente africano, bensì il lago interno della comunità euro-africana, così come lo era già stato in passato, prima del confronto con il mondo musulmano. Il riferimento all’Islam è importante anche da un altro punto di vista: la via alla collaborazione (e, in una fase successiva, all’unificazione politica) tra le due sponde del Mediterraneo richiede che si sviluppi una comune concezione del ruolo dello Stato così come la condivisione di comuni valori universalistici. Ciò significa il superamento di tutti i fondamentalismi religiosi, a cui si potrà contribuire cominciando a promuovere il dibattito sul multiculturalismo.
L’Africa tropicale è l’area con i maggiori problemi legati alla povertà e all’instabilità politica. Però è anche l’area dove è nato il pensiero federalista africano[44] e dove quindi vi dovrebbe essere il terreno più fertile alla ripresa della politica di unificazione federale del continente. La condizione è però che con il contributo dell’ONU e dell’UE si arrivi a riportare la pace e la democrazia nell’area, in modo che all’interno dei paesi di questa regione dell’Africa escano rafforzate le tendenze più moderate e più favorevoli allo sviluppo di politiche di integrazione regionale.
[1] E. Dal Bosco, L’economia mondiale in trasformazione, Bologna, Il Mulino, 1993, p. 69.
[2] Questo è quanto risulta da elaborazioni dell’ONU che ha valutato il reddito pro-capite in base al sistema delle parità dei poteri di acquisto (purchasing power parity). Cfr. Undp, Rapporto sullo sviluppo umano n. 5, Torino, Rosenberg & Sellier, 1994.
[3] G. Fuà, Crescita economica, Bologna, Il Mulino, 1993, pp. 47-62.
[4] Undp, Rapporto…, cit.
[5] Tutti i dati relativi alla crescita del PIL utilizzati nel testo, se non diversamente indicato, sono stati tratti da: AA.VV., Stato del mondo 1994, Milano, Il Saggiatore, 1993.
[6] A. Corneli, «Orfani del bipolarismo», in Il Sole-24 Ore, 25 agosto 1994. A proposito del Vietnam, si può ricordare che le previsioni di crescita del PIL, in termini reali, per gli anni 1994 e 1995 si collocano tra il 9 ed il 10% annuo. Cfr. in proposito A. Nicoli, «Asia set in economic fast lane», in Financial Times, 13 aprile 1994.
[7] J.L. Martin, Le décollage de l’économie chinoise, documento interno della Banque Indosuez, agosto 1993.
[8] A. Jozzo, C. Magherini, «L’Europa in una economia mondiale in mutamento», in Il Federalista, XXXVI (1994), pp. 34-40.
[9] Dalla fine del 1993, i prezzi delle materie prime hanno cominciato ad aumentare sensibilmente. Cfr. J.-P. Tuquo, «Le cours des principales matières premières se redressent», in Le Monde , 15 luglio 1994.
[10] J. Généreux, Chiffres clés de l’économie mondiale, Parigi, Seuil, 1993.
[11] E. Dal Bosco, op. cit., p. 71.
[12] S. Wickham, L’économie mondiale, Parigi, P.U.F., 1991.
[13] S. Kohlhammer, «Viviamo a spese del Terzo mondo?», in Il Mulino, n. 5, Bologna, 1992, p. 780.
[14] S. Kohlhammer, op. cit., pp. 773-796.
[15] World Bank, Adjustment in Africa (Reforms, Results, and the Road Ahead), New York, Oxford University Press, 1994.
[16] G. Corm, Il nuovo disordine economico mondiale, Torino, Bollati Boringhieri, 1994.
[17] R. Nurske, La formazione del capitale nei paesi sottosviluppati, Torino, Einaudi, 1965.
[18] R. Nurske, op. cit., p. 109.
[19] J.-C. Berthélemy, L’endettement du Tiers Monde, Parigi, P.U.F., 1994.
[20] I trasferimenti netti di fondi sono pari al saldo tra il flusso lordo di capitali a lungo termine e il costo del debito sotto forma di rimborso del capitale e del pagamento degli interessi.
[21] World Bank, Urban Policy and Economic Development (An Agenda for the 1990s), Washington, The World Bank, 1991. Singolarmente, questa politica converge con quanto sostenuto da Jane Jacobs (L’economia delle città, Milano, Garzanti, 1971), secondo la quale il motore dello sviluppo di un territorio è la città, e con quanto afferma lo stesso Nurske (op. cit., pp. 15-18) là dove sostiene che per superare le difficoltà dell’investimento individuale, costituite dalla ristrettezza del mercato dei PVS, dovrebbero essere sostenuti investimenti in un ampio complesso di industrie diverse per creare mercati complementari in grado di autosostenersi. Secondo quanto sostiene la Jacobs il luogo ottimale per lo sviluppo di queste complementarietà è proprio la città. E’ probabile però che nel caso dei PVS questo da solo non sia sufficiente, se non cambia l’atteggiamento delle popolazioni coinvolte nei confronti della città. Infatti, recentemente, un federalista africano ha fatto notare come nelle città africane non vi siano i cimiteri, in quanto chi si reca in città dal proprio villaggio sa che vi ritornerà per esservi sepolto. Forse sarà necessario che, sia pure con il tempo, si sviluppino nuove forme di identificazione nei confronti della vita urbana, accanto a quelle tradizionali nei confronti del villaggio.
