IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno LII, 2010, Numero 3, Pagina 207

 

  

LE DIFFICOLTA’ DELL’EUROPA
NELLA GESTIONE DELLA CRISI DEL KOSOVO
 
 
Molti europeisti citano spesso il Kosovo come esempio dei buoni risultati dell’Unione europea nello sviluppo di una politica estera comune e dell’efficienza della soft law nella risoluzione degli scenari di crisi più complessi. Il riferimento è al fatto che, partire dal febbraio 2008, l’Unione europea si è assunta il compito di sostituire le Nazioni Unite nella loro missione di stabilizzazione del Kosovo e di rafforzamento dello Stato di diritto nella provincia. In realtà, al di là dei buoni propositi, proprio gli ultimi sviluppi della politica kosovara rivelano l’evidente affanno dell’Europa nell’affrontare con efficacia una crisi da cui dipende la stabilità della penisola balcanica e dei confini sudorientali dell’Unione. Pochi giorni dopo l’inizio della missione europea in Kosovo, infatti, il governo di Pristina ha dichiarato in via unilaterale la sua indipendenza dalla Serbia, riportando di colpo la questione kosovara al centro del dibattito internazionale. L’Europa si è trovata così costretta, suo malgrado, a confrontarsi con una crisi tanto grave quanto complessa, la cui soluzione necessiterebbe di una volontà e di un potere politico autentico, che tuttavia nell’Unione a ventisette ancora manca. Esiste in effetti una strana correlazione tra i mali del Kosovo e le debolezze dell’Europa. Alla base di entrambi si trova radicata la miopia nazionalista, che continua a segnare il destino del vecchio continente e che trova in Kosovo la sua ennesima esasperazione, e da cui il resto dell’Europa non riesce comunque ad emanciparsi attraverso la scelta dell’unificazione politica.
La storia del Kosovo per molti aspetti è la storia di molte altre regioni europee. Si tratta di un piccolo lembo di terra al centro della penisola balcanica a lungo conteso tra due popoli, i Serbi e gli Albanesi, ciascuno dei quali rivendica su di esso la primogenitura. Gli Albanesi sostengono di discendere dagli Illiri che abitavano il Kosovo fin da prima dell’arrivo dei Romani. I Serbi invece fondarono in Kosovo il loro primo patriarcato e lì diedero sepoltura ai loro grandi sovrani medievali. Nella memoria nazionale serba il Kosovo è poi legato ad una catastrofe storica: il 15 giugno del 1389 gli Ottomani sconfissero nei pressi di Pristina l’esercito del principe serbo Lazar, dando inizio al dominio musulmano nella regione balcanica. La tradizione nazionalista del XIX secolo tanto in Serbia quanto in Albania recuperò le antiche vicende del passato, creando miti nazionali per rafforzare l’unità del popolo nel corso dei rispettivi risorgimenti. Così il Kosovo, terra sacra per due popoli, venne definitivamente conquistato dalla Serbia durante le sue guerre di espansione all’inizio del XX secolo.
Nei decenni seguenti, l’integrazione tra la minoranza albanese e la maggioranza serba, così diverse per lingua, religione e cultura, si rivelò estremamente difficile. Durante la seconda guerra mondiale gli Albanesi del Kosovo approvarono l’annessione della regione all’Albania sotto il controllo italiano. Così, dopo la riconquista titina, l’odio e la diffidenza dei Serbi contro gli Albanesi aumentarono ulteriormente. Le politiche di Tito, volte a creare uno jugoslavismo omogeneo, si tradussero di fatto in un processo di accentramento e di forte discriminazione nei confronti della minoranza albanese. Ci fu un solo momento in cui si tentò in effetti di avviare un nuovo processo di integrazione tra i due popoli, valorizzando le autonomie locali e riducendo le discriminazioni. La Costituzione federale del 1974 riconobbe infatti al Kosovo e alla Serbia un’eguaglianza di fatto nel sistema costituzionale jugoslavo, garantendo agli Albanesi il diritto di amministrare in autonomia le proprie risorse, adottare le proprie leggi e tutelare la propria identità culturale. Fu questo un momento importante nella storia del paese, che lasciò intravedere le potenzialità di un modello costituzionale federale equilibrato, capace di realizzare l’obbiettivo tanto necessario, quanto arduo, dell’“unità nella diversità”. Le debolezze della politica jugoslava tuttavia impedirono al progetto federalista di radicarsi.
