Anno LII, 2010, Numero 3, Pagina 192
IL DISARMO E LA DIFESA DELL’EUROPA
Da tempo sono in atto delle tendenze nello sviluppo della sicurezza che sono destinate a modificare profondamente, entro i prossimi vent’anni, l’organizzazione della sicurezza anche in Europa, e su cui quindi gli Europei farebbero bene a riflettere attentamente. Siamo infatti di fronte ad un capovolgimento dei rapporti di forza nelle armi convenzionali schierate sul fronte europeo dalla NATO e dalla Russia e ad un nuovo salto in avanti nell’applicazione delle tecnologia nel campo della difesa antimissile che non potranno non riflettersi anche sul terreno delle strategie militari dei due schieramenti. Come ha ricordato, infatti, in un’intervista televisiva rilasciata alla CNN il 1° dicembre scorso, il Primo Ministro della Federazione russa Vladimir Putin, nonostante la guerra fredda sia finita da tempo, il confronto militare tra USA e Russia continua: “Nel prossimo decennio saremo posti di fronte all’alternativa fra trovare un accordo [con gli USA] sulla difesa antimissile, attraverso la creazione di un meccanismo di cooperazione paritetica, oppure, se non sarà raggiunto alcun accordo costruttivo, si aprirà una nuova corsa agli armamenti”.
Putin ha scelto, non casualmente, di fare questa dichiarazione nell’intervallo di tempo tra il vertice della NATO che ha deciso di sostenere le linee guida del progetto americano di difesa antimissile e le ratifiche del nuovo START (Strategic Arms Reduction Treaty) da parte degli USA e della stessa Russia. Cioè tra due cruciali passaggi del processo di ridefinizione dei rapporti di forza a livello globale ed europeo che le due superpotenze hanno avviato dopo l’insediamento del Presidente Obama alla Casa Bianca. Un rapporto pubblicato recentemente dalla Brookings Institution (“The Next Round: The United States and Nuclear Arms Reductions after New START”, in Arms Control Series, dicembre 2010), nell’ambito dell’Arms Control Initiative (un’iniziativa condotta da ex-esponenti dei governi americano e russo) analizza i dettagli di questa fase. Negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso sono stati gli USA (e la NATO) che, per contrastare la superiorità in campo convenzionale del blocco sovietico, hanno per primi adottato la dottrina della flexible response (e del first use in campo nucleare) sul teatro europeo. Si trattava di una dottrina fondata sull’ipotesi di condurre una guerra “limitata” (ma evidentemente non per questo meno catastrofica per gli Europei) anche con l’impiego di armi nucleari tattiche. Oggi questa dottrina è stata fatta propria anche dalla Russia che, ormai messa in inferiorità sul piano convenzionale dall’allargamento della NATO da sedici a ventotto membri negli ultimi vent’anni, sfrutta il dispiegamento delle migliaia di armi nucleari “tattiche” in suo possesso come deterrente nei confronti dell’Occidente. La situazione difensiva dell’Europa non è dunque cambiata: oggi, come ieri, essa resta ostaggio della minaccia nucleare brandita dalle superpotenze.
Ora, le questioni che gli Europei dovrebbero porsi riguardano innanzitutto tre ordini di problemi. In primo luogo, è ragionevole affidare indefinitamente il nostro destino ad un sistema difensivo che sostanzialmente non controlliamo e che accetta la prospettiva della distruzione del territorio e delle città, nonché lo sterminio delle popolazioni del nostro continente? Secondariamente, in che misura tutto ciò è compatibile con l’avanzamento del processo di disarmo e con l’idea di una sicurezza europea? E infine, come possono gli Europei tornare a progettare e governare il loro futuro? E’ chiaro che spetta innanzitutto alla politica cercare di dare una risposta a queste domande, ma è altrettanto evidente che per farlo essa deve innanzitutto superare l’ottica nazionale per adottare quella europea.
