Anno XLIII, 2001, Numero 3, Pagina 213
LIMITI E DILEMMI DEL PACIFISMO
Puntualmente, allo scoppio di una guerra risorge il Movimento pacifista. Questa coincidenza, contrariamente a ciò che si ritiene comunemente, non è «normale». Così come non è «normale» che i conflitti che mettono in moto la pubblica reazione del pacifismo nel mondo occidentale sono quelli che vedono coinvolti Stati dello stesso mondo occidentale.
In realtà, sia l’uno che l’altro fatto riflettono ciò che si potrebbe definire «lo scandalo del pacifismo», che da una parte ha bisogno della guerra in atto per rivendicare la pace (e una guerra in atto, in quanto tale, ha già mietuto le sue vittime), e, dall’altra parte, reagisce tiepidamente, e spesso ignora del tutto, quello stillicidio di conflitti che coinvolgono popoli «marginali», quasi fossero una parte di umanità di serie B.
Nell’un caso come nell’altro, la guerra in sé non viene messa in discussione: vengono denunciate e stigmatizzate le singole guerre, che sono state e sono tuttora una costante presenza nei rapporti internazionali, e inevitabilmente questo fa del discorso sulla guerra un discorso di colpevolezza e innocenza, di bontà e malvagità. Si va cioè alla ricerca delle responsabilità «attuali», e il problema della persistenza del fenomeno, e quindi delle sue radici ultime, diventa marginale, coltivando così «il sogno di eliminare la guerra senza distruggere il mondo della guerra» (Mario Albertini, «Cultura della pace e cultura della guerra», in Il Federalista, XXVI (1984), p. 17).
Questo atteggiamento è profondamente radicato nella situazione reale del mondo, in cui non esiste nessun meccanismo per impedire la guerra; ed è anche radicato nella constatazione che la guerra è stata uno strumento necessario per l’affermazione dei valori che via via sono emersi nel corso della storia. L’affermazione di un nuovo valore ha implicato infatti il sovvertimento di un ordine nel quale esso non era riconosciuto, e nel quale la cristallizzazione del quadro sociale corrispondeva a istituzioni da abolire e da sostituire con un nuovo assetto istituzionale (lo Stato di diritto, lo Stato democratico, lo Stato sociale), i cui meccanismi e strumenti di governo fossero adeguati alla progressiva realizzazione di quel valore.
L’acquisizione storica di queste istituzioni ha contribuito alla trasformazione della condizione umana, fornendo agli uomini degli strumenti pacifici per la realizzazione di valori la cui affermazione era legata alla sfera della guerra.
Ma se ciò è vero per quanto riguarda la gestione della realtà politico-sociale all’interno dei singoli Stati, ciò non vale ancora nel contesto dei rapporti internazionali, che è il contesto in cui si manifestano ancora gravi disuguaglianze e in cui prevalgono i rapporti di potere fra Stati sovrani, e quindi le prove di forza.
Queste considerazioni ci permettono di riflettere con maggiore chiarezza su uno slogan che è spesso usato dai Movimenti pacifisti: «Non c’è pace senza giustizia». Esso non può certamente essere smentito se significa che non si può costruire la pace laddove persistono situazioni di grave disuguaglianza o di dispotismo. Gli stessi recenti atti di terrorismo sono spiegabili in buona parte come la tragica rivolta di popoli politicamente e socialmente emarginati per i quali la religione manipolata dai capi altro non è che uno strumento di coesione in mancanza della coesione nazionale.
Ma se non tentiamo di fare qualche passo avanti nella comprensione delle radici della guerra, rimaniamo prigionieri di un dilemma da cui i pacifisti non sono mai usciti: il dilemma della guerra giusta. Essere pacifisti dovrebbe significare essere contro ogni guerra, ma, se per affermare la pace si deve prioritariamente affermare la giustizia, si deve mettere in conto come necessaria una guerra che abbia quest’ultimo scopo.
