Anno XXVI, 1984, Numero 3, Pagina 227
I BENEFICI DELLA RIDUZIONE DELLA SPESA MILITARE
La macchina bellica di ogni Stato, e in particolare delle grandi potenze, che sono la sede dell’innovazione nella tecnologia militare, è cresciuta a dismisura. La quantità di risorse umane e materiali destinate a mantenerla e a svilupparla è enorme, come enorme è il numero di uomini impiegati negli eserciti o nelle attività produttive e commerciali collegate ai bisogni militari.
Il costo degli apparati militari sta diventando sempre più assurdo e inaccettabile se si considerano le conseguenze militari ed economico-sociali della corsa agli armamenti. Da una parte, il potenziale delle armi nucleari è in grado di distruggere parecchie volte tutto il mondo. D’altra parte, la spesa militare appare intollerabile se si considera che essa impedisce di soddisfare i bisogni relativi alle condizioni più elementari della sopravvivenza (a cominciare dai bisogni alimentari) delle popolazioni dei paesi emergenti del Terzo mondo e quelli relativi al miglioramento della qualità della vita nei paesi industrializzati.
I dati forniti da un recente lavoro di Wassily Leontief e Faye Duchin[1] sono impressionanti. Il 6% del volume della produzione mondiale ha carattere militare. In altri termini, « la spesa militare è, ogni anno, pari a un terzo circa degli investimenti produttivi e degli stock di beni strumentali » (p. 19). Essa « nel mondo è raddoppiata nel periodo tra il 1951 e il 1970, passando da circa 100 miliardi di dollari USA a oltre 200 miliardi di dollari USA del 1970 a valore costante » (p. 22) e negli anni successivi è aumentata con lo stesso ritmo. Di conseguenza, se si proiettano nel futuro le attuali tendenze economiche, nel 2.000 la spesa militare raggiungerà i 646 miliardi di dollari.
D’altra parte, la produzione di beni militari è concentrata in un piccolo numero di paesi: in primo luogo gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica e i loro alleati della NATO e del Patto di Varsavia. Nell’insieme di questi paesi nel 1957 era concentrato 1’86% della spesa militare mondiale, che nel 1978 era scesa al 71 % del totale. Nello stesso periodo è mutata profondamente la distribuzione percentuale della spesa militare: negli Stati Uniti si è ridotta dal 44,9% al 25,6% della spesa complessiva, nei paesi europei della NATO si è ridotta dal 19,2% al 17,2%, mentre in Unione Sovietica è passata dal 20,2% al 25,5% e nei paesi del Patto di Varsavia è salita dall’1,7% al 3,1%. I tre gruppi di paesi che hanno aumentato in misura più rilevante la spesa militare sono il Medio Oriente, che è salito dallo 0,6% al 6,1%, l’Estremo Oriente (compresi Cina e Giappone), che è passato dall’8,2% al 14,4%, e l’Africa, che è passata dallo 0,2% al 2%. L’America del Nord e l’Unione Sovietica hanno esportato quantitativi pressoché equivalenti di armi verso le stesse regioni, in primo luogo i paesi del Medio Oriente e quelli africani produttori di petrolio e poi gli alleati europei delle superpotenze.
Lo studio di Leontief è dedicato all’analisi degli effetti economici della spesa militare. In particolare esso dimostra che una consistente riduzione della spesa militare nel mondo avrebbe un effetto stimolante sull’economia mondiale, poiché favorirebbe in tutte le regioni l’aumento della produzione e dei consumi. Ne trarrebbero giovamento soprattutto i paesi in via di sviluppo e in particolare quelli più poveri di risorse (i paesi aridi dell’Africa, i paesi dell’America Latina poveri di risorse, i paesi asiatici a basso reddito e l’Africa tropicale), i quali avrebbero così la possibilità di ridurre le distanze rispetto ai paesi industrializzati. In effetti, una riduzione della spesa militare consentirebbe a questi paesi « di sostituire alle importazioni di materiale militare importazioni di macchinari o altri beni strumentali che favoriscano direttamente la crescita economica » (p. 75). Ma ne trarrebbero anche vantaggio i maggiori paesi produttori di beni militari, se si considera ad esempio che il maggior aumento del consumo pro capite subito dopo i paesi aridi dell’Africa si registrerebbe nell’Unione Sovietica e nell’Europa orientale.
Inoltre, se una parte delle risorse rese disponibili dalla riduzione della spesa militare sarà impiegata per l’aiuto allo sviluppo delle regioni più povere, ne risulterà non solo « un’espansione dell’economia mondiale » (p. 81) nel suo insieme, ma anche della maggior parte delle economie regionali. I maggiori benefici riguarderanno naturalmente i paesi arretrati, i quali potranno disporre di risorse aggiuntive per aumentare le importazioni soprattutto nel settore dei beni di consumo primari. Anche la forza lavoro nei paesi industrializzati potrà essere impiegata in modo più efficace nella produzione civile piuttosto che in quella militare.
