Anno XLV, 2003, Numero 2, Pagina 106
IL BENEVOLENT EMPIRE E L’EUROPA
Dopo la seconda guerra mondiale, ed almeno sino alla Presidenza Kennedy, gli Stati Uniti sono stati tra i maggiori ispiratori ed i più fermi sostenitori del processo di unificazione europea, contro la vecchia massima del divide et impera. Oggi non è più così. Il governo americano è più favorevole all’allargamento dell’Unione europea (Turchia inclusa) e della NATO (forse estesa anche alla Russia) che all’approfondimento della prima ed al riequilibrio della seconda. Ad una Europa politicamente integrata si preferisce un insieme di Stati sovrani, possibilmente cooperanti tra loro, non legati da impegni che possano essere prioritari rispetto a quelli singolarmente presi con gli USA. Per gli ambienti governativi americani l’Europa non è più il luogo dove si fa la Storia.
La fine dell’Unione Sovietica, prima, e l’11 settembre, poi, hanno posto all’ordine del giorno il tema dell’egemonia americana sul mondo. Termini come «unilateralismo» e «benevolent Empire», prima utilizzati soltanto in una ristretta cerchia di neoconservatori, fino ad allora considerati brillanti ma irrealistici, sono stati posti al centro della politica americana dominante. Si è affermata l’idea che, poiché non si può ritirarsi né adattarsi ad un mondo ritenuto ostile, minaccioso, od almeno imprevedibile, la scelta migliore sia controllarlo e dominarlo. Inevitabile corollario di questa tesi egemonica è che occorre impedire l’emergere di qualsiasi paese di un certo rilievo, che potrebbe nel tempo diventare concorrente a livello mondiale e minacciare l’ordine americano. Già nel 1992 questa linea politica era stata esposta da Paul Wolfowitz, attuale sottosegretario alla Difesa, nel documento ufficiale Defense Planning Guidance, ed eliminata dalla versione finale. Nel 2002, invece, essa è una delle tesi centrali del documento sulla sicurezza nazionale della Casa Bianca.
Negli stessi Stati Uniti (ad esclusione degli ambienti governativi) non mancano le critiche: l’arroganza della forza genera nel mondo un risentimento ed una rabbia che, essendo impotenti nel breve termine, dureranno a lungo; inoltre, l’abbandono della politica illuminata del secondo dopoguerra spingerà i popoli contro la democrazia liberale, l’economia di mercato, la globalizzazione, e l’imperialismo americano diventerà così il peggior nemico di sé stesso; questo orientamento marziale e questo stato di guerra permanente, poi, non saranno senza conseguenze sulla società americana, le sue istituzioni, i suoi valori, le sue libertà.
Quanto alla campagna di insulti contro l’Europa condotta dai neoconservatori, dovrebbero essere gli stessi europei a ricordare loro che, a livello di opinione pubblica, la visione ed i valori americani ed europei sono più convergenti che divergenti, che l’antiamericanismo in Europa è molto meno virulento che nel resto del mondo, che gli europei (anche all’ovest) potrebbero essere i migliori e più affidabili alleati degli Stati Uniti, se questi fossero in grado di tornare alla politica di equal partnership sostenuta da J.F. Kennedy all’inizio degli anni ‘60.
Che tipo di mondo è quello che gli Stati Uniti stanno cercando di creare? Il popolo americano è cosciente del fatto che il loro governo pone il nostro pianeta di fronte ad un’alternativa in cui la scelta finale sarà tra un’egemonia unilaterale, dove l’America si troverà sola a dover affrontare le minacce che si presenteranno e, invece, un tipo di sistema mondiale multilaterale in cui gli USA dovranno cedere parte del potere, ricevendo in cambio un aiuto maggiore ed esercitando le responsabilità residue in modo più consono ai propri interessi, a quelli dei loro alleati e del mondo nella sua globalità?
Perché, dopo aver popolarizzato per oltre vent’anni l’ideologia, certo troppo ottimistica, di una globalizzazione felice, che profetizzava vincente in tutto il mondo la logica del mercato e della democrazia, gli Stati Uniti precipitano (e la causa non può essere soltanto l’11 settembre) nella visione pessimistica secondo la quale essi dovrebbero occuparsi soltanto dei loro interessi immediati, dando la prevalenza a quelli militari, invece che delle sorti dell’umanità? Oggi prevale una visione tetra, manichea, della globalizzazione, quella di una lotta mortale, estesa a tutti i continenti, tra il «Bene», rappresentato dagli Stati Uniti, e il «Male», rappresentato da un’entità indefinita ed indefinibile, variabile a seconda dei casi.
E’ veramente inevitabile un mondo di questo tipo e, soprattutto, esiste da qualche parte una forza, sia pure in nuce, in grado di imprimere un diverso indirizzo alle sorti del genere umano? Quale può, essere il ruolo della vecchia Europa per uscire da quest’impasse?
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Nell’ideologia della globalizzazione le frontiere sono superate grazie ai moderni sistemi produttivi ed ai nuovi mezzi di informazione e comunicazione. In questo mondo gli Stati chiusi in sé stessi, oltre a non essere più adeguati rispetto all’aspirazione al mantenimento dell’identità nazionale, sono condannati al declino (ed allo scontento dei loro cittadini) e all’accettazione di un ruolo ridotto di protezione sociale contro tale scontento e di protezione fisica contro l’aggressione o la guerra civile. Nell’ambito di questo modello alcuni studiosi sono giunti ad affermare, senza ironia, la teoria della «evaporazione dello Stato».