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Il vertice della NATO di Lisbona del 19-20 novembre, approvando una versione aggiornata dello Strategic Concept su cui basare l’azione dell’Alleanza nei prossimi anni, ha dato il via libera all’attuazione in Europa del progetto americano di difesa antimissile. Si tratta di un progetto che l’Amministrazione Obama aveva già modificato rispetto a quello inizialmente proposto agli Europei dall’Amministrazione di George W. Bush, ma che tuttavia si colloca nella linea di sviluppo della dottrina militare che, da oltre venticinque anni, cerca di tradurre in superiorità strategica difensiva l’indiscutibile superiorità tecnologica statunitense. Nel corso degli anni sono cambiati i nomi e le modalità di sviluppo di questa dottrina — inizialmente battezzata Star Wars, poi definita Global Missile Defence e oggi presentata come Missile Defence —, ma non gli obiettivi e il sostegno finanziario delle diverse Amministrazioni che si sono succedute a Washington.
Il vertice di Lisbona è stato importante anche sotto un altro aspetto. Esso ha definito il calendario, peraltro già noto ai governi europei dal vertice NATO del dicembre del 2009, per l’attuazione del piano americano, che è così riassumibile: entro il 2011, è previsto il dispiegamento di sistemi difensivi contro missili a corto e medio raggio, basati su dispositivi che sono già operativi, quali incrociatori anti-missile per difendere parte dell’Europa meridionale; entro il 2015, invece, deve avvenire il dispiegamento di missili intercettori più avanzati e basati anche a terra (nei Balcani) per estendere la copertura dell’area europea contro attacchi missilistici di corto e medio raggio; entro il 2018, dovrà poi essere allestito un sito in Europa centrale per l’intercettazione di missili e per il dispiegamento di sistemi ancora più avanzati in grado di operare sia da terra che dal mare. A questo punto, secondo i piani, il sistema sarebbe in grado di estendere la copertura a tutti gli alleati in Europa contro minacce balistiche a raggio medio ed intermedio. Infine, entro il 2020, è programmato lo sviluppo di una nuova generazione di missili intercettori contro missili balistici intercontinentali che potrebbero essere lanciati contro gli USA.
La Russia aveva già avanzato le proprie riserve sull’attuazione di questo piano ai suoi confini occidentali, nel momento in cui deve contemporaneamente preoccuparsi di gestire sul piano convenzionale e nucleare anche il suo fronte orientale. Gli Europei, invece, si sono adeguati, con un atteggiamento riassunto nella dichiarazione resa dal Segretario generale della NATO Rasmussen: “tanta difesa in più [per gli Europei] ad un ottimo prezzo”. Si tratta di un atteggiamento che stride con gli interventi preoccupati fatti dai senatori americani e dai deputati russi nei dibattiti sull’adozione del nuovo START (ratificato a pochi giorni di distanza prima a Washington il 22 dicembre dal Senato americano e poi a Mosca il 24 dicembre dalla Duma russa). In occasione di questi dibattiti sono emersi, infatti, i principali punti di dissenso tra Americani e Russi, che sono riconducibili proprio alla decisione della NATO e agli squilibri militari venutisi a creare in Europa. Per la politica americana e per quella russa la ratifica del nuovo START non è dunque stata solo l’occasione per colmare il vuoto negoziale venutosi a creare nei rapporti strategici tra i due paesi una volta scaduti i precedenti trattati; essa ha rappresentato soprattutto il primo atto di un nuovo e impegnativo ciclo di trattative dall’esito ancora incerto, irto di rischi, in termini sia militari sia economici, al punto da poter portare anche a una ripresa della corsa al riarmo e a un ulteriore approfondimento degli squilibri in Europa. Proprio per convincere gli Americani dell’urgenza di prendere in considerazione le sue preoccupazioni, il governo di Mosca ha annunciato che recederà unilateralmente dal nuovo START qualora la difesa antimissile americana basata in Europa dovesse mettere a rischio la sicurezza della Russia. Proprio per cercare di rassicurare i Russi, il governo di Washington, pur non rinunciando al progetto di difesa antimissile, ha risposto di essere disposto a considerare anche l’ipotesi di ritirare le proprie armi tattiche dall’Europa e di voler cooperare con Mosca sul problema della difesa antimissile oltre che del disarmo globale.
