IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno LIII, 2011, Numero 1, Pagina 53

 

 

OCULOS HABENT ET NON VIDEBUNT
 
 
Si rimane colpiti leggendo oggi un piccolo libro di Christian Saint-Etienne, dal titolo La fin de l’euro,[1] scritto all’inizio del 2009. Vi erano già descritte, con molto anticipo, le vicissitudini dell’euro negli anni successivi e vaticinato un suo non improbabile collasso. Il duro linguaggio dei fatti si impone a chi abbia occhi per vedere e non sia costretto dalla sua situazione di potere a chiuderli, o a volgerli altrove, trovando, come i cortigiani della fiaba di Andersen, bellissimi gli inesistenti abiti dell’imperatore nudo.
Saint-Etienne ricorda che tre millenni di storia economica mostrano che non può esistere durevole divorzio fra sovranità monetaria e sovranità politica – presto o tardi la zona monetaria si unifica o si dissolve – e si chiede se, paradossalmente, la continuazione dello SME, che ha preparato l’avvento dell’euro, non avrebbe dato risultati migliori della creazione di quest’ultimo. Effettivamente, fra il 1979 e il 1991, lo SME aveva ridotto e controllato la fluttuazione dei tassi di cambio fra le monete dei paesi partecipanti, mediante parità stabili, ma aggiustabili e ridotto l’inflazione. Naturalmente, Saint-Etienne non ritiene che l’errore sia stato il passaggio dallo SME all’euro, ma l’averlo organizzato senza fondare un governo economico europeo e senza federalismo fiscale: rifiutando la costituzione di un governo economico della zona euro, i paesi membri ne hanno probabilmente firmato anche l’atto di morte.
Secondo l’analisi di Saint-Etienne, la costruzione europea dopo Maastricht è viziata alle fondamenta da un triplice errore: è immaginata come un processo apolitico, mentre l’Unione dovrebbe prendere decisioni intrinsecamente politiche (aver accettato che la costruzione europea restasse un processo apolitico ha anche impedito l’instaurazione di un processo di legittimazione democratica nei confronti dei suoi responsabili); è costruita sulla rinuncia a una politica di potenza, che riduce l’Unione all’impotenza strategica; comprende membri che non condividono obiettivi e finalità dell’Unione stessa.
Per quanto riguarda il primo vizio d’origine, secondo Saint-Etienne, con il Trattato di Maastricht la costruzione europea avrebbe dovuto cambiare di natura. Non si sarebbe dovuto più soltanto favorire lo scambio di beni e di servizi all’interno dell’Unione, ma integrare nell’Unione elementi essenziali della sovranità oltre alla moneta, come la difesa e la politica estera. Per rendere questa evoluzione politicamente legittima, si sarebbero dovute fare tre scelte contemporanee. Anzitutto imporla a tutti gli Stati, dicendo a quelli che desideravano clausole di esenzione che potevano lasciare l’Unione. Ma questo tipo di decisione intrinsecamente politica non poteva essere presa da un’Unione intrinsecamente apolitica, e così si è accettato di riconoscere che alcuni Stati sono autorizzati a non avere gli stessi doveri e gli stessi diritti degli altri. In secondo luogo, si sarebbe dovuto prender coscienza del fatto che l’integrazione delle politiche avrebbe dovuto comportare l’armonizzazione del contratto sociale. E’ stata una contraddizione mortale lasciare che, in seno ad una unione monetaria, si instaurasse una concorrenza fiscale e sociale, senza imporre una base minima di disposizioni volte a preservare il contratto sociale europeo. In terzo luogo, si sarebbero dovute definire le frontiere dell’Unione, non necessariamente in senso fisico, ma politico.
Questo primo vizio d’origine è strettamente legato al secondo, il rifiuto di una politica di potenza. Rifiuto che è stato addirittura teorizzato, per esempio dal direttore dell’Istituto di studi sulla sicurezza dell’Unione europea: “L’Unione ha per fondamento il rifiuto della politica di potenza… Questo fondamento è il garante della sua sopravvivenza. Se esiste un interesse vitale comune, questo consiste nel preservare l’Unione e con questa la sua ambizione di promuovere il multilateralismo a scala mondiale”.[2]