Dopo la morte di Tito la grave crisi economica che colpì il paese rafforzò le componenti estremiste della classe dirigente jugoslava. Mentre in Slovenia e in Croazia si sviluppavano forti spinte autonomiste, in Serbia iniziò l’ascesa di una nuova cultura politica nazionalista, che trovò in Slobodan Milosevic il suo interprete ideale. Milosevic seppe cavalcare il malcontento della popolazione indicando come facili capri espiatori la Costituzione federale del 1974, che aveva ridotto l’importanza della Serbia, e la minoranza albanese del Kosovo. Rievocando la lontana sconfitta del principe Lazar di seicento anni prima, nel giugno del 1989 Milosevic dichiarò che mai più il Kosovo serbo sarebbe dovuto cadere in mani straniere e proclamò così una nuova riforma costituzionale che di fatto eliminava ogni forma di autonomia per la provincia, instaurandovi un regime di apartheid contro la minoranza albanese. Con l’implosione della Jugoslavia e l’esasperazione delle persecuzioni di Milosevic, anche il Kosovo si fece promotore di posizioni indipendentiste, prima in maniera pacifica, con le proteste non violente di Ibrahim Rugova all’inizio degli anni ‘90, quindi con la guerriglia del movimento clandestino dell’UCK. Le violente repressioni e la pulizia etnica ordinate da Milosevic spinsero infine la NATO, nonostante le resistenze iniziali degli Europei, ad intervenire nella regione, pur senza l’autorizzazione della Nazioni Unite.
La guerra, consumatasi tra il marzo e il maggio del 1999, vide da una parte gli aerei occidentali colpire bersagli strategici in Serbia, dall’altra le truppe di Milosevic esasperare le persecuzioni contro gli Albanesi in Kosovo. Alla fine del conflitto restavano un paese distrutto e due popoli più nemici che mai. Il consiglio di Sicurezza infine autorizzò con la Risoluzione 1244 (1999) una missione dell’ONU in Kosovo con il compito a breve termine di garantire la sicurezza e la ricostruzione civile della provincia e quindi, nel medio periodo, di sviluppare un processo di autodeterminazione del popolo kosovaro nel rispetto dell’integrità territoriale della Serbia. La questione della definizione dello status giuridico del Kosovo rimase in realtà piuttosto ambigua. Se il governo di Belgrado, dopo la caduta di Milosevic, reclamava il ritorno del Kosovo alla nuova Serbia, i Kosovari non accettavano alcuna soluzione diplomatica che non sancisse in modo definitivo la loro secessione. La presenza occidentale nella regione da una parte permise una separazione di fatto del Kosovo dalla Serbia, dall’altra frenò per alcuni anni le spinte più radicali della politica albanese che voleva subito dichiarare l’indipendenza.
Davanti allo stallo dei negoziati tra Belgrado e Pristina, nel timore dello scoppio di una nuova guerra civile, nonché di perdere una base importante nella penisola balcanica, gli Stati Uniti optarono infine per la scelta dell’indipendenza del Kosovo. L’ex-Presidente finlandese Martti Ahtisaari, inviato speciale del Segretario generale delle Nazioni Unite, presentò al consiglio di Sicurezza nel marzo 2007 un piano che prevedeva per il Kosovo la via dell’indipendenza, supervisionata però dalla comunità internazionale. Nonostante il piano Ahtisaari non sia mai stato adottato dal consiglio di Sicurezza, a causa del veto russo e cinese, di fatto esso segnò l’exit strategy dall’impasse della questione dello status giuridico del Kosovo. Il 17 Febbraio 2008 l’Assemblea di Pristina dichiarò in via unilaterale l’indipendenza del Kosovo dalla Serbia. La dichiarazione di indipendenza determinò una forte divisione in seno alla comunità internazionale. Da una parte la maggior parte dei paesi occidentali riconobbe il Kosovo come Stato sovrano, dall’altra la Russia, la Cina e quasi tutto il resto della comunità internazionale non poté far altro che difendere l’integrità territoriale della Serbia, per paura di creare un pericoloso precedente.
Anche l’Unione europea, che da pochi giorni aveva iniziato la missione EULEX al fine di sostituire le Nazioni Unite nel rafforzamento dello stato di diritto nella provincia, si spaccò davanti la dichiarazione unilaterale di indipendenza di Pristina per questa stessa ragione. Se la maggior parte dei paesi membri dell’Unione riconobbe la statualità del Kosovo, ben cinque si rifiutarono di farlo, vale a dire la Spagna, la Grecia, la Romania, la Repubblica Slovacca e Cipro. Si tratta di cinque Stati che si trovano ad affrontare al loro interno gravi spinte secessioniste e che per questo si rifiutano di riconoscere l’indipendenza di Pristina che potrebbe costituire un precedente anche per loro. In questo modo l’Unione europea si è così di fatto trovata nella situazione alquanto strana di dover rafforzare la stabilità e la democrazia interna di un ordinamento che i suoi membri tuttavia chiamano in modo diverso e su cui ciascuno nutre delle aspettative e ha delle opinioni proprie. In questo modo l’Unione europea non può far altro che ridursi a giocare un ruolo subalterno agli interessi americani, che continuano a gestire in completa autonomia ogni aspetto della questione kosovara. Anche se l’Unione si è impegnata a combattere la corruzione della società kosovara e a rafforzare le sue