Anno LII, 2010, Numero 3, Pagina 200
LE RELAZIONI TRA EUROPA E STATI UNITI
Sono passati ormai più di vent’anni dai tempi in cui gli USA e l’URSS si contendevano il dominio del mondo. La fine dell’equilibrio bipolare ha consentito l’emergere di nuove potenze (in particolare la Cina, l’India, il Brasile), che, grazie al processo di globalizzazione, possono oggi giocare un ruolo da protagonisti. Il potere si è così ridistribuito sulla scena internazionale a favore dell’Estremo Oriente e del Sud del mondo. Inoltre, gli insuccessi delle guerre in Iraq e in Afghanistan e la recente crisi economica-finanziaria stanno addirittura mettendo in discussione il primato che non solo gli Stati Uniti, ma l’intero Occidente avevano conquistato con la sconfitta dell’Unione Sovietica.
Gli Stati Uniti hanno reagito a questo cambiamento storico cercando di sfruttare lo status di unica potenza globale che ancora detengono, nel tentativo di mantenere il proprio ruolo di leader mondiale e di garante dell’ordine internazionale. La strategia di Obama, volta a creare una rete di alleanze (network of partnership) che renda gli Stati Uniti decisivi in tutte le aree del mondo (quella che Madeleine Albright definiva “indispensable nation”), è una rielaborazione dell’idea della “Coalition of the Willing” di George W. Bush, alla quale già Bill Clinton aveva fatto riferimento nel 1994 contro la Corea del Nord. Oggi il presidente Obama intende perseguire questo obiettivo con un approccio più pragmatico, dichiarando di ricercare l’aiuto di chiunque voglia collaborare con gli Stati Uniti.
Questo nuovo orientamento nel definire le priorità di azione e nella ricerca dei partner da parte degli Stati Uniti ha delle conseguenze importanti sull’Europa e sui rapporti tra le due sponde dell’Atlantico. Eliminata la minaccia dell’Unione Sovietica, l’Europa ha infatti perso buona parte del suo valore strategico agli occhi degli Stati Uniti, che oggi cercano nel nostro continente un alleato che di fatto sostenga il loro ruolo di unica superpotenza.
L’esordio di Obama, in effetti, era stato più aperto. Nel discorso tenuto a Praga il 5 aprile 2009 durante la sua prima visita da presidente, egli aveva infatti incitato l’Europa ad assumersi maggiori responsabilità sia verso se stessa sia nei confronti dei problemi globali, e aveva dichiarato: “Noi vogliamo forti alleati. Non stiamo cercando di essere padroni dell’Europa. Stiamo cercando di essere partner dell’Europa”. Ma solo un anno dopo, deluso dall’atteggiamento degli Europei e ritenendo di non poter conseguire risultati concreti, Obama aveva deciso di annullare (un fatto senza precedenti) il vertice euro-americano convocato dalla presidenza spagnola dell’Unione.
Il 2010 è stato anche l’anno in cui la NATO ha elaborato e adottato — il 19 e 20 novembre a Lisbona — la nuova “Concezione Strategica” dell’organizzazione per i prossimi dieci anni. Pur riconfermando la “difesa territoriale” come compito centrale dell’organizzazione, con questo nuovo piano la NATO intende “modernizzare” la sua azione per far fronte a forme non-tradizionali di minacce quali il terrorismo, la proliferazione nucleare e delle armi di distruzione di massa, gli attacchi informatici.[1] Sia nell’ambito del gruppo di lavoro che ha preparato il summit di Lisbona che durante il summit stesso, gli Stati Uniti hanno cercato di mettere gli Europei di fronte alle proprie responsabilità, mostrando loro che potranno affrontare queste minacce soltanto se cambieranno radicalmente il loro modo di rapportarsi con gli USA e con il resto del mondo. Ad esempio, in un intervento presso la New America Foundation alcuni giorni prima del summit, l’ambasciatore americano presso la NATO, Ivo Daalder, ha ricordato che “la NATO non riguarderà più soltanto l’Europa… Anche se non sarà un’alleanza globale, svolgerà però un ruolo globale”.[2] Ma a giudicare dall’interesse suscitato da queste affermazioni nelle opinioni pubbliche e negli ambienti politici europei, neppure questi fatti sono riusciti a destare l’Europa dal suo torpore. In questo modo, con la loro irresponsabilità, gli Europei non riescono né a sostenere la nuova strategia degli Stati Uniti nel quadro internazionale, né a produrre un’azione alternativa, incoraggiando di fatto le potenze emergenti ad assumere un atteggiamento antagonista nei confronti dell’Occidente.
