Anno XLIII, 2001, Numero 2, Pagina 130
IL PROCESSO DI DOLLARIZZAZIONE IN AMERICA LATINA E LA CRISI DEL MERCOSUR
Il crollo delle borse a metà degli anni ‘80, che in America latina colpì in particolare Messico, Brasile e Argentina, sembrava un triste ricordo, ma i recenti avvenimenti che stanno sconvolgendo i paesi del Rio de la Plata dimostrano invece come i problemi strutturali che favoriscono la comparsa di fenomeni destabilizzanti sul piano finanziario e politico sono più che mai vivi.
Nel biennio ‘90-‘91 vennero intraprese iniziative significative per affrontare i rischi di insolvenza dei due colossi sudamericani (Argentina e Brasile): il vincolo monetario con gli USA e una maggiore integrazione economica tra i due paesi. Nel 1991 il Presidente argentino Menem introdusse nel proprio paese la parità fissa peso-dollaro USA (ley de convertibilidad) su suggerimento dell’allora Ministro dell’economia Domingo Cavallo (che dalla primavera del 2001 è stato richiamato urgentemente al governo con un ampio mandato per risanare le finanze dell’Argentina); in seguito, su iniziativa congiunta di Argentina e Brasile, prese vita il Mercato comune dell’area (Mercosur), cui aderirono subito Uruguay e Paraguay.
Dieci anni dopo la nascita del Mercosur e l’introduzione della ley de convertibilidad i progetti che a suo tempo avevano dato speranza e stabilità alla regione sono entrati in una crisi che appare irreversibile: Argentina e Brasile contestano le reciproche scelte in campo finanziario; si assiste ad una fuga di capitali dalla regione; vengono innalzate di nuovo barriere doganali; l’inflazione è galoppante; si acuiscono gli scontri sociali e gli scioperi generali si moltiplicano.
Non è facile seguire il succedersi degli avvenimenti interni e scontri politici tra gli stessi paesi fondatori del Mercosur. E’ quindi opportuno soffermarsi sugli aspetti di fondo della crisi del processo di integrazione che ha colpito così gravemente l’area, non dimenticando che, in modo meno drammatico, è in crisi anche il processo di integrazione dei paesi del Mercato comune centroamericano e della Comunità Andina.[1]
La crisi del Mercosur assume contorni drammatici perché coinvolge i due paesi più grandi ed importanti del continente americano dopo gli Stati Uniti che, in modo diretto ed indiretto, stanno esercitando tutta la propria influenza con ripercussioni politiche che potrebbero coinvolgere il mondo intero.
Il quadro di riferimento.
La democrazia in Argentina e Paraguay (l’elenco potrebbe essere molto più lungo) è una conquista recente. Questi paesi hanno l’esigenza da una parte di consolidare al proprio interno la pace sociale e lo sviluppo,[2] e dall’altra di svolgere un proprio ruolo nel panorama più generale della politica internazionale. Senza dubbio l’esperienza dell’Unione europea, la quale ha favorito la pace e lo sviluppo in un’area che per secoli aveva conosciuto gli orrori della guerra, è stata un esempio per molti paesi latino-americani. Non è un caso che in documenti ufficiali e non della Comunità Andina e del Mercosur sia spesso presente il richiamo al processo di integrazione europea come ad un modello da seguire.[3] Eppure le realtà regionali latino-americane che tentano di imitarne il percorso stentano a decollare e anzi tendono a sfaldarsi.