Una teoria economica molto in voga all’epoca della contestazione giovanile nel 1968, quella di Baran e Sweezy (Monopoly Capital, New York, 1968), aveva accreditato la tesi, ancora oggi molto diffusa, secondo cui solo la spesa pubblica a carattere militare può permettere al sistema capitalistico di funzionare. Di modo che una riduzione significativa della spesa militare determinerebbe un effetto depressivo sull’economia mondiale. Favorendo un alto livello di occupazione, le spese militari attenuerebbero i conflitti sociali e finirebbero con l’essere accettate dalle stesse forze operaie, sulle quali si dovrebbe fondare la spinta rivoluzionaria.
Il lavoro di Leontief rappresenta un’importante e documentata analisi sugli aspetti positivi in termini di sviluppo della produzione, dei consumi e dell’occupazione di un uso alternativo delle risorse oggi destinate alla spesa militare. È infatti facile dimostrare che un progetto di esplorazione dello spazio, un programma di investimenti per lo sviluppo del Terzo mondo, un programma organico di restauro conservativo dei centri storici delle città o il miglioramento della rete delle comunicazioni e dei trasporti costituirebbero scelte alternative alle spese militari, che potrebbero stimolare efficacemente lo sviluppo economico, garantendo, nello stesso tempo, la piena occupazione.
Né d’altra parte la teoria di Baran e Sweezy permette di spiegare il prodigioso sviluppo del capitalismo giapponese con un bilancio militare ridotto e una scarsa produzione militare. Secondo i dati della ricerca di Leontief, i paesi asiatici ad alto reddito sono infatti quelli che spendono in assoluto di gran lunga di meno negli acquisti militari governativi rispetto alla percentuale del prodotto interno lordo (p. 46).
Dal punto di vista del metodo, questo lavoro è significativo soprattutto per il fatto di aver adottato uno schema di analisi basato su un modello dell’economia mondiale rispetto al quale le economie nazionali sono prese in considerazione come sottosistemi tra di loro interdipendenti. Uno dei contributi più importanti di Leontief alla teoria economica consiste infatti nell’aver dato un impulso decisivo al superamento della centralità del punto di vista nazionale.
L’analisi econometrica di Leontief si fonda su un modello dell’economia mondiale intesa come un sistema di elementi interdipendenti. Il mondo è diviso in quindici regioni secondo il livello di sviluppo economico e le sue linee di sviluppo sono analizzate attraverso le relazioni reciproche tra i vari settori produttivi. L’economia mondiale è descritta sulla base dei dati disponibili nel 1970 e aggiornati con quelli degli anni successivi fino alla soglia degli anni Ottanta. Su questa base sono formulate ipotesi alternative circa il suo sviluppo nei decenni successivi fino al 2.000. Lo scopo della ricerca è di analizzare le conseguenze delle spese militari sull’economia mondiale. Lo scenario base si fonda sulla proiezione delle tendenze in atto attualmente. Altre due ipotesi alternative si fondano sulla previsione dell’aumento della spesa militare. Infine altre tre ipotesi prevedono una riduzione della spesa militare.
Grazie al metodo sofisticato dell’analisi delle interdipendenze settoriali (input-output analysis) e all’enorme quantità di dati empirici raccolti e coordinati, la ricerca ha permesso di ottenere una conoscenza precisa della realtà attuale, nonostante le incertezze derivanti dalla segretezza che copre la maggior parte dei dati relativi alla spesa militare. Tuttavia, per quanto riguarda la previsione delle tendenze future, essa si limita a formulare ipotesi sulla base di scenari, che costituiscono proiezioni, con alcune varianti, delle tendenze prevalenti nel presente. Le varianti sono presentate come possibili sviluppi dell’economia mondiale da parte di un osservatore neutrale. È ovvio che a una simile prospettiva sfuggono i grandi cambiamenti qualitativi e l’analisi delle condizioni che li rendono possibili. Leontief si limita a illustrare le positive conseguenze economiche e sociali di una riduzione della spesa militare, ma non si occupa del contesto internazionale che la renderebbe possibile) né dei cambiamenti nella direzione della politica mondiale, che sono necessari per avviare il mondo verso la pace e la giustizia internazionale.