Ma ad ostacolare i negoziati tra USA e Russia resta l’incognita dell’Europa e del futuro dei suoi rapporti con l’America. Come emerge anche dal rapporto della Brookings, sul terreno delle armi strategiche, sia gli Stati Uniti sia la Russia potrebbero già impegnarsi in riduzioni ancora più consistenti di quelle accettate con il nuovo START, che farà scendere nei prossimi anni a circa 1500 testate nucleari e 700 vettori strategici l’arsenale di ciascuna delle due superpotenze. L’Amministrazione Obama ha già infatti proposto di ridurli ulteriormente, fino ad arrivare a 1000 testate nucleari a testa, perché entrambi i paesi sanno che continuerebbero comunque a mantenere ancora a lungo il primato nella consistenza degli arsenali nucleari rispetto a quelli di tutte le altre potenze nucleari messe insieme. Ma il problema è che, sia a causa dell’attuale incertezza del quadro internazionale, sia, ancor di più, a causa della frammentata situazione militare europea, Russi e Americani sanno che dovranno continuare a confrontarsi sia su scala globale, sia, direttamente e addirittura militarmente, sul fronte europeo. In nessun’altra regione del mondo, infatti, i temi del disarmo nucleare e di quello convenzionale si intrecciano così profondamente: per questo anche la revisione del trattato sulle armi convenzionali in Europa (CFE) adottato nel 1990 sta entrando nell’orbita dei negoziati sul disarmo, in quanto non riflette più la realtà delle forze in campo.
Tutto ciò conferma quanto lontana sia ancora la realizzazione di una sicurezza reciproca, più fondata sulla fiducia che sulla forza, nel teatro europeo. E’ dal 1986, cioè dai tempi delle trattative tra Reagan e Gorbaciov, che questo problema è entrato strutturalmente nell’agenda delle trattative tra i governi di Washington e di Mosca. Ma col passare del tempo è diventato sempre più difficile districare la matassa degli equilibri regionali e globali in un mondo in cui nuovi attori nucleari si sono affacciati sulla scena internazionale senza che nel frattempo il quadro mondiale venisse in qualche modo semplificato. Anche a questo proposito il rapporto della Brookings fornisce una indicazione sull’anomalia — e pericolosità — del caso regionale europeo: nonostante Russi, Americani ed Europei stiano trattando da decenni la questione della riduzione degli armamenti sul continente europeo, nessuno sembra in grado di fornire cifre attendibili sul numero delle armi nucleari tattiche attualmente dispiegate, al punto che le valutazioni sui numeri a disposizione dei Russi oscillano da un minimo di duemila fino ad un massimo di seimila ordigni.
E’ alla luce di questa realtà che gli Europei dovrebbero interpretare la dichiarazione di Putin citata all’inizio, uscendo dall’illusione di essersi definitivamente sottratti al rischio nucleare. Si tratta di un’illusione di cui sicuramente non sono rimasti prigionieri né i Russi, né gli Americani. Come aveva ammesso il Presidente Obama in occasione del vertice con il Presidente russo Medvedev l’8 aprile del 2008 quando erano state poste le basi del nuovo START, gli USA erano e restano consapevoli che “il nuovo trattato sarà un importante primo passo avanti, ma sarà solo un passo avanti di un lungo viaggio. Questo trattato consentirà di effettuare delle importanti riduzioni di armamenti. Ma proseguire su questa strada significherà discutere con i Russi sulle prospettive di ridurre sia le armi strategiche sia quelle tattiche, sia quelle già dislocate sia quelle non ancora dislocate”.
Una analoga consapevolezza si legge nelle dichiarazioni successive sia del Segretario di Stato Americano Hillary Clinton sia del Ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov. La Clinton sostiene: “In tutte le future riduzioni di armi nucleari da parte degli USA, dovremo cercare un accordo con i Russi per aumentare la trasparenza sulle armi non strategiche dislocate in Europa, per reinstallare quelle armi fuori dai territori dei paesi membri della NATO, per includere nelle prossime trattative russo-americane discussioni sulle armi nucleari non strategiche” (22 aprile 2010). E, da parte sua, Lavrov ribadisce: “Siamo pronti a una discussione complessiva su tutti gli aspetti della sicurezza. Ma crediamo che sia logico cominciare a considerare la questione delle armi nucleari non strategiche come collegata alla soluzione, su scala universale, della questione di un ritorno di tutte queste armi nei territori degli Stati a cui appartengono. Questo aumenterebbe la sicurezza reciproca sia sul piano tecnico sia su quello fisico. In particolare questo riguarda l’installazione delle armi nucleari non strategiche nei territori dei paesi europei della NATO” (luglio 2010).
