Anno XLIII, 2001, Numero 2, Pagina 126
DALL’EUROPEISMO AL FEDERALISMO
I federalisti, soprattutto a partire dalla fase del gradualismo costituzionale, hanno sempre fatto leva sull’europeismo diffuso, e in particolare sull’europeismo dei governi, per far compiere dei passi avanti al processo di unificazione europea. Gli obiettivi parziali che sono stati posti sul tappeto, una volta raggiunti, avrebbero dovuto scatenare le contraddizioni per risolvere le quali si sarebbe affacciata la soluzione unitaria. Ognuno di questi obiettivi era dunque visto dai federalisti non tanto come la risposta possibile, e accettabile dai governi, ad un problema di «governabilità», ma come lo strumento su cui far leva per porre sul tappeto il problema del «governo», ossia della creazione dello Stato federale. Tutto ciò nella consapevolezza che, se le contraddizioni non fossero state risolte con il salto federale, l’«unità di fatto» dell’Europa, ossia il quadro della necessaria collaborazione che è il fondamento del persistere dell’atteggiamento europeista, avrebbe mantenuto aperto il processo, presentando prima o poi un ulteriore obiettivo potenzialmente costituzionale.
Oggi non è più così: o l’europeismo si trasforma in federalismo, ossia nell’identificazione e nel perseguimento dell’obiettivo ultimo, lo Stato federale europeo, oppure, come di fatto sta avvenendo, dietro generiche affermazioni europeistiche emerge il nazionalismo.
E’ certamente vero che, perdutasi la tensione iniziale verso la Federazione europea dopo il fallimento della CED, la difesa dell’interesse nazionale è diventato il sottofondo costante della politica degli Stati europei nel corso di tutto il processo di integrazione e che ciò che ha spinto gli Stati a collaborare altro non è stato che il tentativo di mantenere in vita il quadro nazionale laddove l’aumento dell’interdipendenza rendeva sempre più difficile garantire lo sviluppo economico-sociale e la sicurezza in un ambito ormai troppo ristretto. Questo meccanismo ha dato vita a un processo dialettico, che conteneva in sé, in quanto tale, sia un elemento propulsore sia un elemento frenante rispetto all’avanzamento verso l’unità.
Ma nel momento in cui è in gioco non tanto un avanzamento ma lo sbocco definitivo di questo processo, la difesa del quadro nazionale assume la cruda connotazione di un nazionalismo in cui acquista forza l’elemento ideologico della difesa a oltranza dei poteri esistenti, e in definitiva, a livello dei capi di governo, del proprio potere. Se cioè la costruzione dell’unità europea rimane nell’alveo dell’europeismo, nella scala dei valori di gruppo prevale il valore nazionale, come abbiamo constatato al Vertice di Nizza dello scorso dicembre, e come dimostrano parte degli interventi nel dibattito che si è acceso dopo Nizza. Esso è certamente condizionato dalla situazione di fatto in cui si trova l’Europa: la moneta unica e l’allargamento ormai deciso hanno mutato i termini della situazione europea, e i governi non possono ignorare ciò. Per questo il nodo delle riforme istituzionali sta diventando oggetto di riflessione e spinge i governi e la classe politica a pronunciarsi. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, essi propongono formule istituzionali apparentemente innovative ma sostanzialmente miranti alla conservazione nazionale.
Non si può dire fin da ora se vinceranno le posizioni dei tiepidi europeisti, che avvieranno l’Unione verso un probabile dissolvimento, oppure se vinceranno le posizioni di coloro che propongono il modello federale. Il compito dei federalisti è comunque quello di smascherare le false soluzioni, di indicare quelle giuste (e il modo per realizzarle) e, come sempre, di coagulare attorno a queste il consenso e il di tutti coloro che incominciano a rendersi conto dell’impasse in cui si trova l’Europa.
Per smascherare le false soluzioni non bisogna lasciarsi ingannare dalle parole usate dai politici, parole che spesso, in maniera più o meno automistificata, nascondono significati totalmente diversi a seconda del contesto e a seconda delle intenzioni di chi le pronuncia. I termini «costituzione» e «federazione» sono ormai sulla bocca di molti uomini politici e di governo, ma il significato ad essi attribuito è diverso per coloro che pensano alla prospettiva della creazione di uno Stato federale e per coloro che vogliono mantenere il quadro confederale.
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Le contraddizioni entro cui rimangono prigionieri i difensori del quadro confederale sono molte ed evidenti. Ad esempio, Pierre Moscovici, Ministro francese per gli affari europei, alle proposte di riforma federale delle istituzioni europee formulate dal Cancelliere Schröder ha reagito (10 maggio 2001) formulando degli interrogativi relativi all’«equilibrio tra l’integrazione europea e la cooperazione intergovernativa» e al ruolo che deve rimanere ai governi nazionali. E non ha avuto dubbi sulla risposta: l’integrazione europea deve fare passi avanti, ma nello stesso tempo va rispettato il ruolo dei governi, e, a tal fine, il Consiglio dei Ministri non può diventare la Seconda Camera di un Parlamento europeo. Egli si pone poi giustamente il problema della legittimità delle istituzioni europee, ossia il problema della statualità europea democratica, ma nega nello stesso tempo la sua rilevanza laddove difende il ruolo e l’indipendenza dei governi nazionali, che considera l’unica espressione legittima dei popoli europei. Quando prevede che l’Europa diventerà una «federazione di Stati nazionali» è dunque chiaro che non dà al termine «federazione» il significato di «Stato federale», che è il solo mezzo per assicurare un potere politico democratico (e quindi legittimità) a una unione di Stati.
