IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XLII, 2000, Numero 2, Pagina 126

 

 

INTERDIPENDENZA GLOBALE
E CRISI DELLA STATUALITA’
 
 
All’inizio di giugno, il Tribunale penale internazionale per la ex-Jugoslavia ha chiuso l’inchiesta formale contro la NATO per i bombardamenti in Kosovo, assolvendo l’Alleanza dalle accuse contestatele. Ora, il fatto che il Tribunale abbia dovuto valutare la condotta di guerra degli Stati Uniti e dei suoi alleati, i quali erano intervenuti nel conflitto in nome della salvaguardia dei diritti umani delle popolazioni coinvolte, è abbastanza indicativo delle contraddizioni in cui questo organismo si dibatte, e merita alcune riflessioni.
Naturalmente qui non è in questione la valutazione sull’intervento della NATO, né il comportamento specifico del Tribunale o le polemiche che esso ha suscitato; piuttosto, il problema che si pone riguarda la possibilità di giudicare la condotta di guerra degli Stati sovrani. I Tribunali penali internazionali — e questo vale per quelli ad hoc come per quello permanente la cui ratifica è attualmente in corso — non si pongono infatti il problema di abolire la guerra, né di dichiararla illegale in quanto tale, ma quello di giudicarla. Essi partono dal presupposto che in un mondo di Stati sovrani, in cui valgono solo i rapporti di forza, la guerra non può essere dichiarata fuori legge in quanto tale, non fosse altro perché rappresenta l’ultima possibilità per i paesi democratici di combattere e fermare tentativi espansionistici o egemonici da parte di Stati autoritari, o per intervenire nei casi di violazione dei diritti umani su gruppi o intere popolazioni. Da ciò deriva la pretesa di considerare giuridicamente giuste quelle guerre che sono condotte in nome della «difesa dei diritti umani» e «rispettando» i principi sanciti dai trattati internazionali, stipulati per evitare inutili sofferenze ai civili e per non commettere atti di barbarie.
Evidentemente si tratta di una pretesa che non ha fondamento: presumere di poter distinguere nell’ambito di un’azione, che per definizione è violenza e assenza di legge, la brutalità eccessiva o la violenza inutile significa pretendere di giudicare ex-post la condotta strategica di guerra di un paese e addentrarsi nella valutazione dell’opportunità di determinate scelte che sono state fatte, necessariamente, con il fine di ottenere una vittoria rapida e con le minori perdite possibili. E’ evidente che si tratta di una valutazione praticamente impossibile: chi è responsabile delle forze armate non ha forse innanzitutto il dovere di risparmiare inutili sofferenze ai propri soldati, perché questo è il mandato affidatogli dai cittadini del proprio Stato, e di arrivare il più rapidamente possibile alla vittoria? Su quale base dei giudici senza nessun mandato democratico si arrogano il diritto di stabilire quali vite e quali sofferenze dovevano essere risparmiate e quali invece potevano essere sacrificate?
Un discorso analogo vale per la questione della guerra giusta. In generale, come spiega bene Kant, dato che gli Stati vivono gli uni rispetto agli altri nello stato di natura, «il modo con cui gli Stati tutelano il loro diritto non può essere mai, come davanti ad un tribunale esterno, il processo, ma solo la guerra… E del resto questo stato permanente di guerra non può neppure definirsi ingiusto, poiché in esso ognuno è giudice in causa propria».[1] «L’espressione di ‘un nemico ingiusto’ è un pleonasma applicato allo stato di natura, perché lo stato di natura è esso stesso uno stato di ingiustizia. Un nemico giusto sarebbe quello, al quale sarebbe ingiustizia che io resistessi da parte mia, ma allora egli non sarebbe più mio nemico».[2] Il diritto, infatti, «s’appoggia unicamente sul principio della possibilità di una costrizione esterna, che possa coesistere con la libertà di ognuno secondo leggi generali».[3] «Ora, lo stato che riposa su una legislazione esterna generale (cioè pubblica) avente la forza al suo servizio, è lo stato civile».[4] Soltanto nello stato civile kantiano (vale a dire all’interno dello Stato) può essere garantito il diritto, e al di fuori di esso i concetti di giusto e ingiusto perdono il loro senso dal punto di vista giuridico. Per questo, anche se è vero che i Tribunali penali internazionali pretendono di fare valutazioni puramente giuridiche — e non politiche — per appurare esclusivamente responsabilità individuali, e che quindi, in teoria, non si pongono il problema di esprimere giudizi sulle guerre in corso, proprio il fatto che, in assenza di un quadro statuale che fondi il diritto, le valutazioni relative ad un conflitto non possono mai essere giuridiche, ma sono necessariamente politiche, comporta che in sostanza queste istituzioni si trovino a stabilire quali guerre possono essere autorizzate e quali invece no, sulla base di criteri che non vengono mai esplicitati. I conflitti, infatti, sono solo l’ultimo anello della catena dei rapporti di forza su cui si basano le relazioni tra gli Stati, e in quanto tali non possono essere isolati dalla situazione che li ha generati; vista però l’impossibilità, per un Tribunale, di assumersi la responsabilità politica di risalire alle cause primarie, l’unica possibilità che resta per valutare i colpevoli della violenza e della sopraffazione è quella di raccogliere le sollecitazioni che nascono dagli equilibri di forza tra gli Stati. Se le potenze egemoni a livello internazionale identificano come nemico un paese o un regime, che può anche essere effettivamente dispotico e pericoloso a livello politico, ma che sul piano morale o del diritto universale non è peggio di decine di altri, sarà questo, o meglio i suoi responsabili, l’oggetto del giudizio del Tribunale. Analogamente, un gruppo di paesi, che ha interesse a creare difficoltà alle potenze egemoni, chiederà l’intervento del Tribunale per valutarne l’operato e, anche se non otterrà risultati effettivi, avrà comunque introdotto qualche elemento di disturbo nella formazione del consenso dell’opinione pubblica nei confronti dei vincitori. Tutto ciò è inevitabile, perché i Tribunali penali internazionali, che non si appoggiano a nessun potere politico e che non hanno nessuna legittimità democratica, devono avere il sostegno degli Stati per poter agire, e ovviamente questi ultimi li usano come strumento della propria politica estera. Ed è comunque meglio che siano usati dagli Stati, che quantomeno sono istituzioni che si basano sul consenso dei cittadini e che quindi esercitano un certo grado di responsabilità, anche se necessariamente parziale, piuttosto che essere nelle mani di individui (di giudici «indipendenti») che non devono rendere conto del loro operato a nessuna istanza democratica.
La contraddizione più profonda e più pericolosa su cui si fondano i Tribunali penali internazionali è quindi la pretesa che la giustizia internazionale possa essere perseguita anche in un mondo diviso in Stati indipendenti e che il diritto possa essere imposto senza mettere in discussione la loro esistenza come entità sovrane. In base a questa tesi, come già si diceva, lo Stato non è più il fondamento della legittimità del diritto, ma questo può essere fatto valere non solo in assenza di un potere politico che detenga il monopolio della forza e quindi ne imponga il rispetto, ma anche in assenza di un consenso che ne fondi la legittimità. In realtà questa tesi è smentita nella pratica dal fatto che questi Tribunali non possono che agire nel quadro dei rapporti di potere tra gli Stati. Ciò non toglie che dal punto di vista concettuale si tratti di un’idea decisamente nefasta, perché come tutte le idee mistificate allontana dalla comprensione della realtà e dalla possibilità di agire effettivamente per migliorarla.
 