Il Brasile, per esempio, ambisce ad assumere il ruolo di principale potenza nell’Atlantico del sud: controlla il ciclo completo della produzione nucleare, ha recentemente varato un piano — che ricalca le scadenze di quello della NATO — per potenziare la propria marina militare e, nell’ambito dell’alleanza strategica con la Cina, ha elaborato un piano di lavoro comune per le rispettive forze navali.[3]
In questo contesto, il giornale messicano La Jornada[4] ha riferito il contenuto dell’intervento del ministro della Difesa brasiliano Nelson Jobim alla conferenza internazionale di Lisbona su “Il futuro della Comunità transatlantica”, in cui ha dichiarato che il Brasile si oppone alla presenza della NATO nell’Atlantico del sud e ad ogni tentativo di creare dei legami tra il nord ed il sud dell’area atlantica. Jobim ha rincarato la dose affermando che la NATO non può pensare di sostituirsi alle Nazioni Unite e che anzi, con la scomparsa dell’Unione Sovietica, le ragioni per cui essa è stata creata “hanno cessato di esistere”. Ha inoltre denunciato il fatto che la NATO si sia trasformata in uno “strumento per l’affermazione degli interessi degli Stati Uniti” nel mondo e ha criticato “l’estrema dipendenza europea dalle capacità militari statunitensi in seno alla NATO” che le impediscono di “costituirsi in un attore geo-politico all’altezza del suo peso economico”.
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Nel novembre del 2009, l’European Council on Foreign Relations ha redatto un interessante rapporto[5] che analizza le relazioni politiche ed economiche tra Stati Uniti ed Unione europea e che mostra come siano diverse le aspettative, per quanto riguarda gli USA da un lato e gli Stati europei dall’altro, nei confronti dei rapporti transatlantici.
Il rapporto giunge alla conclusione che gli Europei non vogliono tener conto del fatto che l’orientamento americano nel confronto dell’Europa è cambiato, ed è in ulteriore evoluzione, e continuano ad impostare i loro rapporti con gli Stati Uniti sulla base di convinzioni che risultano superate e totalmente illusorie. Gli Europei sono infatti convinti che Europa e Stati Uniti condividano, come nel periodo della Guerra fredda, gli stessi interessi fondamentali e, in particolare, che gli Stati Uniti abbiano un interesse vitale a garantire la sicurezza dell’Europa. Mantenere buoni rapporti politici con gli USA assume perciò, per gli Stati europei, un’importanza strategica. Dal loro legame con gli USA i governi europei si aspettano un trattamento preferenziale da far valere non solo nel contesto internazionale, ma anche nella competizione con i vicini. Ne consegue che ciascun Stato europeo ricerca una “relazione speciale” con gli Stati Uniti, almeno nelle aree più importanti per i propri interessi nazionali, convinto di ottenere maggiori vantaggi rispetto ad un approccio collettivo. Si tratta di un orientamento che si fonda sulla convinzione di lavorare, in questo modo, nell’interesse del proprio paese. Innanzitutto i governi europei si ritengono assolti da ogni responsabilità politica, demandando agli Stati Uniti il difficile compito di prendere decisioni, correre i relativi rischi e pagarne i conseguenti prezzi. Inoltre, cercando l’appoggio degli Stati Uniti, i singoli Stati europei tentano di ostacolare le politiche dei loro vicini e di ridurne le ambizioni. L’Italia, ad esempio, spera di sfruttare l’influenza americana per tener lontana la Germania dal consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, mentre la Germania, grazie allo scudo militare americano, può ignorare le offerte della Francia di proteggerla con la sua force de frappe; Olanda e Danimarca, invece, devono il loro atlantismo alla necessità di tenere a freno Francia e Germania, e così via. Ma dal punto di vista di Washington, gli Europei, cercando attenzioni, sottraendosi alle proprie responsabilità e cercando di coinvolgerli nelle proprie dispute interne dimostrano una sorta di infantilismo che non permette agli Stati Uniti di trovare in loro l’alleato affidabile di cui avrebbero bisogno.