L’Europa di oggi ha un problema con il concetto di potenza. Certo, la potenza è un termine ambiguo, con connotazioni anche negative (oltre che positive), ma essa resta un attributo necessario degli Stati che vogliono pesare nella storia. Voler costruire una potenza positiva ed efficace costituisce un ideale e un obiettivo lodevoli. A che giova essere virtuosi, o pretendersi tali – scrive Saint-Etienne – in un mondo che resta sottoposto ad una logica di potenza, ragione per la quale si ottiene solo il risultato di affermare la propria impotenza? Dichiarare che l’Unione ha per fondamento il rifiuto della politica di potenza, mostra fino a che punto i responsabili dell’Unione europea si sbaglino nell’interpretare il mondo. Questa loro confessione spiega magistralmente l’impotenza dell’Europa. Per Saint-Etienne bastano due esempi a dimostrarlo. Primo esempio: la parità fra l’euro e il dollaro, in assenza di un governo della zona euro, è diventata la variabile di aggiustamento degli scambi internazionali: il valore dell’euro dipende dalle scelte economiche della Cina e degli Stati Uniti, in funzione dei loro interessi strategici. Secondo esempio: Israele distrugge sistematicamente tutte le infrastrutture civili costruite a caro prezzo a Gaza dall’Unione europea, senza che questa reagisca in altro modo che pianificando una nuova serie di investimenti in infrastrutture, che serviranno come bersagli per le esercitazioni dell’esercito israeliano. Non capir nulla del mondo è una cosa. Teorizzare la propria impotenza come politica fondatrice dell’avvenire è un’altra: un multilateralismo che ignora le strategie di potenza degli Stati contemporanei è una tragica farsa.
Il terzo vizio originario è stato quello di associare membri che non condividono obiettivi e finalità dell’Unione stessa. Sono in campo due visioni, singolarmente legittime, ma contraddittorie nel loro insieme, che Saint-Etienne definisce rispettivamente come un progetto di zona di libero scambio senza limiti geografici, integrata con la NATO e sotto controllo strategico americano (come desiderato dalla Gran Bretagna, che non solo non desidera far parte di un eventuale federazione, ma vuole evitarne la formazione, e dagli Stati Uniti, che non auspicano più la nascita di un eventuale concorrente globale) e come un progetto che conduca ad un’unione federale, come era nelle intenzioni dei fondatori. E, proprio per l’assenza di un progetto strategico condiviso di sviluppo, l’Europa è diventata un luogo di non crescita in un mondo in piena espansione.
Secondo Saint-Etienne, l’architettura economica dell’intero pianeta, oggi in corso di definizione, è l’ultima metamorfosi di quella che Braudel chiamava l’economia-mondo, con l’economia mondiale organizzata attorno ad un centro, e ripartita in zone successive di influenza, dal centro verso la periferia. “Lo splendore, la ricchezza, la gioia di vivere – scriveva Braudel[3] – si radunano al centro dell’economia-mondo, nel suo cuore. E’ lì che il sole della storia fa brillare i colori più vivi, è lì che si manifestano alti prezzi, alti salari, la banca, le merci ‘reali’, le industrie redditizie, le agricolture capitalistiche; è lì che si trovano il punto di partenza e il punto di arrivo dei traffici, l’afflusso dei metalli preziosi, delle monete forti e dei titoli di credito. Lì risiede la modernità economica d’avanguardia, come nota il viaggiatore che vede Venezia nel XV secolo, o Amsterdam nel XVII, o Londra nel XVIII o New York oggi. La tecnica di punta, la scienza fondamentale, le libertà, sono là…”. E Saint-Etienne conclude. “Non ci saranno ricchezza economica, solidarietà sociale e, soprattutto, libertà, in un’Europa degli anni 2020, sottomessa ai giganti nazionalisti che si affronteranno per affermare la loro leadership economica e militare. Al contrario, un’Europa che si organizzasse per essere protagonista nell’economia-mondo, che va nascendo sotto i suoi occhi, potrebbe essere il cuore dell’economia globale, il luogo dove ‘il sole della storia fa brillare i suoi colori più vivi’ e dove esisterebbero le migliori condizioni di vita”.
Per arrestare il declino dell’Europa bisognerebbe almeno, sempre secondo Saint-Etienne, prendere rapidamente tre decisioni “ragionevoli”: primo, elaborare una politica strategica autonoma, pur nel quadro di un’alleanza con gli Stati Uniti; secondo, stabilire un meccanismo democratico di definizione delle frontiere esterne; terzo, senza frenare il processo di riforme strutturali, fissare delle regole minime di armonizzazione delle politiche fiscali e sociali.