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Questa scissione tra Stato e diritto si inserisce nella corrente di pensiero sempre più diffusa che tende ad attribuire allo Stato una funzione di secondo piano nel governo (che è infatti divenuto la governance) dei processi politici ed economici. A fronte del parziale svuotamento della sovranità e della ridotta capacità di intervento da parte degli Stati nazionali, entrambi frutto del processo di globalizzazione, la reazione più diffusa è infatti quella di non cogliere più lo Stato come il livello primario dell’organizzazione del potere, sia nella politica interna, in cui si ritiene che le spinte del mercato da un lato e le organizzazioni della società civile dall’altro possano svolgere un ruolo sostitutivo, che in quella internazionale, dove proliferano gli organismi internazionali che dovrebbero fornire non solo il quadro della cooperazione, ma anche assumere il ruolo di organismi decisionali. Ora, anche in questo caso è chiaro che si tratta di una mistificazione dietro a cui si continuano a celare da una parte la debolezza degli Stati nazionali, dall’altra i rapporti di forza in base ai quali gli Stati agiscono.
Non è un caso che queste teorie abbiano tanti sostenitori soprattutto in Europa, dove la crisi dello Stato è fortissima proprio a causa delle sue dimensioni inadeguate, e dove quindi è minore la capacità di intervento e il senso di responsabilità dei governi. Un buon esempio a questo proposito sono le parole del presidente della Repubblica Ceca, Vaclav Havel, apparse sui principali quotidiani europei qualche tempo fa: «Nel secolo a venire, la maggior parte degli Stati incominceranno a trasformarsi da oggetti di culto a semplici unità amministrative civili, nell’ambito di una complessa organizzazione planetaria… Le responsabilità e le giurisdizioni dello Stato si potranno spostare sia verso il basso che verso l’alto: nel primo caso ai vari organi e strutture della società civile cui lo Stato dovrebbe gradualmente trasferire molti dei suoi compiti, e nel secondo verso le comunità o organizzazione regionali, transnazionali o globali. E questo trasferimento di funzioni è già iniziato».
Nessuno negli Stati Uniti, probabilmente, sottoscriverebbe una simile affermazione, dato che lì il governo federale mantiene un ruolo essenziale nell’indirizzare la politica economica e si fa carico della responsabilità della politica estera. In realtà, laddove funziona, il quadro statuale rimane sempre il punto di riferimento fondamentale. Ma in Europa questa opinione è diffusissima, soprattutto in Germania, in Gran Bretagna, in Italia. Persino un intellettuale rigoroso come Habermas, che pure riconosce la crisi degli Stati nazionali europei e indica nella creazione di una Federazione europea la possibilità di ricostituire la capacità di intervento statuale (e che quindi coglie il nesso tra allargamento dell’orbita dello Stato e possibilità di tornare a governare i processi politici), quando deve affrontare i temi globali e legarli alle tematiche della democrazia post-nazionale, indica come soluzione l’avvio di una «politica interna mondiale», ma non ritiene né possibile né auspicabile la costituzione di uno «Stato mondiale».[5] Con il termine di «politica interna mondiale» egli intende perciò l’istituzionalizzazione delle procedure per un’armonizzazione pragmatica degli interessi a livello mondiale e per un’intelligente costruzione di interessi comuni, tenendo conto dell’indipendenza, delle preferenze e delle specificità di Stati «precedentemente sovrani». I protagonisti di questo progetto dovrebbero essere innanzitutto i movimenti e le organizzazioni non governative, primi embrioni di una società civile mondiale da cui dovrebbe prendere avvio la spinta per il superamento degli interessi nazionali.
Habermas pensa, quindi, che sia possibile attuare scelte decisive per il futuro dell’umanità senza che esista un organismo decisionale, un’istituzione, che basi la propria autorità, e che quindi fondi la propria legittimità, sul consenso dei cittadini, e che abbia alle spalle i meccanismi democratici essenziali per esprimere l’interesse generale di tutta la comunità che si sente parte di un destino comune. In questo modo egli si limita ad esprimere un’esigenza (arrivare ad affermare il bene comune di tutta l’umanità), senza indicare come realizzarla, ma auspicando che gli uomini divengano esseri assolutamente razionali, capaci di convivere senza bisogno di creare istituzioni che detengano il monopolio della forza e che garantiscano il rispetto della legge (che sono i due requisiti realizzati dallo Stato).
Ai tempi della guerra del Kosovo Habermas sviluppa questo concetto sotto una diversa angolatura, e in modo ancora più esplicito. Contrapponendo il pacifismo del diritto al pensiero realista, Habermas sostiene la necessità di trasformare il diritto internazionale in un diritto di cittadinanza universale. La guerra in Kosovo, motivata da una missione di pacificazione e di salvaguardia dei diritti umani, può essere interpretata, secondo Habermas, proprio come un passo verso l’affermazione del diritto cosmopolita di una società universale. La difesa dei diritti umani è diventata, infatti, un dovere primario del nostro tempo, che deriva dalle tragedie della prima metà del secolo. Il processo di globalizzazione, inoltre, svuota gradualmente la sovranità degli Stati nazionali, e apre così la via all’intervento nei loro affari interni. Ma perché la difesa dei diritti possa essere effettivamente perseguita, essa deve essere in qualche modo istituzionalizzata, creando una giuridificazione complessiva dei rapporti internazionali, in modo che chi è il destinatario del diritto ne sia anche l’autore; occorre quindi creare un «ordine giuridico democratico» su scala mondiale che fondi la legittimità dell’intervento. Un tale scenario, egli sostiene, si potrebbe affermare anche a prescindere dal monopolio della violenza di uno Stato e di un governo mondiali. Basterebbero un Consiglio di Sicurezza funzionante, la giurisprudenza vincolante di una Corte di giustizia internazionale e l’integrazione dell’Assemblea generale dei rappresentanti dei governi con un secondo livello di rappresentanza dei cittadini.
Il fatto che uno studioso come Habermas, che pure è un rigoroso sostenitore del ruolo dello Stato in moltissimi campi, e soprattutto in quello sociale, cada in una contraddizione così evidente, è indicativo della difficoltà di pensare oggi la statualità e il problema della pace. E’ evidente infatti che, se il fondamento della legittimità dell’intervento a difesa dei diritti umani è dato dal fatto che chi è destinatario di tale intervento è al tempo stesso autore dei diritti in questione, le «istituzioni» che egli indica come sufficienti a creare un ordine giuridico mondiale democratico (un’ONU riformata e una Corte di giustizia vincolante) non sono affatto in grado di realizzare questo obiettivo. In realtà solo lo Stato è in grado di farlo, ma il fatto di ritenere superfluo, o irrealistico, o addirittura dannoso uno Stato mondiale, porta necessariamente ad un vicolo cieco.
 