Eppure, in altri contesti, le relazioni tra l’Europa e gli Stati Uniti sono molto diverse. Il rapporto fa notare che “gli Stati membri dell’Unione europea, abituati a mettere insieme i loro interessi economici, non hanno difficoltà a trattare con l’America sulle questioni commerciali, i regolamenti e le pratiche competitive, da quel gigante economico che rappresentano collettivamente”. In questi settori le relazioni transatlantiche sono robuste, persino combattive. Da un lato, infatti, gli Stati Uniti e l’Europa sono diventate le regioni più interdipendenti al mondo. Nel 2009 il valore complessivo degli scambi commerciali in beni e servizi tra Unione europea e Stati Uniti ha superato i 610 miliardi di dollari, dando lavoro a 14 milioni di persone. Inoltre Europa e Stati Uniti rappresentano, ciascuno per l’altro, il principale investitore estero: nel 2008 il valore degli investimenti europei negli USA è stato di 121,4 miliardi (il 71% sul totale degli investimenti diretti fatti negli Stati Uniti), mentre gli Americani hanno investito 50,5 miliardi in Europa (il 62% dei propri investimenti esteri totali).[6] Dall’altro lato, negli affari economici, l’Unione europea non si dimostra subordinata agli Stati Uniti, come è evidente se si considerano le barriere non tariffarie e gli standard globali che l’Europa impone nel commercio, cui sia l’America che i paesi non europei devono adeguarsi essendo quello europeo uno dei principali mercati mondiali. L’Europa inoltre non esita a difendere i propri interessi nelle competizioni commerciali, riuscendo a infliggere multe di svariati milioni di dollari ad aziende americane del peso della Microsoft e dell’Intel.
Pertanto, mentre nei campi della politica estera e della difesa, in cui gli Stati Uniti hanno un ruolo e un’influenza che sovrasta quella degli alleati europei, la collaborazione tra le due sponde dell’atlantico è spesso problematica, nei campi economici e commerciali, in cui l’Unione europea è invece riuscita a impostare le proprie relazioni con gli USA su un piano di parità, entrambi i partner riescono ad ottenere un mutuo vantaggio. E’ esemplare a questo proposito il caso del consorzio europeo Airbus che si oppone all’americana Boeing nel mercato aerospaziale civile. Di questa competizione si avvantaggiano le compagnie aeree mondiali, i loro clienti, l’intera economia mondiale e, in ultima analisi, le stesse Airbus e Boeing.
Il contrasto tra la deferenza degli Europei nei rapporti con gli Stati Uniti in politica estera e di difesa, e la sicurezza con cui invece trattano con gli USA le questioni economiche trova spiegazione nel fatto che in materia economica l’Unione europea, avendo ampiamente integrato le economie degli Stati membri, può competere alla pari con gli Stati Uniti, mentre in materia di politica estera e di difesa gli Stati Uniti e gli Stati europei hanno pesi molto diversi. Come scrivono gli autori del rapporto, è la mancanza di volontà dei governi europei a mettere in comune gli interessi politici, oltre a quelli economici, che costituisce la causa principale delle recenti incomprensioni nei rapporti politici tra l’Europa e gli Stati Uniti. “Nella politica estera e di difesa, gli Stati membri mantengono un forte senso di sovranità nazionale, partecipando alla NATO come alleati individuali e concedendo raramente, a livello dell’Unione europea, al loro Alto Rappresentante, Javier Solana, la possibilità di agire”. Il risultato è “il fallimento dell’Europa nel rappresentare un effettivo attore della sicurezza internazionale”.