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Oggi in Europa tutti invocano il disarmo e si dichiarano favorevoli alla costruzione di una politica di sicurezza europea. Ma, nei fatti, il contributo europeo al disarmo si limita a tagli nei bilanci della difesa che sono irrilevanti dal punto di vista degli equilibri regionali e globali. D’altra parte la politica è riuscita a corrompere a tal punto il significato dell’espressione “sicurezza europea”, che usarla non ha quasi più alcun senso, perché non si sa a chi riferirla, con quali strumenti attuarla, chi dovrebbe governarla (e infatti, non a caso, essa resta confinata al quadro della cooperazione intergovernativa). Un ennesimo esempio del velleitarismo europeo è venuto proprio dall’ultimo vertice della NATO, quando la Germania, l’Olanda e il Belgio hanno sostenuto, in nome del disarmo, la necessità di eliminare le armi nucleari tattiche americane dal suolo europeo. Anche in questa circostanza la richiesta non era inserita in un piano coerente europeo che rispondesse alle esigenze strategiche che sono sul tappeto. E infatti non ha avuto alcun effetto ed è stata subito accantonata di fronte alla volontà, ribadita dalla stragrande maggioranza degli altri paesi membri della NATO (e dell’Unione europea), di seguire la linea dettata dagli Stati Uniti. Anche le due potenze nucleari nazionali europee, la Francia e la Gran Bretagna, pur perseguendo interessi diversi (la prima rivendicando un impossibile rafforzamento del ruolo dell’Europa senza rinunciare alla sovranità nazionale, la seconda ribadendo la propria dipendenza dagli USA) hanno unito gli sforzi quando si è trattato di difendere il loro status di piccole potenze e di ostacolare la nascita di una vera difesa europea autonoma. Il risultato è paradossale: gli Stati europei, finanziando e conservando le rispettive difese nazionali, non sono in grado di difendersi senza la copertura dell’ombrello nucleare e convenzionale americano; allo stesso tempo, alleati militarmente sotto la leadership americana, essi contribuiscono con le loro politiche sia a mantenere uno squilibrio militare che viene percepito come una minaccia dalla Russia, sia a sostenere una dottrina militare che si fonda sulla possibilità di distruggere l’Europa.
L’unica possibilità, per gli Europei, per uscire da questa contraddizione sarebbe quella di unirsi politicamente accettando di trasferire le sovranità nazionali nel campo della politica estera e di difesa a livello europeo. Si tratta di un passo che deve portare alla nascita di uno Stato federale europeo e che, come sta dimostrando la crisi finanziaria, sarà presto indispensabile anche per salvare l’Unione monetaria; ma si tratta anche di un passo che gli Stati, al momento, non hanno la volontà di compiere.
Pertanto, se si vuol salvare l’Europa, il problema è come fare emergere e maturare questa volontà almeno in alcuni paesi. E’ infatti ormai evidente che essa non può manifestarsi spontaneamente nel quadro e attraverso l’utilizzo delle regole dell’Unione europea, nel cui ambito non riesce nemmeno a cominciare un serio dibattito sul tema della difesa europea che vada al di là della cooperazione (come, ancora una volta, è dimostrato dal fatto che non è cominciato un dibattito neppure sulle scelte in gioco che riguardano direttamente il futuro degli Europei, di cui si preoccupano di più Americani e Russi). Questa volontà può invece nascere e svilupparsi con qualche prospettiva di successo in un quadro più ristretto, a partire da un gruppo di paesi abbastanza solido, compatto e consapevole di dover compiere delle scelte storiche capaci di modificare il quadro di potere esistente.