D’altra parte, il concetto di guerra giusta è usato anche per denotare le guerre difensive. E se i due contesti nei quali il concetto viene usato si collegano fra loro nei fatti, ossia se è giusta la guerra degli oppressi contro gli oppressori, ma è anche giusta la risposta difensiva di questi ultimi, la conclusione che se ne può trarre è una sola: la guerra è una necessità che va accettata.
L’attacco alle Twin Towers riflette nei fatti questa contraddizione: dietro al terrorismo c’è un problema di giustizia, sia in senso politico che in senso sociale, ma, al di là della inevitabile retorica del governo americano sulla crociata per la libertà, bisognerebbe chiedersi se nell’attuale sistema internazionale ci sia una vera e immediata alternativa alla reazione di autodifesa.
In definitiva siamo di fronte a un meccanismo perverso, la cui perversità è aggravata dalla nuova forma che ha assunto la guerra, il terrorismo con i suoi strumenti pressoché incontrollabili, che probabilmente finirà per mettere in crisi i Movimenti pacifisti stessi, nella misura in cui si radicherà sempre più una paura diffusa e una crescente richiesta di sicurezza per ottenere la quale saranno ritenute inevitabili, o addirittura invocate, prove di forza.
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Siamo dunque di fronte a un problema insolubile? Oppure c’è una prospettiva che ci permetta di comprendere e affrontare il fenomeno della guerra per preparare le condizioni della sua definitiva abolizione?
Certamente non basta denunciare la guerra e fare appello alla buona volontà degli uomini. Buona parte del Movimento pacifista ha assunto costantemente questo atteggiamento, ma esso «è forse più pericoloso di quello dell’incallito realista, che si preoccupa soltanto di evitare la guerra se può, e di vincerla se non può» (Lord Lothian, Il pacifismo non basta, Bologna, Il Mulino, 1986, p. 19). E’ più pericoloso perché dà spazio all’illusione che la sfera della guerra sia al di fuori di quella della politica — e quindi del potere — e fa affidamento su una forma di volontarismo che, in quanto tale, esclude la possibilità di un controllo razionale dei fatti e dei fenomeni socio-politici.
Non è volontarismo, invece, affermare la necessità di sottoporre alle scelte, e quindi anche alla volontà degli uomini, la sfera dei rapporti internazionali. «…La finalità della pace, che comporta il proposito di controllare nell’interesse generale la politica di tutti gli Stati e non solo quella del proprio, fa della politica internazionale un oggetto autonomo della volontà umana. In ogni altro caso, limitandosi ciascuno al proposito di controllare direttamente solo la politica del proprio Stato, la politica internazionale dipende soprattutto dall’andamento del cozzo fra gli Stati, cioè da un fattore che trascende la volontà di tutti» … «Solo la teoria del governo supernazionale, ossia la conoscenza del fatto che si possono controllare i rapporti fra gli Stati, e del modo con il quale si può far cessare il loro cozzo, configura le relazioni internazionali come un processo fatto dagli uomini e sottoposto alle scelte degli uomini, e quindi anche come un’attività la cui causa è compiutamente nota e perfettamente spiegabile senza far ricorso agli abissi insondabili dell’animo umano e alle teorie che pretendono di spiegarli. In ogni altro caso, invece, il cozzo fra gli Stati appare fatale e la politica internazionale — con i suoi tratti caratteristici della guerra, della prova di forza e della distribuzione ineguale del potere nel mondo — si configura per un verso come la conseguenza di una disposizione umana immodificabile che sfuggirebbe al nostro controllo e alla nostra coscienza, e per l’altro come un dominio nel quale si potrebbe solo conoscere storicamente ciò che è accaduto e adattare a ciò la condotta umana, ma non progettare ciò che è bene che accada» (Mario Albertini, Il federalismo, Bologna, Il Mulino, 1993, p. 144).