Da parte loro, gli Stati Uniti ritengono che un’Europa unita sarebbe più utile ai loro scopi strategici rispetto all’Europa attuale, tuttavia non ritengono sia compito loro prendere qualche iniziativa per spingere gli Europei a realizzarla. Reputano invece prioritario perseguire i propri interessi immediati confrontandosi con l’Europa così com’è, piuttosto che intromettersi negli affari interni dell’Unione europea e impegnarsi per indurre gli Europei, che paiono così riluttanti, a rafforzare l’unione politica. Si tratta di un atteggiamento pragmatico, ben riassunto in questa dichiarazione dell’alto diplomatico americano Philip Gordon: “Noi vogliamo vedere un’Europa forte e unita, che parla con una sola voce. Nel migliore dei mondi possibili quella voce direbbe quello che noi vogliamo sentire… Se non dicesse quello che vogliamo sentire, allora vorremmo che quella voce fosse meno unita. In futuro dovremo avere relazioni con l’UE e con le nazioni. Si va nel posto dove si può ottenere quello che si desidera”.[7]
La conseguenza di questa situazione, come conferma l’analisi dell’European Council on Foreign Relations, è che gli Stati Uniti, pur non essendo ideologicamente contrari al processo di integrazione europea, non privilegiano le istituzioni dell’Unione europea nei rapporti con l’Europa, ma mantengono una rete di relazioni dirette con i diversi paesi membri, che non esitano ad utilizzare soprattutto quando le istituzioni europee si rivelano incapaci di dare un contributo efficace nelle questioni internazionali.
L’atteggiamento degli USA verso l’Europa può essere ricondotto a quattro diverse tattiche. Nei rapporti con la Cina e l’Estremo Oriente, in cui l’Europa non ha un ruolo importante, quest’ultima viene generalmente ignorata. Nelle questioni che riguardano l’Iraq e il Medio Oriente, in cui l’Europa potrebbe giocare un ruolo importante ma è frenata da una forte opposizione interna, essa viene marginalizzata. Per quanto attiene all’Afghanistan e all’Iran, rispetto ai quali l’America trova facile consenso tra gli Europei, l’Europa viene coinvolta attraverso il canale più utile — la NATO, l’UE o associazioni create ad hoc — con l’obiettivo di ottenere il miglior risultato per l’America. Nei rapporti con la Russia, che rivestono un’importanza cruciale per l’Europa, ma su cui gli Europei non riescono a trovare un consenso unanime, l’America preferisce giocare sulle divisioni degli Stati europei, cercando di accrescerle, per far prevalere le proprie politiche.
Il caso dell’Afghanistan può essere riportato come caso esemplare del fallimento dei governi europei nell’assumersi la responsabilità di un conflitto che è vitale per la loro sicurezza. Fino al 2008, gli Europei hanno speso nel loro insieme in Afghanistan praticamente quanto gli Stati Uniti (4.7 miliardi di dollari contro 5 miliardi di dollari). In quello stesso anno gli Europei hanno anche inviato più truppe degli americani, arrivando a costituire il 37% delle forze estere in Afghanistan (contro il 54% degli Stati Uniti). Tuttavia gli Stati europei hanno avuto un’influenza minima sull’evoluzione delle strategie in Afghanistan. I governi europei hanno di fatto giudicato più importante il loro rapporto bilaterale con Washington ed hanno continuato a considerare la campagna militare una responsabilità degli USA. Il risultato di questo comportamento è stata la perdita dell’appoggio della propria opinione pubblica e la dimostrazione dell’incapacità dell’Europa di essere il partner responsabile di cui gli USA hanno bisogno.