[22] GATT, lnternational Trade 91-92, Ginevra, 1993.
[23] Undp, op. cit., p. 97.
[24] United Nations, World lnvestment Report 1993 (Transnational Corporations and lntegrated lnternational Production), New York, United Nations Publication, 1993.
[25] Banca dei Regolamenti Internazionali, Evoluzione dell’attività bancaria internazionale e del mercato finanziario internazionale, Basilea, 1994.
[26] World Bank, op. cit., p. 18.
[27] World Bank, op. cit., p. 17.
[28] J. Généreux, op. cit., p. 79.
[29] R.B. Reich, «Il commercio libera il lavoro», in Il Sole-24 Ore, 21 giugno 1994.
[30] Queste considerazioni, che sicuramente valgono per i paesi africani, devono essere estese anche alla Cina popolare che ha finora conosciuto un indubbio successo economico, ma a scapito della democrazia. Nell’attuale contesto internazionale, caratterizzato dalla fine del confronto tra USA e URSS, non vi sono più motivazioni ideologiche a sostegno delle strutture centralizzate ed autoritarie di governo che hanno caratterizzato il periodo della contrapposizione tra i blocchi. Del resto, l’adesione della Cina popolare all’accordo APEC, di cui fanno parte gli Stati Uniti ed il Giappone, se corrisponde, come sembra, ad una volontà di integrazione col mercato mondiale non ha senso, e non sarà sostenibile, se non si accompagnerà all’introduzione della democrazia al suo interno.
[31] AA.VV., L’Afrique, l’Europe et la démocratie internationale, Pavia, Fédérop, 1991; G. Montani, Unione europea, sviluppo economico e democrazia internazionale, Pavia, ISDAF, 1992.
[32] F. Praussello, «E’ possibile un commercio ‘equo e solidale’?», in Il Mulino, n. 1, Bologna, 1994.
[33] Africa Leadership Forum, The Kampala Document, Abeokuta, 1991.
[34] Vedi anche: The Report of the South Commission, The Challenge fo the South, New York, Oxford University Press, 1990.
[35] Le Courrier ACP-CE, Convention de Lomé IV, n. 120, marzo-aprile 1990.
[36] M. Scotto, «L’Union européenne accroît ses exigences en matière de démocratisation», in Le Monde, 8 ottobre 1994.
[37] Europe, Sessione plenaria dell’Assemblea paritetica ACP-UE, 8 ottobre 1994.
[38] Europe, Sessione plenaria dell’Assemblea paritetica ACP-UE, 10-11 ottobre 1994.
[39] W. Brandt, Nord-Sud: un programma per la sopravvivenza, Milano, Mondadori, 1980.
[40] W. Brandt, op. cit., p. 29.
[41] Undp, op. cit., p. 64. Sulla necessità dell’istituzione di un’autorità mondiale per il controllo degli armamenti, vedi: R. Etchegaray, M. Diarmuid, Il commercio internazionale delle armi, Pontificio Consiglio per la giustizia e la pace, Città del Vaticano, 1994.
[42] Il ricordo del Piano Marshall, generalmente, evoca unicamente la generosa quantità di aiuti profusi dagli Americani per la ricostruzione delle economie europee. Si dimenticano invece le stringenti condizioni istituzionali poste dagli Americani per la concessione degli aiuti. Queste erano, da un lato, la gestione in comune da parte degli Stati europei degli aiuti ottenuti, provvedendo alla costituzione di un organismo ad hoc (l’OECE, poi diventata OCSE), e l’abbattimento delle barriere protezionistiche che ostacolavano il commercio tra gli Stati europei; dall’altro, il tipo di aiuti era impostato in modo da accelerare il più possibile il processo di accumulazione del capitale, evitando che gli aiuti finanziassero spese correnti. Infatti, gli USA donavano ai governi europei beni di investimento che questi provvedevano a vendere sul mercato, procurandosi risorse che potevano essere utilizzate per il finanziamento di ulteriori investimenti pubblici. Gli USA esercitavano il controllo sul buon esito degli aiuti concessi, verificando l’andamento delle grandezze finanziarie dei bilanci pubblici europei e impedendo il finanziamento di soli consumi. Si trattava quindi, di fatto, dei parametri del Trattato di Maastricht, introdotti con 50 anni di anticipo!
[43] Il sostegno all’unificazione africana, attraverso la Convenzione di Lomé, dovrebbe invece portare alla progressiva esclusione dei paesi ACP che non appartengono al continente africano, che potranno essere assorbiti dai processi di unificazione regionale guidati dagli Stati Uniti, per quanto riguarda il continente americano, oppure dal Giappone o dall’Australia, per quanto riguarda il Pacifico.
[44] G. Montani, Il Terzo Mondo e l’Unità europea, Napoli, Guida, 1979.