Anno XXX, 1988, Numero 2, Pagina 112
PACE E DIFESA DELL’AMBIENTE
Sulle conseguenze di una guerra nucleare totale sono state scritte molte pagine dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi. Soprattutto negli ultimi anni gli studi, più o meno scientificamente fondati, sono proliferati, sia per le dimensioni abnormi raggiunte dagli arsenali nucleari (fattore oggettivamente abbastanza irrilevante, dato il livello di distruttività di una minima parte delle armi nucleari presenti nel mondo, ma emotivamente molto influente), sia per la nascita del Movimento per la pace, che, dall’inizio degli anni ‘80, ha contribuito a tener vivo il dibattito.
Il fatto che tanto si sia scritto e che sembri dunque non ci sia altro da dire se non che l’umanità ha ormai acquisito la conoscenza, e quindi la coscienza, dei pericoli che incombono su di essa; e il fatto che, pur all’interno di questa consapevolezza, il mondo sta seguendo con qualche speranza quella che sembra essere una inversione di tendenza nei rapporti fra le due superpotenze, il cui confronto si sta attualmente focalizzando sul controllo delle armi nucleari e sul disarmo, non ci devono esimere dal tener desta la nostra attenzione. La via da percorrere verso l’uscita definitiva dall’emergenza nucleare è ancora lunga e le generazioni attuali stanno iniziando il cammino, ma l’ultimo testimone di questa staffetta sarà consegnato, se lo sarà, probabilmente fra molte generazioni. Fino ad allora, fino alla creazione della Federazione mondiale, la possibilità dell’autodistruzione sarà sempre presente.
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Una delle direzioni in cui stanno lavorando scienziati di tutto il mondo è quella dell’impatto ambientale di una guerra nucleare totale. In questo contesto, un argomento importante di discussione riguarda i cambiamenti climatici globali, il cosiddetto «inverno nucleare», ossia una rilevante diminuzione della temperatura e della caduta di pioggia. Il Bulletin of the Atomic Scientists, per esempio, nel numero di ottobre 1987, dedica un articolo al problema (Mark A. Harwell - Christine C. Harwell, «Updating the nuclear winter debate»), esponendo le conclusioni di uno studio progettato dall’International Council of Scientific Unions (progetto ENUWAR) fin dal 1983.
Evidentemente, la reale portata di un simile fenomeno non è prevedibile con esattezza, essendo le previsioni necessariamente basate su scenari possibili e non sperimentabili, ma alcune conseguenze sono indiscutibili se si parte da certe premesse reali. Una di queste premesse è che una deflagrazione nucleare di vasta portata produce una tale quantità di fumi e particelle che, se salgono negli strati superiori dell’atmosfera, molto più stabili di quelli inferiori, potrebbero stagnare per un lungo periodo di tempo, non lasciando filtrare che il 10 o 20% di luce solare. Da ciò deriverebbe l’abbassamento della temperatura e la riduzione della caduta di pioggia. Ora, l’ecosistema naturale è molto vulnerabile rispetto a rilevanti mutamenti di clima, molto più vulnerabile dell’uomo, al quale la tradizione culturale ha dato il vantaggio di una grande capacità di adattamento. Una delle conclusioni di questa concatenazione di conseguenze è chiara: la produzione di cibo subirebbe un drastico arresto, e solo alcuni grandi produttori di cereali (Stati Uniti, Canada e Australia) potrebbero nutrire per un certo tempo la propria popolazione utilizzando le scorte. Per il resto della popolazione della Terra (e, persistendo le nuove condizioni climatiche, per tutti) si profilerebbe una situazione di sottoalimentazione o di fame. L’immagine emblematica (scrivono gli autori dell’articolo citato) della catastrofe che seguirà una guerra nucleare totale dovrà presentare esseri umani miserabili e affamati, sostituendo l’immagine dei sopravvissuti di Hiroshima e Nagasaki.
Un simile scenario non è certo fra i più catastrofici, in quanto isola alcuni fattori (e quindi alcune conseguenze di essi) da molti altri ugualmente o più distruttivi, che, agendo in concomitanza, potrebbero portare all’estinzione di tutte le specie viventi, compresi gli uomini. Ma il concentrare l’attenzione sulle conseguenze ecologiche di una guerra nucleare totale permette di ampliare l’orizzonte delle riflessioni dei movimenti ecologisti, e comunque di tutti coloro che lottano per creare le condizioni di un rapporto più armonico fra l’uomo e il suo ambiente.
