IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XLIV, 2002, Numero 1, Pagina 27

 

 

ORDINE MONDIALE
E CAMBIAMENTO CLIMATICO
 
 
Nel 1992 a Rio il vertice mondiale sulla Terra aveva fissato l’obiettivo di ridurre l’immissione nell’atmosfera dei gas ad effetto serra su scala globale ai livelli del 1990, per incominciare ad attenuare l’impatto sul clima delle attività umane. Dopo dieci anni questo obiettivo è ben lungi dall’essere raggiunto. In primo luogo perché i paesi industrializzati — Stati Uniti, paesi membri dell’Unione europea, Giappone — hanno nel frattempo continuato ad aumentare le loro emissioni di anidride carbonica, uno dei gas che maggiormente contribuisce all’effetto serra.[1] In secondo luogo perché non c’è stato alcun coinvolgimento dei paesi in via di sviluppo sul fronte della difesa del clima. Tutto ciò nonostante il protocollo di Kyoto, sottoscritto da oltre cento paesi, abbia fissato nel 1997 dei parametri di convergenza ecologica e un calendario per la stabilizzazione degli inquinanti atmosferici entro il 2012.[2] Attualmente la situazione è questa. Per quanto riguarda i paesi in via di sviluppo, la Cina (secondo inquinatore mondiale di gas ad effetto serra) e l’India non si sono impegnati ad effettuare alcuna riduzione. La Russia, che in base al protocollo potrebbe aumentare le proprie emissioni, ha messo in evidenza come il rallentamento dello sviluppo economico non è un prezzo accettabile da pagare sul piano sociale e politico per contrastare l’inquinamento. In Giappone, dove neppure il rallentamento della crescita economica è bastato a favorire il rientro nei limiti di inquinamento fissati a Kyoto, la riduzione delle emissioni si annuncia problematico. Nell’Unione europea, dove in media la riduzione richiesta delle emissioni per tutti i paesi è di circa il 5%, gli obiettivi da raggiungere sono diversi da paese a paese e non è prevista alcuna politica continentale. Gli USA infine hanno reso ancora più incerto il quadro, denunciando apertamente il fallimento del protocollo di Kyoto e proponendo un piano nazionale di riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra che ha suscitato perplessità sulla sua efficacia e dubbi sulla volontà del governo americano di continuare a cooperare a livello internazionale per ridurre i rischi del cambiamento climatico.
In definitiva né gli impegni assunti a Rio, né quelli ribaditi a Kyoto, hanno prodotto gli effetti desiderati. L’era inaugurata negli anni Ottanta da Reagan e Gorbaciov di una sempre più stretta cooperazione internazionale anche in campo ambientale, da finanziare con i dividendi della fine della guerra fredda, sembra tramontata. Perché? Quali sono le possibilità di ristabilire un quadro di cooperazione internazionale adeguato per affrontare i gravi problemi posti dai crescenti squilibri ecologici?
 
Politica e rischio climatico.
 