In più occasioni i leaders politici del subcontinente hanno dichiarato l’intenzione di perseguire ogni azione necessaria a sostenere l’integrazione politica a livello regionale e continentale,[4] ma nello stesso tempo hanno continuato ad attuare, in molte occasioni, politiche protezionistiche nei confronti dei paesi vicini. L’esempio più eclatante è la guerra economica tra Argentina e Brasile nella primavera-estate del 2001, quando il Brasile ha bloccato le importazioni di grano e petrolio dall’Argentina a seguito dell’introduzione da parte del governo di Buenos Aires di nuove tariffe doganali sulle importazioni di beni elettronici e meccanici. La scelta del Brasile è ancora più drammatica alla luce della grave crisi energetica che ha portato al razionamento, in tutto il paese, dell’energia elettrica. In risposta a queste decisioni il governo del Paraguay ha proposto un aumento del 5% dei dazi per i beni importati dall’area Mercosur e altrettanto ha fatto il governo dell’Uruguay introducendo un aumento del 3% sugli stessi beni.[5]
In America latina si stanno quindi manifestando gli effetti di politiche contraddittorie che cercano di far convivere lo spirito nazionalista con la volontà di perseguire la visione di un continente che marcia verso la propria unità, come indicato dai padri dell’indipendenza sudamericana.[6]
Il risultato è che i timidi tentativi di integrazione regionale vengono frustrati dalle periodiche crisi finanziarie che, su economie estremamente fragili, hanno effetti devastanti. Nonostante le ingenti risorse del territorio, il continente latino-americano stenta ad uscire dalla propria atavica povertà, il potere resta limitato a ristrette cerchie oligarchiche nazionali e non riesce a nascere e svilupparsi una vera e propria politica continentale.
Non è questa la sede per approfondire le ragioni di tali contraddizioni: ci limitiamo qui a constatarle, rimarcando tuttavia il fatto che, ogniqualvolta in America latina si sono manifestati tentativi di integrazione e di sviluppo autonomo, questi sono stati ostacolati dagli USA.[7] Nel passato anche recente, gli USA non hanno esitato a far cadere o a bloccare sul nascere governi troppo apertamente favorevoli ad un maggior grado di autonomia politica,[8] anche se nel corso di questi ultimi anni, sia per un diverso atteggiamento della pubblica opinione statunitense, sia per il mutato contesto internazionale, la politica degli USA nel continente ha assunto un profilo molto più duttile e meno spregiudicato ed ha affidato alla finanza e alla politica monetaria il compito di imporre la propria politica di potenza e di affermare la propria leadership.
Senza dubbio l’esperienza della dollarizzazione di Panamà avvenuta nel lontano 1904 ha fornito agli USA un esempio a cui ispirarsi. Il piccolo paese centroamericano, che aveva ed ha come unica fonte di entrate il traffico nel canale che regola il flusso del naviglio tra l’oceano Atlantico e quello Pacifico, sin dalla propria indipendenza (1903) adottò il dollaro come valuta nazionale, dando nel contempo in concessione agli USA il canale stesso.[9] Questa iniziativa, che all’apparenza poteva apparire scontata o di poco conto, viste le dimensioni e l’economia del piccolo paese, ha invece assunto, nel corso di quest’ultimo decennio, un grande significato sul piano politico, diventando un esempio per molti paesi latino-americani alla disperata ricerca di un modello di riferimento finanziario che garantisse stabilità alle proprie valute e ponesse un freno all’inflazione.
Negli anni ‘80, in particolare in Cile e in Argentina, si aprì così un grande dibattito su come risanare e rivitalizzare le rispettive finanze ormai esauste. In questi paesi, uno isolato sul piano internazionale a causa della ferocia del suo regime dittatoriale e l’altro ancora poco affidabile per una forte instabilità interna, gli economisti della scuola di Chicago riuscirono ad imporre i propri modelli di ispirazione iperliberista. Come già ricordato, Domingo Cavallo, formatosi alla scuola di pensiero statunitense, in qualità di Ministro dell’economia propose l’introduzione nel proprio paese della parità fissa peso-dollaro. Fu grazie a questo meccanismo finanziario e alla libera circolazione della valuta USA che l’Argentina conobbe un periodo di stabilità finanziaria che fece gridare al miracolo economico. In realtà il vincolo valutario con gli USA si dimostrò in breve un cappio al collo della già fragile economia argentina. Senza alcuna riforma strutturale e senza un controllo della spesa pubblica, l’economia Argentina ha conosciuto in questi ultimi anni un lento quanto inesorabile declino. La rivalutazione del dollaro ha portato al crollo delle esportazioni argentine e si è così giunti ad una recessione che dura ormai da cinque anni, con un debito pubblico in costante ascesa e con un tasso di disoccupazione giunto a quasi il 20%.