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La questione dei rapporti tra esistenza di un quadro statuale e possibilità dell’affermazione del diritto è dunque un punto nevralgico per la comprensione del ruolo dello Stato. Se non lo si coglie, allora diventa impossibile difendere l’importanza di quest’ultimo in qualsiasi campo. Negare la funzione dello Stato nell’indirizzare e regolare l’economia, o nel perseguire l’obiettivo della giustizia sociale, affonda le proprie radici nella stessa contraddizione: quella di pretendere di scorporare la politica, cioè la capacità di governare i processi in corso e di far rispettare la legge, dallo Stato, cioè dall’organizzazione del potere (lo Stato detiene il monopolio della forza) e dal consenso (lo Stato, di fatto, è il popolo, e viceversa).
Come spiega bene Carl Schmitt, che è uno dei pochi autori che ha affrontato con grande lucidità il nodo dei rapporti tra Stato, diritto e popolo,[6] l’essenza dello Stato è quella di essere l’unità politica di un popolo, e quindi di fondarsi su un atto di volontà politica. E’ questo atto, attraverso il quale la moltitudine si fa popolo, che ne fonda la legittimità e il potere. Lo stesso vale per la costituzione, che nella accezione assoluta e più profonda coincide a sua volta con lo Stato, di cui costituisce il principio di unità e di ordine sociale; anch’essa è il frutto di una decisione consapevole, esercitata dal popolo in quanto titolare del potere costituente e della sovranità. Attraverso questo atto il popolo prende coscienza della propria qualità di soggetto capace di agire e di determinare da sé il proprio destino politico. La legittimità del diritto si fonda quindi sull’atto di volontà politica con cui il popolo afferma la propria esistenza concretizzandola nello Stato. Per questo lo Stato moderno include sia il concetto di legge formale (la legge come norma, e più precisamente come regolamentazione giuridica, che è alla base dell’idea dello Stato di diritto), sia quello di legge politica (la legge è volontà concreta, è comando, è un atto di sovranità — è la volontà del popolo)[7], ed entrambi questi concetti di legge sono essenziali per capire la costituzione moderna, perché corrispondono ai suoi due elementi fondamentali, la parte politica e quella relativa allo Stato di diritto.
Questo permette anche di capire perché lo Stato moderno, come afferma Eric Weil, è l’unico ambito in cui una comunità può prendere decisioni consapevoli e universali.[8] Esso, infatti, è l’unica forma di organizzazione del potere che realizza la coincidenza tra chi è autore della legge e chi deve rispettarla, tra il titolare dei diritti e il soggetto sottoposto ai corrispondenti doveri.
Ovviamente, rispetto al modello ideale che incarna la volontà generale, gli Stati esistenti sono solo realizzazioni parziali e molto imperfette. La ragione principale risiede proprio nell’esistenza di una molteplicità di Stati sovrani che fa sì che lo Stato sia insieme «il garante della pace e del rispetto del diritto al proprio interno e l’agente della violenza nei rapporti con gli altri Stati… L’esercizio, o la minaccia dell’esercizio, da parte dello Stato, della violenza esterna compromette necessariamente la certezza dei rapporti giuridici al suo interno, perché i due ambiti non possono essere isolati. Lo Stato può quindi realizzare al suo interno una sfera di giuridicità soltanto a prezzo di tollerare, e a volte di promuovere, sia nelle relazioni internazionali che al suo interno, una sfera di rapporti sottratti al controllo del diritto».[9]
La crisi della sovranità nazionale, prodotta dalla crescente interdipendenza degli uomini, mette allora in luce innanzitutto la necessità di allargare l’orbita dello Stato fino all’adeguamento alla dimensione ormai globale dei problemi, siano essi economici, ecologici, di sicurezza, di giustizia sociale o di difesa dei diritti umani. Si tratta sicuramente di un processo lungo, che dovrà prevedere tappe intermedie di unioni regionali, di cui l’Europa, se sarà in grado di completare la propria unificazione dando vita ad una vera federazione, sarà il primo esempio ed il modello. Tuttavia, questo processo, che coincide con il superamento della divisione dell’umanità in Stati sovrani, è il solo in grado di avvicinare alla realizzazione della piena espressione della volontà generale. Esso comporterà «la progressiva presa di coscienza di sé, attraverso la creazione di federazioni regionali, del popolo federale mondiale in e la sua soluzione sarà la fondazione della federazione cosmopolitica… [Si tratterà] di uno Stato che si avvicinerà più di quanto sia mai accaduto prima d’ora alla realizzazione della propria idea liberandosi dal suo volto violento e assumendo come sua sola missione quella del perseguimento del bene comune dell’umanità».[10]
 