Le osservazioni sui cambiamenti climatici stanno mettendo in evidenza due dati. Il primo è che nessuna riduzione significativa, nemmeno della metà della quantità di anidride carbonica immessa nell’atmosfera, consentirebbe all’umanità di tornare ad un equilibrio paragonabile a quello di prima del 1850. Il secondo dato è costituito dall’incertezza dei modelli disponibili per effettuare le previsioni sui cambiamenti climatici.
1. Gli studi dei climatologi hanno stabilito che, a partire dalla metà del XIX secolo, la Terra è entrata in una nuova era calda dopo la piccola era glaciale che ne ha governato i cicli climatici per quasi cinque secoli. Come e quanto l’attività dell’uomo abbia influito e possa influire sull’evoluzione di questa nuova era non è chiaro. Resta il fatto che siamo entrati in un’era di mutamenti climatici, accelerati o accentuati dall’uomo, che sono destinati a modificare cicli produttivi, abitudini e stili di vita in molte regioni del mondo. Storicamente si tratta di situazioni che l’umanità ha già affrontato e che hanno determinato la crisi di certe attività o regioni e la fortuna di altre.[3] Infatti raramente l’umanità ha sperimentato lunghi periodi di stabilità climatica: anche nell’ambito di ere climatiche ben definite, si sono alternati decenni più o meno caldi e più o meno freddi causati da fenomeni imprevedibili (eruzioni vulcaniche, attività solare, ecc.). Ma dall’avvio dell’era industriale, l’aumento dell’anidride carbonica nell’atmosfera è stato tale da poter essere considerato, secondo gli studiosi, la principale causa dell’aumento anomalo della temperatura rispetto alle variazioni naturali. Se questo è vero, l’umanità si trova di fronte ad un difficile compito: quello di stabilire il livello accettabile al quale stabilizzare la quantità di anidride carbonica nell’atmosfera e di conseguenza di pianificare i sacrifici economici e le politiche energetiche da proporre ai cittadini dei vari paesi. Ma l’individuazione di questo livello dipende da previsioni sul futuro del clima che si devono necessariamente basare su ipotesi più di carattere politico che scientifico. Basti pensare che il margine di oscillazione dell’aumento della temperatura indicato dagli scienziati — tra 1,40 °C e 5,80 °C entro il 2100 — è il risultato di proiezioni effettuate partendo da scenari di sviluppo economico e di equilibri di potere mondiali che dipendono da quello che gli Stati decideranno di fare o non fare nel prossimo secolo.
La politica rappresenta dunque la vera variabile del futuro dell’umanità.
2. Quanti più dati vengono raccolti e quanti più studi vengono prodotti sulla storia e sull’evoluzione dei fenomeni meteorologici, tanto più incerte sembrano diventare le previsioni. E’ il caso delle recenti osservazioni fatte dai ricercatori della NASA che, sulla base dei rilevamenti satellitari degli ultimi vent’anni, hanno concluso che i modelli utilizzati attualmente per studiare il clima sono more uncertain than we had thought. Questi modelli non sono dunque soddisfacenti per formulare delle politiche di lungo periodo e la situazione non sembra destinata a cambiare nel prossimo futuro.[4] In realtà essi non sarebbero necessari per constatare i cambiamenti di clima, che possono essere registrati dai rilevamenti già disponibili e dagli indicatori storici del clima. Grazie a questi dati ed indicatori oggi, a differenza del passato, possiamo per esempio stabilire quali conseguenze avrebbe sull’agricoltura e la pesca un’oscillazione anomala e ripetuta dell’andamento delle correnti oceaniche e delle correnti d’aria nell’emisfero settentrionale. Possiamo anche ragionevolmente aspettarci che, qualora il riscaldamento del pianeta dovesse proseguire, alcune regioni settentrionali dell’Europa e dell’America ne beneficerebbero, mentre altre sarebbero danneggiate. Se poi il riscaldamento dovesse raggiungere i livelli prefigurati dalle previsioni più pessimiste, gli effetti sul clima potrebbero essere tali da mettere in serio pericolo gli stili di vita, i cicli produttivi e le abitudini alimentari addirittura di gran parte dell’umanità, con ripercussioni politiche, economiche e sociali inimmaginabili. Ma tutte queste previsioni si riferiscono ad aree troppo vaste rispetto alle dimensioni degli Stati attuali, che restano i soggetti che devono prendere le decisioni.
 
Sicurezza e politica ambientale.
 