Nonostante il fallimento della dollarizzazione in Argentina, altri paesi con forte instabilità finanziaria, con un alto tasso di inflazione e a rischio di insolvenza verso il Fondo monetario internazionale — l’Ecuador nel maggio 2000, il Guatemala e El Salvador nel dicembre dello stesso anno[10] — hanno scelto la stessa strada che, nel breve periodo, sembra dare maggiori garanzie e risulta di facile applicazione.
E’ opportuno segnalare che in questi paesi vi è la piena coscienza del fatto che le nazioni che optano per la dollarizzazione perdono la propria sovranità monetaria.[11] Questo però appare un problema secondario a fronte dei presunti vantaggi che nel breve si riescono a conseguire. La questione di fondo, infatti, è che in America latina manca un progetto politico che dia prospettive di stabilità, non solo finanziaria, ma anche economica e sociale.
Nonostante vi siano state in passato dichiarazioni del Segretario del Tesoro statunitense contrarie alla dollarizzazione dei paesi latino-americani,[12] nella sostanza queste scelte vengono incoraggiate, come dimostra ad esempio il compiacimento espresso dal Presidente Clinton per la scelta dell’Ecuador a favore del dollaro.[13]
Questa strategia trova conferma nel progetto ALCA e in un documento denominato I fondamenti della dollarizzazione, curato nel luglio 1999 dal senatore Connie Mack, Presidente del Comitato per gli Affari economici del Congresso.
Per quanto riguarda il progetto legato all’ALCA,[14] Area di libero commercio delle Americhe, esso venne lanciato nel corso della presidenza Bush ed è stato ripreso con grande enfasi dall’attuale Presidente Bush a pochi mesi dal suo insediamento. I principali sostenitori del progetto sono gli USA, che prevedono di creare entro il 2005 un grande mercato libero da vincoli doganali. Si tratterebbe di un libero accordo tra tutti i paesi del continente (solo Cuba non vi parteciperebbe), senza vincoli di tipo politico ed istituzionale. Nel corso dell’ultima riunione dei paesi del continente, svoltasi in Canada nell’aprile 2001, si è affidato genericamente all’Organizzazione degli Stati Americani — che è un organo di nomina governativa dei singoli paesi membri senza alcun mandato politico ed istituzionale — il compito di «difendere la democrazia nel continente con l’obiettivo di rafforzare e modernizzare le strutture degli Stati membri».[15] Appare evidente che il paese con maggior ascendente politico e maggiori risorse economiche giocherà un ruolo di leader e non a caso il Brasile e il Venezuela hanno accolto con molte riserve il progetto statunitense. Questi due paesi sono considerati come i meno propensi a sostenere qualsiasi progetto caldeggiato dagli USA, e in particolare, in un’ottica prettamente nazionalista, ritengono che l’ALCA li porterebbe ad una definitiva sudditanza non solo economica ma anche politica rispetto alla potenza nordamericana.[16]
Questi sospetti trovano fondamento nel fatto che gli Stati Uniti, mentre in occasione dei vertici continentali sostengono l’ALCA enfatizzando la prospettiva di creare un libero mercato di 800 milioni di abitanti, continuano a coltivare accordi bilaterali. In questo modo aggirano sistematicamente le regole (tariffe doganali speciali, import-export di particolari beni, prestiti agevolati, sostegno a livello di FMI) siglate da più paesi latino-americani nell’ambito di accordi a livello regionale, come per esempio il Mercosur o la Comunità Andina, ed applicano così l’antica regola del divide et impera sfruttando le leve dell’economia e della finanza.