Sempre secondo il rapporto dell’European Council on Foreign Relations, “mentre esiste una crescente consapevolezza che trattare con successo con la Russia o con la Cina richiede che gli Stati europei assumano una posizione comune, essi non riconoscono ancora che è necessario un approccio comune verso gli USA” nella politica estera e in quella di difesa. Sembra che tra gli Stati europei il tabù dell’autonomia nazionale si manifesti con più forza proprio nei confronti della potenza americana dalla quale nel passato è dipesa la loro sopravvivenza, e che si aspettino ancora dall’America, in un mondo profondamente cambiato, quella protezione che nel passato ha consentito loro di svilupparsi e vivere in pace in un mondo dominato da Stati molto più potenti di loro.
Pur criticando l’atteggiamento degli Europei, il report non è però in grado di indicare una soluzione efficace per superarlo. Ritenendo che l’Unione europea possa trovare maggiore unità limitando il numero dei temi su cui confrontarsi, il rapporto propone che gli Europei “isolino due o tre argomenti su cui possano mettersi d’accordo” e che possano presentare agli USA come posizione comune. Il rapporto si spinge fino a suggerire le questioni dell’Afghanistan, della Russia, del Medio Oriente, dei cambiamenti climatici, della riforma della governance globale e della regolamentazione della finanza internazionale come i temi su cui gli Europei potrebbero avere una posizione autonoma e carte da giocare, e su cui, quindi, gli Americani sarebbero interessati a discutere. La necessità per l’Europa di trattare unitariamente le questioni internazionali oltre a quelle economiche si traduce quindi in un ennesimo appello ai suoi governanti perché mettano da parte gli egoismi nazionali per “far parlare l’Europa con una sola voce”.
Adottando l’atteggiamento pragmatico che criticano come poco coraggioso quando lo imputano agli Stati Uniti, gli autori del rapporto accettano, senza metterlo in discussione, l’attuale assetto istituzionale dell’Unione europea dando per scontato che non possa mutare nel prossimo futuro. Anche il loro appello, come quelli che l’hanno preceduto, è quindi destinato a cadere nel vuoto. I governi europei sono necessariamente combattuti tra due istanze contrapposte: appoggiarsi all’Unione europea per rafforzare il proprio peso a livello internazionale e competere con i partner europei nelle proprie aree di interesse. Finché non esisterà uno Stato federale europeo con poteri e risorse proprie in materia di politica estera e di difesa, capaci di sostituire quelli nazionali, gli Stati europei, nessuno escluso, saranno costretti a cercarsi un protettore potente — e possibilmente lontano — sperando nella buona fortuna e nella sua benevolenza.
Laura Filippi
[1] NATO, Active Engagement, Modern Defence – Strategic Concept for the Defence and Security of the Members of the North Atlantic Treaty Organisation, adopted by Heads of State and Government in Lisbon, 19-11-2010, http://www.nato.int/cps/en/SID-2D40D7AD-A79E550A/natolive/official_texts_68580.htm.
[2] Josh Rogin, “Get ready for Nato 3.0”, in Foreign Policy on-line, 29-10-2010, http://thecable.foreignpolicy.com/posts/2010/10/29/get_ready_for_nato_30.
[4] Raúl Zibechi, “Brasil ante el nuevo concepto estratégico de la OTAN”, La Jornada, 7-12-2010, http://www.jornada.unam.mx/2010/12/03/index.php?section=opinion&article=027a2pol.
[5] Jeremy Shapiro e Nick Witney, Towards a Post-American Europe: a power audit of EU-US Relations, European Council on Foreign Relations, http://ecfr.3cdn.net/05b80f1a80154dfc64_x1m6bgxc2.pdf.
[6] Dati della Commissione Europea, http://ec.europa.eu/trade/creating-opportunities/bilateral-relations/countries/united-states.
[7] Charlemagne’s Notebook, “Sometimes America likes a divided Europe”, The Economist.com, 30-9-2009, www.economist.com/blogs/Charlemagne/2009/09/Sometimes_America_wants_a_divi.cfm.