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In conclusione, sia le istituzioni come il Tribunale penale internazionale, sia le analisi che parlano della necessità di affermare un diritto di cittadinanza universale, manifestano un’esigenza reale e mettono in luce, anche se in genere in modo non consapevole, il fatto che è iniziata la crisi dello Stato in quanto agente della violenza nei rapporti internazionali.
Ma la soluzione che le une e le altre prospettano, cioè quella di trasformare il diritto internazionale in norme vincolanti per gli Stati è sbagliata e addirittura controproducente: è sbagliata, perché non esistono scorciatoie nell’affermazione della pace, che passa attraverso il lento processo di costruzione dello Stato mondiale; controproducente, perché, come si diceva già all’inizio, generando l’illusione che la pace e il diritto si possono affermare anche nel mondo della divisione, non solo mobilitano energie su obiettivi illusori, ma allontanano anche dalla presa di coscienza della realtà del problema. La dimostrazione la fornisce ancora una volta l’Europa, che sfrutta le istituzioni internazionali per evitare di assumersi le proprie responsabilità e di contribuire realmente al processo di costruzione della pace. Questo contributo non può certo consistere, come avviene attualmente, nell’allineamento supino alle decisioni americane, o viceversa nelle piccole manovre di disturbo alla potenza egemone — come nel caso del sostegno all’istituzione del Tribunale penale internazionale (ICC) —, in quei campi dove è chiaro che non si deve pagare alcun dazio; ma può solo essere quello di avviare il processo di superamento della sovranità assoluta degli Stati portando a compimento il processo di unificazione federale e aprendo così la strada ad analoghi processi nelle altre aree del mondo.
 