Naturalmente è indubitabile l’urgenza dei problemi ecologici, essendo in atto un sempre più accelerato processo di crisi dell’ecosistema mondiale, ma non si può fare a meno di affrontare parallelamente e congiuntamente il problema della pace (il valore fondamentale per cui si battono i federalisti) per almeno due ragioni.
La prima è molto banale, ma non per questo meno importante e cogente, e riguarda il fatto che le battaglie per salvare l’ambiente hanno senso solo se c’è una prevedibile certezza che esso non subirà un tracollo difficilmente reversibile se non in tempi lunghissimi in seguito a una guerra nucleare, e che l’umanità abbia un futuro e non possa essere vittima di un olocausto. La seconda riguarda i costi della salvaguardia del patrimonio naturale mondiale: in questo mondo anarchico, la necessità di armarsi, o comunque di concentrare molte energie e denaro sul problema militare (es. SDI), distoglie fondi da interventi di tutela ambientale e da ricerche scientifiche (es. fusione, energia solare, ecc.) molto costose, i cui risultati permetterebbero di affrontare uno dei problemi più rilevanti per l’impatto ambientale che implica il problema delle fonti di energia «pulite» e rinnovabili (l’attuale programma americano di ricerca sulla fusione nucleare prevede investimenti pari al 3,5% di quelli destinati alla SDI).
Ma sul rapporto che deve legare ecologisti e federalisti è necessario fare un’altra considerazione, la più importante, che riguarda i mezzi adeguati al raggiungimento dei due scopi: la pace e la difesa dell’ambiente. In particolare bisogna riflettere sulla dimensione dei problemi: l’era nucleare, mettendo in gioco il destino di tutta l’umanità, ci costringe ormai a pensare in termini mondiali al problema della pace; allo stesso modo i problemi ecologici hanno ormai assunto una dimensione planetaria (si parla ormai comunemente dell’ecosistema mondo) e solo se inseriti in questo quadro è ipotizzabile che si possano affrontare.
Il concetto di interdipendenza mondiale è ormai entrato a far parte delle categorie di interpretazione del momento storico che stiamo vivendo. Gli stessi leaders politici che sono responsabili delle sorti degli Stati nazionali non possono fare a meno di introdurre quella categoria nei loro discorsi. A livello di affermazioni di principio, ad esempio, non esiste ormai più molta differenza fra ciò che i federalisti e i mondialisti vanno sostenendo da tempo e le posizioni di Gorbaciov: «Noi non abbiamo soltanto letto in modo nuovo la realtà di un mondo multicolore e multidimensionale. Non abbiamo valutato soltanto le differenze tra gli interessi dei singoli Stati. Abbiamo constatato la caratteristica principale, la crescente tendenza all’interdipendenza fra gli Stati della comunità mondiale. E’ questa la dialettica dello sviluppo attuale» (M. Gorbaciov, Perestrojka, Milano, Mondadori, 1987, p. 179).
Ma che cosa ci distingue, e che cosa deve distinguere tutti coloro che non hanno posizioni di potere da difendere, da queste affermazioni? Ciò che deve caratterizzare il nostro pensiero e la nostra analisi è l’oggettività, ossia la capacità di sottrarci ai condizionamenti ideologici del nazionalismo, i quali costituiscono l’ostacolo principale all’identificazione dei mezzi adeguati agli scopi. Non basta «ragionare» in termini di interdipendenza: da questo concetto bisogna trarre le inevitabili conseguenze politiche e porre con forza il problema del superamento della divisione politica del genere umano in Stati nazionali sovrani. Se non ci si avvia in questa direzione, le esigenze di controllo democratico del nuovo corso della storia rimarranno lettera morta e qualsiasi tentativo di intervento rischia di essere puramente velleitario. Oggi, i cittadini di uno Stato possono certo protestare se subiscono scelte e decisioni ecologicamente distruttive prese in un altro Stato, ma non possono usare l’unico strumento di controllo democratico efficace, ossia la negazione del consenso.
Se ciò che accomuna ecologisti e federalisti è un valore fondamentale (la difesa della vita), se cioè i contenuti specifici per cui lottano i due movimenti non sono altro che due fronti di una stessa battaglia (la battaglia contro l’autodistruzione), è necessario riflettere su possibili scelte strategiche comuni che diano una risposta al problema delle istituzioni in grado di gestire la complessità del mondo in cui viviamo. E’ necessario cioè andare oltre le anacronistiche battaglie nazionali e, in prospettiva, superare anche il concetto di cooperazione internazionale (dietro cui spesso si nasconde la pura e semplice difesa di interessi egoistici), per tradurre in un progetto politico concreto un’esigenza posta dal nuovo corso sovrannazionale della storia.
Nicoletta Mosconi