Dunque, l’affermazione della pace va di pari passo con la creazione di vincoli a cui la volontà umana non possa sottrarsi, basati sull’instaurazione di rapporti giuridici tra gli Stati. Si tratta cioè di trasformare progressivamente aree di guerra potenziale in aree di pace interna attraverso l’allargamento della dimensione degli Stati con l’unico strumento istituzionale che permette questo allargamento senza l’uso delle guerre di conquista e attraverso procedure democratiche: lo Stato federale.
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Questa risposta al problema della pace è nello stesso tempo la risposta al problema della giustizia. Questo valore, dopo che si è affermato storicamente con gli strumenti della guerra, ha potuto realizzarsi progressivamente (anche se in modo ancora incompiuto) all’interno degli Stati quando si è consolidata la sfera della statualità e sono stati introdotti meccanismi decisionali e di governo in grado di recepire e rispondere alle esigenze e ai bisogni che hanno fatto emergere il valore della giustizia.
A livello internazionale, in assenza di un unico quadro statuale, e quindi di meccanismi decisionali e di governo che permettano di affrontare pacificamente e democraticamente le disuguaglianze, non si è ancora entrati nella fase della «realizzazione», e la giustizia sottostà alle ferree leggi del mondo della guerra. In questo mondo è impossibile superare il dilemma del pacifismo, mentre esso è destinato a trovare soluzione se ci si avvia verso la democrazia internazionale, attraverso l’unificazione federale di vaste aree regionali, fino all’unificazione mondiale. Lo slogan dei pacifisti va dunque capovolto: «Non c’è giustizia senza pace», perché solo la pace crea i presupposti, materiali e di potere, per realizzare la giustizia senza gli strumenti della violenza.
La necessità di lanciare grandi piani di sviluppo delle aree arretrate, che è sempre più legata all’esigenza di sicurezza a livello mondiale, non può dunque essere disgiunta dalla necessità di creare aree di stabilità pacificate. Una politica responsabile dei paesi avanzati a favore della giustizia internazionale non può cioè limitarsi al trasferimento di risorse e investimenti, ma deve prioritariamente porre le premesse per la pace promuovendo un percorso parallelo di unificazione in quelle aree del mondo che, lasciate a sé stesse sia economicamente sia politicamente, continuerebbero a creare instabilità e ad essere focolai di guerra e terrorismo.
Una simile politica può essere tacciata di «imperialismo», sia pure in un senso più benevolo di quello del passato perché non userebbe mezzi violenti. In realtà, in un mondo che è una comunità di destino, ma non ancora una comunità politica unica e democraticamente gestita, tale politica corrisponde ad una assunzione di responsabilità. L’alternativa, cioè l’accettazione della frammentazione di vaste aree in Stati sovrani di piccole e medie dimensioni, perpetuerebbe «il mondo della guerra», in cui l’assunzione di responsabilità finirebbe col coincidere con l’uso della violenza come risposta alla violenza.
Il grande esempio che potrà dare una Europa unita, con la sua decadenza prima e la sua rinascita dopo la seconda guerra mondiale, è proprio questo. Gli aiuti americani e il parallelo sviluppo del processo di unificazione hanno permesso la pacificazione fra gli Stati nazionali europei e la loro rinascita economica. Se sarà creata la Federazione europea essa potrà acquisire l’indipendenza necessaria ad assumere a sua volta le proprie responsabilità verso il resto del mondo. Potrà fare ciò in un mondo ancora diviso, e dovrà dunque sottostare ancora ai principi della ragion di Stato che avrà superato al suo interno. Ma la sua storia, il suo dramma, che è anche il dramma del mondo, peserà certamente sulle sue scelte, così come la sua «identità politico-culturale, ormai elevata sino al livello della cultura politica dell’unità del genere umano» (Mario Albertini, «L’identità europea», in Il federalismo, Bologna, Il Mulino, 1993, p. 290) inciderà sulle sorti del mondo intero.
Nicoletta Mosconi