Per quanto riguarda il Rapporto del senatore Mack, esso definisce nei dettagli la strategia che gli USA dovrebbero attuare per favorire, per un proprio vantaggio politico, l’estensione della dollarizzazione su più ampia scala. Va osservato che questo Rapporto non è mai stato fatto proprio, con un voto, dal Congresso degli Stati Uniti, ma non è mai stato smentito e, anzi, è stata favorita la sua diffusione in tutta l’America latina. Lo prova il fatto che interi passi e capitoli di esso sono stati utilizzati da economisti e ministri per sostenere, nei rispettivi paesi, l’avvio della dollarizzazione.[17]
Il Rapporto meriterebbe un approfondimento a sé stante, ma ci limitiamo qui a richiamarne due punti. Nel capitolo 6 («Quali sono candidati alla dollarizzazione ufficiale?»), oltre ad auspicare la possibilità che l’intero continente americano opti, paese per paese, per la dollarizzazione, compare una frase estremamente significativa: «La sovranità nazionale sta perdendo il suo antico status di intangibilità come base per la definizione di una politica monetaria». Questa affermazione viene oggi utilizzata da economisti e ministri economici latino-americani per sostenere che la perdita della propria sovranità monetaria è un fatto secondario rispetto ai vantaggi che se ne ricavano in termini di stabilità e credibilità finanziaria. Ciò che non si comprende è che la rinuncia alla sovranità monetaria a favore di una moneta di un altro paese, che per di più è la maggiore potenza mondiale, significa la rinuncia tout court alla propria sovranità non solo monetaria, ma anche politica.
In Argentina il Presidente della Banca Centrale, Pau, è stato addirittura allontanato brutalmente per aver espresso dubbi sia riguardo ai progetti formulati dal super-Ministro dell’economia, che sono l’espressione di un affievolimento dei rapporti con il Mercosur a favore di una più stretta collaborazione con gli USA, sia riguardo alla dollarizzazione dell’Argentina.[18]
L’altro punto interessante del Rapporto, ai fini della nostra analisi, si trova nel capitolo 4 («Costi e benefici della dollarizzazione per gli Stati Uniti»): «Con l’aumento del numero dei paesi che utilizzano il dollaro, la dollarizzazione ufficiale contribuirà a preservare il dollaro come prima moneta internazionale, una posizione che l’euro sta intaccando». Questo significa che la dollarizzazione viene considerata a tutti gli effetti come una strategia atta a salvaguardare e rafforzare la politica statunitense non solo nel continente americano, bensì su scala mondiale. La dollarizzazione del continente americano va quindi vista anche alla luce dell’introduzione dell’euro in Europa.
Bisogna comunque sottolineare il fatto che gli USA esercitano legittimamente, dal proprio punto di vista, una politica che li rafforza e che garantisce loro il ruolo di potenza mondiale. E’ l’assenza di prospettive diverse, non solo nel continente americano, a favorire la politica di potenza degli USA. Certamente l’assenza di un ruolo politico internazionale da parte dell’Unione europea aggrava la situazione e ci offre degli elementi per meglio comprendere la crisi che ha colpito il Mercosur.
La crisi del Mercosur.
Sono già stati richiamati alcuni aspetti della crisi del Mercosur che, in breve, possono essere sintetizzati nelle tensioni nei rapporti tra Argentina e Brasile. Non vi è dubbio che senza una intesa tra questi due paesi ogni processo regionale nell’area è destinato a naufragare. L’avvicinamento politico tra Washington e Buenos Aires e il contemporaneo raffreddamento nei rapporti tra Brasilia e Washington sono un altro segnale dell’aggravarsi della situazione. Il sostegno dato dagli USA alla dollarizzazione dell’Argentina e alla politica restrittiva voluta dal super-Ministro dell’economia Cavallo, hanno ulteriormente alimentato i contrasti tra il governo argentino e quello brasiliano. Dobbiamo ricordare che la moneta brasiliana ha subito in questi ultimi tre anni una svalutazione nei confronti del dollaro che solo nel 2001 è stata del 20%, danneggiando inesorabilmente le esportazioni, in dollari, della vicina Argentina.