Queste decisioni non sarebbero sufficienti a risolvere il conflitto sulle finalità dell’Unione, né a conferire una legittimazione democratica ai suoi dirigenti. Ma almeno, adottando un progetto strategico autonomo, che gettasse le basi di una politica energetica e ambientale comune, di una seria politica della ricerca, di uno sviluppo delle infrastrutture, di una capacità di difesa, l’Europa sembrerebbe più forte e sarebbe in grado di arrestare il declino del suo peso economico relativo nel mondo. Adottando un meccanismo democratico di fissazione delle sue frontiere esterne, l’Europa rafforzerebbe il senso di appartenenza dei suoi cosiddetti cittadini. Infine, fissando regole minime di armonizzazione delle disposizioni fiscali e sociali all’interno dell’Unione, si permetterebbe agli europei di superare una concorrenza interna, che non solo è contraria ai proclami di solidarietà all’interno dell’Unione, ma rappresenta un handicap alla creazione di sinergie di sviluppo nel suo seno. Bisogna infatti distinguere una concorrenza sulle regole sociali e fiscali da una concorrenza sui mercati dei beni e dei servizi; la seconda è vitale, mentre la prima è suicida e indebolisce la seconda. Ma decisioni di questo tipo, sempre secondo Saint-Etienne, non potrebbero essere prese se non con un colpo di forza della Francia e della Germania, cosa oggi del tutto improbabile.
L’Unione europea, scriveva Saint-Etienne già all’inizio del 2009, attraverserà allora probabilmente una serie di crisi violente. Le crisi, però, permettono talvolta svolte decisive. Se è assai poco probabile che vengano prese a freddo le tre decisioni “ragionevoli” sopra richiamate, una crisi molto grave potrebbe permettere un chiarimento nelle finalità dell’Unione e gettare le basi di una legittimazione democratica dei suoi responsabili. Ma perché la crisi abbia un esito salutare, andrebbe controllata da attori lucidi e visionari… Ne esistono sulla scena?
Qui, sempre in funzione di questa improbabile ipotesi, Saint-Etienne introduce il capitolo più lungo e tecnico del libro – il cui resoconto eccede gli scopi di questa breve nota – nel quale sono analizzati: il funzionamento attuale della zona euro, le sue istituzioni e le sue politiche; una proposta di riforma del funzionamento della zona euro e i relativi obiettivi strategici; la conseguente posizione negoziale della zona euro nella riforma internazionale. Non bisogna dimenticare che Saint-Etienne non è solo un illustre accademico, ma anche un esperto del FMI e dell’OCSE: la sola terza parte del capitolo prevede infatti l’analisi delle cinque principali cause della crisi economica e finanziaria mondiali, dei cinque “cantieri” da aprire per la riforma del sistema monetario internazionale e degli otto “cantieri” da aprire per la riforma del sistema finanziario internazionale.
Ma, chiusa questa parentesi, del tutto ipotetica (l’attuale atteggiamento dei paesi europei di fronte ai problemi della governance mondiale viene definito “una tragica farsa”), le conclusioni del libro ci riportano alla “fine dell’euro”. Quando il crollo dell’euro sarà inevitabile, si potranno verificare, secondo Saint-Etienne, due situazioni. La prima consisterà nel continuare a negare le differenze negli obiettivi dei diversi paesi, e questa condurrà necessariamente ad un crollo violento e perverso, dopo un periodo più o meno lungo di stagnazione economica, accompagnato da un ritorno a svalutazioni competitive, con un colpo terribile alla costruzione europea e alla credibilità del Vecchio continente nel mondo.
La seconda prevederà invece un ritorno coordinato ad un Sistema monetario europeo rafforzato, basato su svalutazioni più ridotte dello scarto inflattivo effettivo, evitando il disastro delle svalutazioni competitive intra-europee, che metterebbero in gioco tutta la costruzione europea. Non sarebbe questo, evidentemente, che un obiettivo di seconda istanza, ma sempre preferibile a un crollo disordinato.
In conclusione, secondo Saint-Etienne, in mancanza di una comune volontà politica, è venuto il momento di prepararsi ad un ritorno allo SME, per evitare una mortale guerra dei cambi nell’Unione europea, una volta imploso l’euro, fatto questo che resta l’ipotesi più probabile: i popoli e gli Stati non si lascino cullare dalle illusioni; la fine della zona euro, per come questa funziona oggi, è vicina.
 
Elio Cannillo


[1] Christian Saint-Etienne, La fin de l’euro, Paris, Burin Editeur, 2009.
[2] Alvaro de Vasconcelos, “L’Union européenne parmi les grandes puissances“, Commentaire, n. 24, (hiver 2008-2009), come riportato da Saint-Etienne, op.cit., p.71.
[3] Fernand Braudel, La dynamique du capitalisme, Paris, Flammarion 1988, come riportato da Saint-Etienne, op. cit., pp. 84-85.

 

 

 

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