Le stesse domande, sia pure in termini diversi, si era posto il Ministro degli Esteri francese Hubert Vedrine (in una intervista congiunta con il Ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer, Le Monde des Débats, 10 maggio 2000) sul problema della «natura e del funzionamento del potere a livello europeo». In realtà la sua risposta non è che la fotografia dell’esistente, che egli proietta anche nell’Europa del futuro. Il fatto che questa non sia pensata in termini di statualità risulta evidente laddove, a partire dall’affermazione della necessità di preservare l’equilibrio attuale fra Parlamento europeo, Commissione e Consiglio dei Ministri, prefigura «diversi gradi possibili» di «integrazione delle politiche», da quelle «completamente integrate, gestite dalla Commissione, o da una agenzia comunitaria» (e questa alternativa è già significativa) a quelle condotte attraverso le «cooperazioni rafforzate», a quelle legate alla semplice coordinazione delle politiche nazionali (che egli definisce «approccio intergovernativo modernizzato»). In tutto ciò consisterebbe «l’originalità dell’Europa». Quando dunque Vedrine si sente in dovere (come ormai fanno quasi tutti coloro che partecipano a questo dibattito) di parlare di costituzione, è certo che non dà a questo termine il significato che gli danno i federalisti — e insieme ad essi coloro che, non avendo interessi di potere da difendere, sono esenti da mistificazione.
Lo stesso Presidente della Repubblica italiano Carlo Azeglio Ciampi svuota del significato che le è proprio la parola «costituzione» quando non associa ad essa l’idea di uno Stato e afferma che non è rilevante che l’Europa evolva verso una federazione o una confederazione, purché abbia una costituzione (ISPI, 3 luglio 2001).
Nonostante queste contraddizioni e ambiguità, gli uomini di governo che partecipano attivamente al dibattito in corso sul futuro dell’Europa sono convinti di essere dei buoni europeisti. Lo stesso Jospin, nel suo discorso del 28 maggio 2001, pone sé stesso fra gli europeisti «convinti», ma, nonostante usi la parola «federazione» per definire il modello di Europa da perseguire, rimane schiavo dell’europeismo generico basato sulla cooperazione intergovernativa, che secondo lui «occupa ancora un posto importante e resterà indispensabile». La «federazione di Stati nazionali» proposta da Jospin, che è ormai la formula istituzionale condivisa da molti uomini politici, diventa così lo specchio della situazione attuale (appunto intergovernativa). Non è un caso che al termine «Europa» non sia mai associato il termine «Stato», che l’Europa futura sia definita come «un insieme», come un’entità istituzionalmente amorfa.
Di fronte al grave problema dell’allargamento e ai rischi che esso comporta per il funzionamento dell’Unione, la posizione degli uomini politici nazionali è puramente difensiva. E anche quando si propone che una avanguardia, un «gruppo pioniere» assuma qualche iniziativa per evitare la disgregazione, ciò che viene prospettato non è altro che qualche forma di cooperazione ristretta.
Alcuni capi di Stato e di governo allargano la visuale sul futuro dell’Europa al suo ruolo nel mondo (per la pace, la democrazia e l’affermazione di un modello economico-sociale più solidale rispetto a quello che si sta imponendo) e identificano valori e scopi che vanno certamente messi in vista, ma rimangono ancorati a un quadro che non permette la loro realizzazione. Il citato discorso di Jospin è molto chiaro in proposito: «Voglio un’Europa che affermi la propria identità, che dia risposte migliori alle esigenze dei suoi popoli, che diventi un esempio per il mondo. Per questo, aggiunge, il dibattito non deve indirizzarsi unicamente sulla questione delle istituzioni e della loro riforma. L’Europa, prima di essere un ‘contenitore’, è anzitutto un progetto politico, un ‘contenuto’». Essa è «un progetto di società, una visione del mondo, una costruzione politica».
Sono parole, queste, che vanno dette, perché ogni grande battaglia politica non può essere vinta se non riceve significato e forza dai valori che la fondano. Ma ogni grande battaglia politica fallisce se non sono identificati i mezzi adeguati agli scopi. E i mezzi di cui l’Europa deve fornirsi non possono derivare da aggiustamenti della situazione esistente: è necessaria la creazione di un nuovo potere democratico e sovrano a livello europeo. «La questione della sovranità», scrive François Bayrou contro i difensori della sovranità nazionale (Libération, 13 giugno 2001), «non è la questione principale in politica. Essa è la sola questione… Per esercitare la sovranità dobbiamo costruire la nostra potenza. E abbiamo di fronte una sola via, la via europea. Perché le nazioni ritrovino la loro sovranità perduta bisogna costruire la sovranità europea».
I sei paesi fondatori, che hanno avuto il merito storico di lanciare il processo di unificazione dell’Europa e di indicare fin dall’inizio quale avrebbe dovuto essere il suo esito finale, la Federazione europea, avranno anche la responsabilità del suo fallimento se non usciranno dall’impasse in cui si trovano superando un ambiguo europeismo attraverso la creazione di uno Stato federale europeo aperto all’adesione degli Stati che ad esso vorranno unirsi.
Nicoletta Mosconi