La mancanza di un coordinamento politico e monetario rende dunque estremamente fragili le istituzioni del Mercosur. In caso di necessità, infatti, ogni governo dell’area risponde con le armi tradizionali della svalutazione o dell’innalzamento delle barriere doganali. Solo a posteriori i governi cercano un aggiustamento politico al fine di mantenere in vita accordi che in ogni caso hanno favorito e potrebbero ulteriormente favorire non solo gli scambi commerciali, ma anche una certa stabilità politica. La domanda che ci si deve porre è però se ciò sia sufficiente o se invece non sia necessario quel salto qualitativo che garantirebbe una vera stabilità economica e politica all’area: una unificazione politica e monetaria regionale.
Nel 1997, la Banca nazionale per lo sviluppo economico del Brasile aveva realizzato uno studio che prevedeva la nascita di una moneta unica nell’area del Mercosur per l’anno 2012,[19] ma le reazioni a questo progetto non sono state incoraggianti.
Il titolare della Banca Centrale del Paraguay, ad esempio, nel maggio 2000 dichiarava che la moneta unica del Mercosur «non è una necessità perentoria».[20] A sua volta, nel settembre 2000, Daniel Vaz, della Banca Centrale dell’Uruguay, dichiarava — in perfetta sintonia con il Ministro dell’economia argentino[21] — che «la moneta unica che il Mercosur va cercando c’è già ed è il dollaro».[22] Più recentemente il Presidente del Paraguay si è dichiarato scettico circa l’idea di una moneta unica, mentre il Presidente dell’Uruguay si è detto genericamente disposto a valutare l’idea di un serpente monetario sull’esempio della passata esperienza europea,[23] sostenendo nel contempo che la politica del Ministro argentino Cavallo deve essere un esempio per tutti.
Ad accrescere le tensioni è poi intervenuta la decisione dell’Argentina di costituire un paniere di monete di riferimento per il peso costituito da dollaro ed euro (ma questo solo il giorno in cui l’euro varrà quanto un dollaro, mentre nel frattempo viene riconfermata la parità dollaro-peso). In attesa di ciò (la previsione di Cavallo è per il 2003) si è introdotto, tramite il Plan de competitividad un regime cambiario misto, che ha visto l’introduzione da subito del paniere dollaro-euro nella speranza di dare respiro all’economia argentina delle esportazioni. Infatti, grazie all’introduzione del cambio misto, per ogni dollaro di merce argentina esportata gli industriali ricevono un rimborso dallo Stato pari a 8 centesimi di dollaro.[24] Di fatto si tratta di una svalutazione non dichiarata nei confronti del dollaro dell’8% nonostante i sotterfugi dialettici del governo argentino. Le stesse dichiarazioni del Ministro Cavallo a favore di un paniere di monete in cui rientra l’euro debbono essere viste come un disperato tentativo per trovare un sostegno alla propria politica economica all’interno e, verso l’esterno, per attirare investitori europei disposti ad esportare di nuovo capitali in Argentina. I principali sostenitori del piano argentino sono ancora una volta Stati Uniti poiché viene comunque confermato il legame al dollaro (il paniere nel breve periodo di fatto non esiste all’interno dell’Argentina). Essi inoltre vedono con favore una piccola svalutazione del peso-dollaro nel commercio estero che è rivolto in particolare verso il Brasile e l’Europa.
La situazione dell’Argentina è comunque destinata a restare incerta anche nel prossimo futuro, specie dopo la decisione di una decurtazione del 13% degli stipendi e delle pensioni decisi nell’estate del 2001[25] e la conseguente crescita delle tensioni interne.