La sicurezza occupa indubbiamente una posizione di vertice nella scala delle priorità delle scelte degli Stati. E quando le tensioni internazionali sono forti, come avviene attualmente, il costo della sicurezza militare tende a crescere. Il modo in cui sono distribuite le spese militari riflette fedelmente il ruolo egemonico che gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica esercitano sul resto del mondo. Le variazioni nella distribuzione della spesa militare indicano che i rapporti di forza tra le superpotenze si sono spostati progressivamente a favore dell’Unione Sovietica (mentre la spesa militare degli Stati Uniti nel 1957 era più che doppia rispetto a quella dell’Unione Sovietica, oggi è equivalente), che le aree di forte tensione internazionale sono in aumento, come è messo in luce dalla corsa agli armamenti, oltre che in Europa, in Medio Oriente, in Estremo Oriente e in Africa e che infine i costi sociali della crescita della spesa militare sono più gravi nei paesi in via di sviluppo, in Unione Sovietica e nell’Europa orientale.
Bisogna considerare che la decisione di aumentare o diminuire la spesa militare è una scelta di natura politica e non economica, che ha a che fare con la sopravvivenza dei popoli e può giungere a imporre sacrifici, che in tempi normali parrebbero insostenibili in relazione al reddito medio e al prodotto interno lordo. La risposta al problema posto, ma non risolto, da Leontief non si trova dunque a livello dell’evoluzione del sistema economico mondiale, ma a livello delle trasformazioni del sistema mondiale degli Stati.
Il cambiamento di cui ha bisogno il mondo consiste in un nuovo modo di affrontare i problemi della difesa e della sicurezza, che oggi, malgrado lo sviluppo delle armi nucleari, continuano a essere intesi in termini di ricerca degli equilibri militari a un livello sempre più alto. Ma le armi nucleari, che sono state immesse nel sistema anarchico delle sovranità statali, non sono strumenti di difesa, che assicurano la sopravvivenza dello Stato nella lotta contro gli altri Stati, ma strumenti di sterminio, perché hanno una capacità distruttiva tale da minacciare l’estinzione della specie. Lo Stato, che era nato per garantire la conservazione della vita, sta perdendo la sua funzione essenziale, minacciando di far cadere l’umanità in una nuova barbarie.
Il terreno sul quale si può operare positivamente per evitare la catastrofe nucleare è quello della costruzione dell’unità europea. Essa permetterebbe in primo luogo di superare la rigida contrapposizione tra i due blocchi, dovuta alla mancanza della funzione mediatrice esercitata da altri poli autonomi del sistema mondiale degli Stati e di avviare il mondo verso un sistema di potere multipolare più aperto, più pacifico e più flessibile di quello attuale e nel quale si potrebbe abbassare il costo della sicurezza.
In secondo luogo, essa aprirebbe la via all’affermazione della prima forma di democrazia internazionale, offrendo così al mondo il primo esempio del superamento pacifico di nazioni consolidate dalla storia. La Federazione europea si presenta come la prima tappa di un processo di unificazione che inizia in una parte del pianeta, ma che interessa gli altri continenti, che aspirano alla unificazione, e in prospettiva tutto il mondo. Il progetto del controllo popolare della politica internazionale si presenta come l’alternativa all’antagonismo tra Stati Uniti e Unione Sovietica, tra i princìpi della democrazia e del comunismo e all’unificazione del mondo sotto l’egemonia di ciascuno di questi Stati. Esso apre la possibilità di superare il mito della sovranità nazionale esclusiva e la logica dei rapporti di forza nella politica internazionale, che impediscono un governo razionale del mondo, e di intraprendere la marcia verso l’unità politica del genere umano, cioè verso la pace perpetua, il disarmo universale e l’uguaglianza di tutte le nazioni.
In terzo luogo, essa consentirebbe di sperimentare una forma di difesa che si collochi, secondo la formula di Albertini, « al di là della guerra ». La difesa nucleare dell’Europa dovrebbe limitarsi alla semplice funzione dissuasiva esercitata dai sottomarini lancia-missili, con la conseguenza di togliere al governo europeo ogni capacità di aggressione e di denuclearizzare il territorio europeo. La difesa convenzionale dovrebbe essere di carattere territoriale sul modello svizzero o jugoslavo, allo scopo di scongiurare una guerra convenzionale sul territorio europeo, di impedire qualsiasi iniziativa di carattere aggressivo da parte dell’Europa e di ridurre le spese militari. D’altra parte, il governo europeo potrà usare il proprio potere negoziale per realizzare il disarmo, dichiarandosi disposto a trasferire all’ONU il controllo del proprio armamento nucleare, a condizione che le altre potenze nucleari facciano altrettanto, avviando così la riforma democratica dell’ONU. Nello stesso tempo, il governo europeo potrà usare la propria influenza internazionale per spingere le superpotenze ad adottare un piano di sviluppo del Terzo mondo, utilizzando le risorse rese disponibili dalla riduzione della spesa militare.
Lucio Levi
[1]Military Spending, Oxford University Press, 1983; trad. it. La spesa militare, Mondadori, Milano, 1984.