Come è già stato accennato, il protocollo di Kyoto aveva fissato dei limiti all’inquinamento che avrebbero potuto essere rispettati solo se tutti gli Stati firmatari dell’accordo fossero stati in grado di condurre insieme e nello stesso arco temporale delle politiche nazionali coerenti tra loro. Si trattava e si tratta tuttora di una condizione difficilmente realizzabile, come si è potuto constatare già nel 1997, quando il Senato USA denunciò gli accordi di Kyoto ancor prima che venissero sottoscritti[5] e quando in Europa si aprì l’ennesimo confronto intergovernativo per ripartire, all’unanimità, gli oneri delle riduzioni stabilite.[6] Il fatto è che sono stati fissati degli obiettivi globali mantenendo strumenti decisionali nazionali: questa è la contraddizione dalla quale gli Stati non vogliono uscire. Una contraddizione che è emersa alla luce del sole nel momento in cui i problemi della sicurezza militare hanno ripreso il sopravvento su tutti gli altri.
Il segnale del cambiamento di rotta è venuto dagli USA. E’ noto che gli USA sono di gran lunga i maggiori produttori di gas ad effetto serra e che, da soli, contribuiscono per un quarto all’inquinamento globale. Ma la ratifica da parte loro del protocollo di Kyoto, avrebbe significato sicuramente un impegno gravoso sia in termini economici[7] sia in termini politici, a causa delle forti resistenze interne ad accettare drastiche politiche di risparmio energetico. In base al protocollo essi avrebbero dovuto ridurre le emissioni dei gas ad effetto serra del 7% rispetto al livello del 1990: un’impresa ormai impossibile da realizzare se si considera che da quell’anno essi hanno incrementato di un ulteriore 12% le loro emissioni. Quale governo in America, nell’attuale quadro internazionale, riuscirebbe ad imporre politiche federali per lo sviluppo e l’energia capaci di ridurre di almeno il 20% le emissioni di gas ad effetto serra entro la fine del decennio? Oggi semplicemente non esistono le condizioni perché si formi un consenso nell’opinione pubblica americana sufficiente per sostenere politiche adeguate a conseguire un simile obiettivo. Bisogna dunque prendere atto del fatto che gli USA non hanno alcuna intenzione di sacrificare la propria leadership mondiale in campo tecnologico, militare ed economico sull’altare di un accordo per ridurre i rischi di cambiamento climatico, che rappresenta ormai più una sfida diplomatica che uno strumento efficace per il governo del clima.[8] Le ragioni di questa scelta sono palesi nel Rapporto economico presentato dal Presidente Bush al Congresso per indicare gli obiettivi della politica americana. Questo Rapporto si apre con un esplicito riferimento alle nuove priorità della nazione ed è fortemente scettico nei confronti del ruolo delle attuali istituzioni internazionali: «Gli eventi del 2001 rappresentano delle nuove sfide per l’economia e la politica economica degli USA. La guerra contro il terrorismo richiede un nuovo impegno economico, e noi dobbiamo fare tutto ciò che possiamo per rafforzarci economicamente e per far fronte a questo impegno». E più avanti: «Concetti come quelli di una tassa mondiale sui gas ad effetto serra o di un mercato di permessi di inquinare a livello mondiale, indicati spesso come possibili soluzioni, sono nella migliore delle ipotesi proposte teoriche da confrontare con quello che si potrebbe fare sul piano pratico. Nella peggiore delle ipotesi essi distolgono da reali passi avanti che potrebbero essere fatti. Perché si tratta di proposte impraticabili? Perché esse non tengono conto del grande sforzo istituzionale ed organizzativo che richiedono per essere perseguite su scala internazionale. Sul piano istituzionale, è importante imparare a camminare prima di correre».[9] Il Rapporto insiste in più punti sulla necessità di dotarsi delle tecnologie adeguate per affrontare il problema, facendo però riferimento soprattutto ai successi già conseguiti negli USA, e di rafforzare le istituzioni internazionali, non indicando alcun obiettivo globale da raggiungere.[10]
 
Il governo del clima e una politica mondiale dello sviluppo.
 