Luisa Trumellini


[1] I. Kant, «Per la pace perpetua», in Scritti politici, Torino, UTET, 1965, p. 299.
[2] I. Kant, «Fondazione della metafisica dei costumi», in Scritti politici, cit., p. 541.
[3] Ibid., p. 409.
[4] Ibid., p. 437.
[5] J. Habermas, Die Postnationale Konstellation, Frankfurt a/M, Suhrkamp Verlag, 1998; trad. it. La costellazione postnazionale, Milano, Feltrinelli, 1999, pp. 27-8.
[6] Questi riferimenti molto schematici sono ripresi dalla Verfassunglehre, Berlino, 1928, nella traduzione italiana Dottrina della costituzione, Milano, Giuffré, 1984.
[7] «Politico significa qui in opposizione allo Stato di diritto un concetto di legge che deriva dalla forma di esistenza politica dello Stato e dalla concreta struttura dell’organizzazione del potere», in C. Schmitt, Dottrina della costituzione, cit., p. 199.
[8] E. Weil, Philosophie politique, Paris, Vrin, 1966; trad. it. Filosofia politica, Napoli, Guida, 1973.
[9] F. Rossolillo, «La sovranità popolare e il popolo federale mondiale come suo soggetto», in Il Federalista, XXXVII (1995), p. 160.
[10] Ibid., p. 189.

 

 

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