Alla luce di questi eventi, spesso drammatici sul piano politico e sociale, appare evidente che i nodi della crisi non sono stati affrontati.
Non esistono, né per l’Argentina, né per qualsiasi altro paese latino-americano o del mondo, scelte risolutive di tipo nazionale. La crisi del Mercosur è la conseguenza dell’eclissi del progetto di integrazione regionale. Non sono sufficienti generici accordi per garantire, nel tempo, stabilità economica e politica a quei paesi che partecipano ad un processo di integrazione: viene il momento in cui i nodi politici ed economici debbono trovare uno sbocco istituzionale continentale (o subcontinentale).
Contro l’evidente influenza politica esercitata dagli USA, sarebbe quanto mai necessaria una risposta congiunta argentino-brasiliana. Le due potenze sudamericane dovrebbero difendere la propria autonomia dichiarando di lavorare per la creazione di una propria moneta regionale che fungerebbe da punto di riferimento per altri paesi del continente. Questa scelta garantirebbe non solo un’autonomia oggi impossibile sul piano monetario alla luce del vincolo dollaro-peso, ma anche una autonomia politica altrimenti inimmaginabile. Sarebbe inoltre uno straordinario segnale verso un continente che sta lentamente rinunciando alla propria sovranità monetaria, primo passo verso la definitiva perdita di sovranità politica se e quando, insieme alla dollarizzazione, si concretizzerà il progetto legato all’ALCA. E’ comunque evidente che l’inversione di tendenza può realizzarsi solo se si manifesta una decisa volontà argentino-brasiliana di perseguire un progetto di unione politica.
Alcune considerazioni finali.
Questo quadro generale induce ad alcune riflessioni che toccano direttamente l’analisi e l’azione federalista.
Innanzitutto la crisi del Mercosur mette in luce ancora una volta come i progetti di integrazione, per essere avviati e per svilupparsi, necessitano di una leadership regionale. Così come in Europa il motore del processo di integrazione è stato garantito dall’azione congiunta e coordinata di Francia e Germania, nella regione del Rio de la Plata un tale processo deve basarsi sulla ripresa del dialogo tra Argentina e Brasile. Nel caso di tensioni nei rapporti tra i paesi-guida, il rischio, come sta avvenendo, è che la situazione precipiti, con conseguenze che non solo mettono in gioco il progetto d’integrazione, ma anche lo sviluppo sociale ed economico dei singoli paesi della regione. D’altronde, quando si manifestano queste crisi regionali, è inevitabile, per una superpotenza, cercare di «orientare» le crisi stesse, al fine di meglio esercitare la propria leadership.
Di fronte a questa situazione sono evidenti le responsabilità dell’Unione europea. Se da una parte gli USA, la sola vera potenza mondiale, conducono una politica che tende a dividere i paesi che cercano di esercitare una propria politica a livello regionale, resta il fatto che oggi, a livello internazionale, non esiste un valido modello di integrazione alternativo. Se in Europa si concretizzasse il progetto di un governo federale dell’Unione, si darebbe anche una effettiva visibilità al fatto che è possibile dare concretezza politica a progetti regionali che nascono all’inizio per favorire lo sviluppo economico. E’ questo l’esempio che oggi manca a quei paesi che cercano di realizzare dei progetti di integrazione regionale.
Un’ultima considerazione riguarda le possibili conseguenze della nascita dell’euro come seconda moneta forte a livello mondiale. La dollarizzazione del continente americano può preludere in futuro alla possibilità che alcuni paesi in via di sviluppo facciano la scelta di rinunciare alla propria sovranità monetaria a favore dell’euro. La domanda da porsi, però, è se questo modello è quello idoneo a favorire lo sviluppo dei paesi che optano per questa scelta. E’ giusto che un paese che non è parte integrante di una unione politica, quella degli USA o un domani degli Stati Uniti d’Europa, scelga di rinunciare alla propria sovranità monetaria? In realtà l’unica scelta veramente evolutiva sarebbe la creazione di federazioni regionali autonome, dotate di una propria moneta, in grado di promuovere lo sviluppo e la pacificazione interna e di opporsi a ogni forma di egemonia a favore di un ordine mondiale più equilibrato.