Il piano di Bush non si propone di promuovere politiche che contribuiscano nel breve periodo a ridurre le emissioni di gas ad effetto serra in termini assoluti, ma confida nella prosecuzione del trend positivo nel miglioramento dell’efficienza tecnologica, che ha già consentito di ottenere notevoli riduzioni dell’intensità delle emissioni per unità di prodotto nel corso dell’ultimo secolo. Basti pensare che dal 1930 ad oggi gli USA, pur triplicando la quantità di anidride carbonica immessa nell’atmosfera, hanno notevolmente ridotto l’intensità di gas emessi per milione di dollari prodotto. Sulla base di questi risultati il governo federale ha così deciso di rimanere nel solco della politica ambientalista che ha favorito, a partire dagli anni Settanta (Clean Air Act Amendements), la drastica riduzione di una serie di inquinanti che minacciavano di avvelenare l’ambiente. Questa politica, dalla fine degli anni Ottanta (Global Change Research Program), ha ulteriormente incentivato lo studio dei rapporti tra clima e attività umane. Ma per ridurre davvero le emissioni di gas ad effetto serra sarebbe necessaria una politica mondiale capace di promuovere una transizione a nuovi tipi di consumi energetici su scala globale simile a quella verificatasi (nell’arco di oltre cento anni) con il passaggio dall’economia basata sull’impiego del carbon fossile a quella basata sul petrolio. Invece la politica degli USA e dei paesi industrializzati in genere continua ad essere orientata più a sfruttare il trend spontaneo alla riduzione dell’intensità di emissione (meno 17% negli ultimi dieci anni, e meno 18 nel prossimo decennio negli USA) che non a sviluppare una politica mondiale in questo campo.[11]
Tutto ciò conferma che lo sviluppo economico e tecnologico sono delle condizioni necessarie ma non sufficienti per ridurre l’inquinamento globale, che è ormai strettamente collegato al fenomeno della globalizzazione della crescita dei consumi individuali. I governi e le opinioni pubbliche nazionali sono consapevoli di questo fatto, ma sono prigionieri di soluzioni, come l’imposizione di tasse e di regole comuni o di mercato, del tutto impraticabili a livello internazionale. E’ indubbio che l’introduzione di una tassa sull’anidride carbonica generata dalle varie attività e produzioni incoraggerebbe sia l’impiego di tecnologie e combustibili meno inquinanti dal punto di vista dei gas ad effetto serra sia consumi meno inquinanti. Ma l’esperienza ha mostrato quanto sia difficile introdurre una simile tassa a livello continentale in assenza di forti pressioni internazionali — come ben sanno i paesi dell’Unione europea e come ha sperimentato l’amministrazione Clinton agli inizi degli anni Novanta quando tentò di introdurre una tassa sull’energia negli USA. Lo stesso discorso vale per l’ipotesi di creare un mercato internazionale di quote di permessi di inquinare, prima avversata e poi accettata anche dagli europei e dai principali movimenti ambientalisti. Questo meccanismo, già sperimentato negli USA per risolvere il problema delle piogge acide nel Nord America, ha consentito alle imprese più efficienti di scambiarsi permessi di inquinare (rilasciati però preventivamente dall’autorità federale). Ora, il presupposto del successo di un simile meccanismo si basa proprio sull’esistenza di un quadro statuale solido ed efficiente — basti pensare che non è possibile concedere permessi di inquinamento negoziabili senza disporre di un registro di tutti i soggetti inquinanti. Questo quadro oggi non esiste né su scala europea né su scala mondiale. La conseguenza di tutto ciò è che ad esempio la WTO non può giocare un ruolo propulsivo nella soluzione dei problemi ecologici globali, ma si deve limitare a tutelare gli interessi commerciali dei singoli Stati o di gruppi di essi.[12]
 
Conclusione.
 