Sul terreno della strategia difensiva nucleare queste scelte dovrebbero consentire di trasformare il deterrente minimo di dissuasione francese in un deterrente europeo di risposta immediata ad un eventuale attacco nucleare contro l’Europa. Se venisse intrapresa questa strada, gli Europei da un lato solleverebbero gli Americani dalla responsabilità e dal peso di doverli difendere e, dall’altro toglierebbero ai Russi la scusa con cui giustificano le politiche di riarmo che essi attribuiscono alla necessità di doversi difendere dagli Stati Uniti sul suolo europeo. Sul terreno degli armamenti convenzionali, nell’ottica di promuovere una sicurezza reciproca in Europa, gli Europei potrebbero invece dimostrare nei fatti di rifiutare la prospettiva della distruzione delle loro città e del loro territorio abbracciando la dottrina di una difesa difensiva articolata su scala territoriale. Questo avrebbe il vantaggio di scoraggiare interventi manu militari da parte della Russia, senza, al tempo stesso, rappresentare per Mosca una minaccia. Gli elementi difensivi che gli Europei dovrebbero allestire per contribuire al disarmo e alla sicurezza sono, dunque, un deterrente nucleare minimo e una difesa difensiva coordinata sotto il comando di uno stato maggiore europeo che dovrebbe rispondere ad un Ministero della Difesa del governo dello Stato federale europeo.
Non si tratta di proposte nuove. Basta consultare l’archivio di questa rivista (www.thefederalist.eu) per trovarne traccia in un dibattito che in passato, a differenza di quanto accade oggi, non solo si sviluppò, ma suscitò vasti movimenti di opinione e di protesta, prima negli anni Sessanta del secolo scorso, quando nacque il problema di rispondere sul piano europeo all’adozione della dottrina della flexible response da parte degli USA (“La difesa dell’Europa e il significato delle armi nucleari”, Le Fédéraliste, 6, n. 2, 1964); poi negli anni Ottanta, quando si trattava di allontanare dall’Europa lo spettro di decine di migliaia di ordigni nucleari puntati sulle città europee (“Distensione tradizionale e distensione innovativa”, Il Federalista, 30, n. 3, 1988). Certamente il quadro in cui questi temi dovrebbero essere ripresi e affrontati dagli Europei è profondamente cambiato. Ma non è cambiata la natura della sfida di fronte alla quale essi e l’umanità si trovano.
In ogni caso, nessuna delle scelte che gli Europei dovrebbero compiere sul terreno del disarmo e della sicurezza potrà essere promossa in un quadro di semplice cooperazione intergovernativa, senza il coinvolgimento popolare e senza una forte legittimazione democratica delle istituzioni su cui dovrà reggersi una vera unione federale europea. Né tanto meno esse potranno maturare in un quadro così eterogeneo come quello dell’Unione europea a ventisette membri. Per questo è necessario ribadire che chi vuole contribuire a sciogliere il nodo della difesa europea, deve porsi il problema della costruzione di uno Stato federale europeo, ossia impegnarsi a rilanciare sul piano politico il progetto europeo a partire da un gruppo di paesi. Questo gruppo non avrà alcuna chance di formarsi, per evidenti ragioni politiche, economiche e militari, oltre che storiche, senza un esplicito impegno comune della Francia e della Germania.
L’orizzonte temporale di questo impegno è ormai chiaro.
Entro il 2020 gli Stati Uniti e la Russia dovranno ridefinire il quadro dei loro rapporti di forza sia in Europa sia, in generale, sul terreno del disarmo. Se in questo arco di tempo l’Europa resterà disunita, Americani e Russi agiranno senza tener conto della voce e degli interessi degli Europei. Se invece questi ultimi sapranno decidersi a realizzare finalmente la loro unione politica, gli USA e la Russia non potranno ignorare il nuovo quadro di potere che si creerà, e che sarà determinante sia sul fronte direttamente europeo, sia su quello globale.
Nei prossimi dieci anni si gioca, a partire dall’Europa, gran parte del destino del disarmo e della sicurezza. Per questo i federalisti dovranno battersi a livello europeo e nei principali paesi europei affinché i parlamentari, i movimenti politici, le organizzazioni sindacali, le associazioni della società civile sostengano la creazione di un potere europeo indispensabile per contribuire ad avanzare sulla strada della pace in Europa e nel mondo: vale a dire, affinché sostengano la creazione della Federazione europea a partire dal gruppo di paesi in cui sia maturata la volontà di costruirla.
Franco Spoltore