Stefano Spoltore
[1] Fanno parte del Mercato comune centroamericano (siglato nel 1986 come Grupo de Contadora): CostaRica, Guatemala, El Salvador, Nicaragua e Honduras. I paesi membri della Comunità Andina (creata nel 1969) sono: Bolivia, Colombia, Ecuador, Perù e Venezuela.
[2] In Cile e Argentina sono in corso, tra mille polemiche, i processi a carico di politici e militari accusati di gravi reati commessi durante le dittature militari. Nel mese di maggio del 2000, a testimonianza della fragilità della democrazia nella regione, vi fu un di colpo di stato in Paraguay miseramente fallito, grazie al concorde atteggiamento di condanna da parte degli altri paesi del Mercosur. Si veda Diario Noticias.com.py, Asunción, 29 giugno 2000.
[3] Si veda ad esempio l’accordo di Ouro Preto e i relativi protocolli (dicembre 1994).
[4] Si veda, di recente, Gestión.com.pe, Lima, 14 settembre 2000.
[5] DiarioNoticias.com.py, Asunción, 28 giugno 2001; Clarin.com, Buenos Aires, 10 luglio 2001 e LaHora.com.ec, Quito, 24 luglio 2001.
[6] Si veda Stefano Spoltore, «Il progetto politico di Simón Bolívar fra centralismo e federalismo», in Il Politico, Pavia, 1983, n. 3.
[7] Un utile testo di riferimento per chi volesse approfondire questi temi è: R. Campa, Il potere politico in America latina, Milano, Comunità, 1968.
[8] La sola eccezione, in quasi due secoli di storia dalla Dichiarazione della Dottrina Monroe del 1823 (il «manifesto» della politica estera USA in America latina) è Cuba, anche se la domanda oggi è per quanto tempo questa «anomalia» potrà durare.
[9] E’ opportuno ricordare che l’indipendenza venne conseguita grazie ad una rivolta, sostenuta dagli USA, contro la Colombia di cui all’epoca Panamà faceva parte integrante. Con l’indipendenza di Panamà gli USA ottennero l’uso del canale e la sovranità su una fascia di 8 km sulle due sponde, sino al 1999. Nel 1995, con un referendum, il 75% della popolazione si pronunciò a favore del mantenimento delle basi USA nel paese.
[11] LaHora.com.ec, Quito, 25 e 28 maggio 2001. Negli articoli si riportano i risultati di un seminario svoltosi a Bogotà a cura della Associazione Nazionale degli Istituti Finanziari (ANFI) sul tema «Moneta unica in America latina o sovranità monetaria».
[13] LaHora.com.ec, Quito, 11 settembre 2000. Questa dichiarazione avvenne a poche settimane dall’addio alla Casa Bianca di Clinton.
[14] La sigla nei documenti in inglese è FTAA.
[17] LaHora.com.ec, Quito, 11 settembre 2000. Nel sito Internet del principale quotidiano ecuadoregno una intera sezione, per oltre un mese, è stata dedicata alla voce Dolarización.
[23] America del Sur El Pais, Montevideo, giugno 2001, n. 2. Nello stesso numero il premio Nobel 1999 per l’economia, il canadese Robert Mundel, si è dichiarato scettico, dal momento che, a suo parere, la moneta unica regionale non potrà essere che il dollaro. Egli ha inoltre affermato che il prossimo paese candidato alla dollarizzazione è il Paraguay ed è curioso osservare come a distanza di pochi giorni un consulente della Banca Centrale del Paraguay dichiarava normale e scontato, a fronte della crisi regionale, che il popolo paraguagio corresse ad acquistare dollari come bene rifugio. Si veda DiarioNoticias. com.py, Asunción, 17 luglio 2001.