Le speranze suscitate dai vertici mondiali sull’ambiente da Stoccolma (1972) fino a Rio (1992) e Kyoto (1997) non sono state vanificate da una diminuita consapevolezza dei rischi cui va incontro il pianeta — questa consapevolezza si è anzi accresciuta e in alcuni casi radicalizzata —, ma dal venir meno del presupposto politico che le aveva rese pensabili: la distensione prima e la fine del confronto fra USA e URSS dopo. Il crollo dell’URSS e l’impotenza dell’Europa hanno nell’ultimo decennio creato un vuoto di potere tale da non poter essere colmato dai soli Stati Uniti. La cooperazione internazionale, premessa indispensabile per il consolidamento di un clima di fiducia fra gli Stati e quindi per lo stesso funzionamento delle istituzioni internazionali, è in crisi. Lo dimostrano le crescenti tensioni e l’accendersi di conflitti locali, dall’ex-Iugoslavia e dal Medio Oriente, all’Afghanistan, e la proliferazione di armi di distruzione di massa e delle tecnologie missilistiche su scala globale. E’ vero che nel frattempo si sono moltiplicate le occasioni di incontri e di accordi su scala regionale ed internazionale. Ma questi fatti, come l’ingresso della Cina nel WTO, non testimoniano tanto il tentativo di garantire un governo più stabile del mondo, quanto piuttosto l’esigenza di difendere con ogni mezzo, a partire da quelli diplomatici, gli interessi nazionali in ogni sede. E’ in sostanza il ritorno ad una cooperazione tradizionale, basata sulla sfiducia e sul timore reciproco fra gli Stati. L’incapacità di affrontare i problemi ambientali va dunque inserita nel più ampio quadro dell’attuale fase di ridefinizione degli equilibri di forza a livello mondiale. Una fase in cui l’Europa sta giocando un ruolo sempre più marginale.
Si potrebbe dire, con le parole di Norbert Elias, che «anche ai nostri giorni, esattamente come un tempo, le costrizioni delle interdipendenze spingono verso analoghi conflitti, verso la formazione di monopoli della coercizione estesi a regioni sempre più vaste e quindi, attraverso tutti gli orrori e le guerre, verso la loro pacificazione. E dietro le tensioni a livello di continente si delineano già, in parte mescolate a quelle, le tensioni proprie di un livello successivo. Si cominciano a intravedere i primi contorni di un sistema di tensioni esteso all’intero globo e legato ad alleanze di Stati, a unità soprastatali di vario tipo; si intravedono i prodromi di lotte per l’eliminazione e l’egemonia su scala mondiale, premessa per la formazione di un monopolio mondiale della coercizione, di un’istituzione politica centrale estesa a tutto il globo e quindi anche premessa per la sua pacificazione».[13] Queste parole di Elias, che riprendono l’analisi kantiana del cammino dell’umanità verso la pace, devono far riflettere sull’urgenza che l’Europa si doti degli strumenti adeguati per tornare ad essere un soggetto attivo della politica mondiale, in modo da contribuire a raggiungere l’obiettivo finale della pace attraverso percorsi meno violenti e ingiusti, cioè attraverso una cooperazione di tipo evolutivo fra grandi Stati continentali. Ma questa aspirazione rischia di diventare velleitaria se non si scioglie il nodo che paralizza l’Europa: la sua divisione politica.
La mancata unificazione politica dell’Europa dopo cinquant’anni di integrazione ha prodotto dei danni enormi. Gli europei non solo non sono ancora stati in grado di dare una risposta politica adeguata al crescente grado di interdipendenza raggiunto su scala continentale. Con la loro divisione essi hanno anche impedito la formazione di un ordine mondiale più equilibrato, indebolendo, con la loro assenza, gli organismi internazionali. O gli europei sapranno fondare uno Stato federale a livello continentale, o diventerà sempre più difficile evitare di imboccare il cammino tragico descritto da Elias.
 