istituzioni democratiche, di fatto gioca un ruolo piuttosto debole, dal momento che i leader kosovari sanno di dover rispondere in ultima istanza solo alla Casa Bianca e non a Bruxelles, che non vanta né un progetto preciso per il futuro del Kosovo, né una capacità d’azione efficace ed autonoma. I funzionari europei, incaricati di vigilare sull’amministrazione e la magistratura, non riescono ad incidere sul sistema del potere kosovaro costituito dai clan familiari e dalle mafie locali che gestiscono ogni aspetto della politica locale. Eppure la stabilizzazione e la modernizzazione del Kosovo rimangono estremamente importanti per l’Europa, dal momento che la provincia, che ha il tasso di povertà e di delinquenza più alto del continente, è una base ideale per le organizzazioni criminali internazionali, come dimostra il fatto che dal suo territorio ha origine gran parte dei traffici di eroina verso occidente.
Davanti alla dure regole della real politik si infrangono così le illusioni circa l’efficacia della soft law, e si manifesta tutta l’insufficienza del debole coordinamento europeo sul piano della politica estera e di sicurezza. L’assenza di un vero potere europeo che sappia andare oltre le logiche nazionali degli Stati membri, condanna l’Unione a giocare un ruolo di secondo piano.
La situazione non è migliorata in seguito alla pronuncia della Corte internazionale di Giustizia sulla questione dello status del Kosovo. Interrogata dall’Assemblea generale sulla conformità della dichiarazione unilaterale di indipendenza di Pristina rispetto al diritto internazionale, la Corte dell’Aia, dopo quasi due anni di discussione, si è pronunciata il 22 luglio 2010. Secondo i giudici dell’Aia la dichiarazione dell’Assemblea di Pristina non viola il diritto internazionale né generale, né speciale. L’opinione favorevole della Corte non è bastata tuttavia a spingere molti paesi a riconoscere l’indipendenza del Kosovo, tanto meno i cinque membri dell’Unione europea che ancora hanno omesso di farlo. L’unica possibilità per essi di riconoscere il Kosovo dipende dalla eventualità che la Serbia prenda atto dello stato dei fatti, accettando in via consensuale la separazione della sua antica provincia meridionale. In questa direzione sembra andare il tentativo spagnolo di mediare tra Serbia e Kosovo per una normalizzazione dei loro rapporti. Questo sforzo diplomatico si è tradotto in una risoluzione proposta dai ventisette paesi dell’Unione europea e dalla Serbia all’Assemblea generale dell’ONU, approvata per consensus il 10 settembre 2010, con cui si accetta l’opinione consultiva della Corte internazionale di Giustizia. In realtà il governo di Belgrado è ancora molto lontano dall’accettare l’avvenuta secessione del Kosovo, dovendo fare i conti, da una parte, con le spinte secessioniste della Vojvodina, e, dall’altra, con i movimenti ultranazionalisti interni. L’Unione europea si trova così coinvolta in un’impasse politica in cui, da una parte, il Kosovo indipendente non può essere accolto da tutti i Ventisette perché manca il riconoscimento serbo, dall’altra, la Serbia non può avviare un serio processo di europeizzazione finché non risolve il conflitto storico con Pristina.
La delusione per il debole ruolo dell’Unione europea in Kosovo è tanto più cocente in quanto, in effetti, l’Europa unita avrebbe gli strumenti culturali e politici per disinnescare i meccanismi dell’odio atavico tra Serbi e Albanesi, essendo essa nata dal bisogno di superare le divisioni e gli odi tra i popoli del vecchio continente. Invece, dopo l’allargamento a est, non accompagnato da un parallelo approfondimento dell’integrazione, si sono addirittura accresciute le contraddizioni di un’Europa, più vasta, ma meno consistente, la cui assenza pesa come un macigno sul destino dei Balcani, oggi come venti o dieci anni fa. Evidentemente il prezzo del non fare l’Europa sta drammaticamente diventando sempre più alto. Finché gli Europei non faranno la scelta di unirsi definitivamente in un’unica comunità di destino, non solo priveranno i Serbi e i Kosovari di un esempio necessario, ma verranno marginalizzati anche nelle decisioni sulle questioni a loro più vicine. I Kosovari e i Serbi potranno invece tornare concittadini all’interno di un’Europa unita, solo se i Ventisette sapranno fare la scelta dell’unione politica. In questo momento di massima crisi è allora necessario recuperare il progetto dei padri fondatori, riscoprendo nel progetto federale il destino naturale del processo di integrazione del continente. Un potere politico europeo, democratico e responsabile, potrà finalmente agire con efficacia in questo e molti altri scenari di crisi.
 
Luca Lionello
 

 

 

 

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