Franco Spoltore


[1] «L’inquinamento atmosferico prodotto dall’uomo dura in genere al massimo una settimana. Così la sua permanenza è legata alla sua continua sostituzione. Lo stesso non accade per l’anidride carbonica, il cui ciclo vitale è di circa un secolo e pertanto continua ad essere accumulata». Kevin E. Trenberth, del National Center for Atmospheric Research e membro dell’Intergovernmental Panel on Climate Change, in IEEE Spectrum, marzo 2002.
[2] Nel 1997 il vertice mondiale di Kyoto sui cambiamenti climatici si era concluso con un impegno — il protocollo di Kyoto — che cercava di rassicurare le opinioni pubbliche nazionali: qualcosa di importante poteva essere fatto in campo ambientale senza pagare un prezzo troppo alto in termini economici e in attesa di un più ampio coinvolgimento dei paesi in via di sviluppo. Tra le opinioni espresse dopo Kyoto, i commenti positivi sottolinearono la novità di un protocollo internazionale che fissava delle scadenze (2008-2012), delle precise percentuali di riduzione dei gas ad effetto serra (8-7-5%) e indicava uno specifico gruppo di paesi disposti a sottoporsi a questo regime (tutti i maggiori paesi industrializzati). I commenti negativi osservavano che il protocollo di Kyoto era comunque inadeguato per prevenire i rischi di cambiamento climatico poiché, anche se rispettato, non sarebbe stato in grado di invertire il trend verso l’incremento delle emissioni nocive entro le scadenze previste. Né i commenti di segno positivo, né quelli di segno negativo si preoccuparono di chiarire se esisteva un quadro di potere adeguato per mettere in moto gli accordi di Kyoto.
[3] «I cambiamenti climatici sono stati un catalizzatore, non la causa dei profondi cambiamenti che l’Europa ha conosciuto in un’epoca in cui ogni individuo era alla mercé di un’economia di sussistenza, in cui gli effetti di una cattiva vendemmia potevano mettere in difficoltà l’economia dell’impero asburgico. La piccola era glaciale è un’era in cui si è combattuta la dura lotta degli europei contro il principale elemento variabile dell’esistenza umana, il clima». Brian Fagan, The Little Ice Age – How Climate Made History 1300-1850, New York, Basic Books, 2000, p. 59.
[4] Questo sarà vero, secondo gli studiosi, anche quando gli USA disporranno di un sistema di simulazione che consentirà di passare dalle sei simulazioni climatiche mensili attuali, alle oltre cinquanta simulazioni sull’evoluzione del clima nel prossimo secolo o quando — presumibilmente entro il 2005 — verrà installata una nuova rete satellitare capace di incrementare in modo significativo la raccolta dei dati sull’atmosfera del nostro pianeta.
[5] Nella risoluzione approvata 95 a 0 dal Senato americano nel luglio del 1997, si dichiarava che «gli USA non dovranno firmare alcun protocollo o accordo nell’ambito della United Nations Framework Convention on Climate Change che non coinvolga i paesi in via di sviluppo o che possa costituire un danno per l’economia nazionale».
[6] Così ha commentato Le Monde (5-3-02) la ratifica del protocollo di Kyoto da parte dell’Unione europea: «La decisione di ratificare permette all’Europa di mantenere il suo ruolo guida nel campo delle politiche ambientali. L’obiettivo è quello di fare in modo che il protocollo di Kyoto entri in vigore in occasione della conferenza mondiale sullo sviluppo sostenibile che si terrà a Johannesburg. Attualmente hanno già ratificato 47 paesi sul totale dei paesi responsabili del 55% dell’inquinamento di anidride carbonica. Per raggiungere questo accordo, i ministri europei hanno dovuto ricorrere a un compromesso politico: il testo è stato votato a maggioranza qualificata — come voleva la Germania — anziché all’unanimità, come volevano numerosi Stati. Ma i Quindici hanno stabilito che le decisioni che verranno prese e che riguarderanno l’applicazione del protocollo di Kyoto, saranno adottate per consenso. Questa regola, che aveva prevalso nei 1998, quando gli europei si sono ripartiti gli oneri per la riduzione delle emissioni, ha fatto sì che alcuni fra essi potranno semplicemente stabilizzare le loro emissioni, mentre altri dovranno ridurle fortemente e altri ancora potranno addirittura aumentarle». Si vedano in proposito anche i dati prodotti da GRID-Arendal in cooperazione con il segretariato della United Nations Framework Convention on Climate Change (UNFCCC) per la settima conferenza delle parti impegnate nella ratifica del protocollo di Kyoyo (COP-7) alla Convenzione tenuta a Marrakesh, in Marocco, fra il 29 ottobre e il 9 novembre 2001 (http://www.grida.no/db/maps/collection/ climate6/index.htm).
[7] Queste politiche sarebbero costate il 4% del Pil secondo l’Economic Report of the President Transmitted to the Congress, February 2002, together with The Annual Report of the Council of Economic Advisers, Washington, USA Government Printing Office, 2002.
[8] «L’effetto del protocollo di Kyoto sul clima sarebbe trascurabile, anche se venisse pienamente rispettato. Un modello di Tom Wigley, uno dei principali autori del Rapporto del Climate Change Panel dell’ONU, mostra come un aumento della temperatura di 2,1 °C nel 2100 verrebbe ridotto dall’applicazione del protocollo ad un aumento di 1,9 °C. Detto in altri termini, l’aumento della temperatura del pianeta previsto per il 2094 verrebbe ritardato al 2100. Il protocollo di Kyoto consentirebbe dunque di far guadagnare al mondo sei anni. Quindi il protocollo di Kyoto non può impedire il riscaldamento del pianeta, ma semplicemente consente di guadagnare sei anni. Tuttavia i costi del protocollo di Kyoto, per i soli USA, sarebbero superiori a quelli necessari per risolvere uno dei più urgenti problemi mondiali: quello della fornitura di acqua potabile a buona parte dell’umanità». Bjorn Lomborg, «The truth about the environment», in The Economist, 2 agosto 2001. Questa analisi è stata duramente criticata dagli ambientalisti, ma più in base all’ipotesi che l’entrata in vigore del protocollo di Kyoto avrebbe potuto innescare un ciclo virtuoso di nuovi accordi, che non confutando la previsione dei modesti risultati da attendersi dalla sua applicazione.
[9] Si veda il citato Economic Report, p. 15.
[10] Ibidem, p. 20.
[11] Anche in Cina lo sviluppo economico sta facendo emergere logiche di risparmio energetico simili a quelle conosciute nei paesi industrializzati, ma nel complesso, come abbiamo visto, questo non servirà per impedire l’ascesa della Cina al primo posto nella classifica dei paesi inquinatori. «Le proiezioni suggeriscono che la Cina sorpasserà gli USA e sarà al primo posto per quanto riguarda l’inquinamento di anidride carbonica entro i prossimi vent’anni. Le emissioni di CO2 della Cina sono continuamente aumentate al ritmo del 4% all’anno negli ultimi vent’anni, registrando una inversione di tendenza alla fine degli anni Novanta. Nel 1998 le emissioni di CO2 della Cina sono diminuite del 3,7%, nonostante una crescita economica del 7,2%. Un importante fattore in questa riduzione è costituito dalla riduzione dei sussidi statali annuali (14 miliardi di dollari) per lo sfruttamento del carbone». Hilary French, Vanishing Borders, New York, WW Norton Company, 2000, p. 105.
[12] «La WTO ha registrato una massiccia proliferazione degli accordi commerciali regionali negli ultimi anni, con una media di un accordo notificato all’Organizzazione ogni mese. Un recente studio della WTO ha indicato in 172 il numero degli accordi attualmente in vigore. Questo numero è destinato ad aumentare fino a 250 entro il 2005. Sulla base dei 113 accordi commerciali regionali notificati alla WTO, si stima che circa il 43% del commercio mondiale avvenga nell’ambito di questi accordi. Una percentuale destinata ad aumentare fino al 51 % se buona parte dei 68 accordi in corso di negoziazione entreranno in vigore… I potenziali guadagni per gli USA sono considerevoli, in parte perché i negoziati bilaterali promettono di ridurre le barriere nei confronti dei prodotti USA nel mondo. Uno studio rivela che se si riducessero le barriere sui prodotti agricoli, industriali e sui servizi di un terzo, i guadagni per gli USA sarebbero di circa 177 miliardi di dollari, ovvero una media di 2500 dollari per ciascuna famiglia media». Economic Report, cit., pp. 276-279.
[13] Norbert Elias, Il processo di civilizzazione, Bologna, Il Mulino, 1988, p. 778.

 

 

 

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