La globalizzazione economico-finanziaria è stata definita un passaggio epocale da un mondo dominato dagli Stati ad un mondo dominato dai mercati, ed inoltre si è visto in essa un ritorno al periodo precedente la prima guerra mondiale, caratterizzato da un progressivo ampliamento dei mercati, della produzione, della pervasività della finanza. Essa si basa su pochi fondamentali principi: libero commercio, libertà di movimento dei capitali, non intervento dello Stato nell’economia. Ciò, secondo i suoi apologeti, assicurerà il benessere, la cooperazione tra nazioni e la pace mondiale. Con il trionfo degli ideali liberisti del XIX secolo, il mercato mondializzato sarà deputato ad organizzare la produzione internazionale ed a massimizzare la ricchezza globale. Il sistema politico ed economico americano, si sostiene, rappresenta un modello per il mondo intero e gli Stati Uniti guideranno il resto del mondo in quanto unica vera superpotenza. La leadership americana ed il sistema di Bretton Woods riformato consentiranno la cooperazione tra potenze economiche, garantendo il funzionamento dell’economia globale.
Dal punto di vista della teoria economica è agevole sollevare una prima obiezione. Rispetto alle prime formulazioni di Adam Smith, gli studi economici hanno approfondito il tema delle «imperfezioni del mercato», dimostrando come i postulati della concorrenza perfetta e della informazione perfetta siano ben difficilmente verificabili nel mondo reale. Inoltre già negli anni ‘30 del secolo scorso Lionel Robbins ha spiegato come ogni attività economica implichi una qualche forma di piano («la scelta non è fra un piano o l’assenza di piano, ma fra differenti tipi di piano»), che la «mano invisibile» è in verità l’opera del legislatore e che non esiste il mercato senza lo Stato. L’egoismo anarchico degli «animal spirits» non può determinare il bene comune.
Per quanto riguarda la sostenibilità della leadership americana, va osservato che essa si fonda sul nucleo teorico centrale dell’economia politica internazionale, la «dottrina della stabilità egemonica». Partendo dall’osservazione dei due esemplari casi storici della Pax Britannica nel XIX secolo e della Pax Americana nel XX secolo, C. Kindleberger è arrivato ad affermare che l’economia internazionale non può correttamente funzionare se non esistono regole di condotta comuni a tutti gli attori, fatte accettare da una potenza egemone («stabilizer»).
Tale stabilizzatore deve fornire al sistema alcuni beni pubblici essenziali quali: stabilità monetaria, controllo del ciclo economico, sicurezza militare, compatibilità tra sviluppo e protezione dell’ambiente.
Cerchiamo ora di esaminare se esistono sufficienti ragioni per assegnare tale ruolo, anche nel XXI secolo, agli Stati Uniti.
Dalla metà degli anni ‘80 gli Stati Uniti sono il maggiore paese debitore del mondo. Con l’avvento dell’amministrazione Reagan si è affermata la teoria della supply-side economics, basata sulla riduzione del ruolo del governo federale, sul taglio drastico delle imposte e delle spese per lo Stato sociale, sulla fiducia nella operatività dei mercati. Il contemporaneo aumento delle spese militari ha determinato, per circa cinque anni, una fase di notevole espansione economica conclusasi con il crollo del mercato azionario del 1987. E’ rimasta l’eredità dei twin deficits, cioè il disavanzo contemporaneo delle finanze pubbliche e della bilancia commerciale, che ha distorto l’economia americana e mondiale sino ad oggi. Negli anni ‘90 la forte crescita della produttività americana ha generato un lungo periodo di alta crescita economica e l’esplosione del mercato azionario a livelli senza precedenti. In realtà, ormai da decenni, gli americani vivono molto al di sopra dei propri mezzi. Il loro tasso di risparmio è precipitato a valori prossimi allo zero, mentre il loro eccessivo livello di consumi è finanziato dal prestito estero, dall’elevato valore delle attività azionarie e finanziarie (almeno sino al 2000), dal dollaro forte (sino allo scorso anno) che ha abbassato il costo delle importazioni, dal fatto che il resto del mondo ha vissuto una lunga fase di recessione o di bassi tassi di crescita (Cina esclusa). Un aumento significativo delle imposte da parte dell’amministrazione Clinton ha consentito di annullare il deficit federale e di consegnare all’amministrazione Bush un avanzo di bilancio (ora trasformato in un ampio deficit: la previsione per il solo 2003 è di 304 miliardi di dollari, non tenendo conto dello stanziamento per la guerra in Iraq). Alla fine del 2002 il debito finanziario netto degli Stati Uniti verso il resto del mondo ammontava a circa 2200 miliardi di dollari, con un aumento, rispetto al 1998, del 130%; nel 2002 il deficit della bilancia commerciale è stato di 435 miliardi di dollari (oltre 1,2 miliardi al giorno; circa il 5% del pil). Il declino relativo dell’economia americana, il valore fluttuante del dollaro, il fatto che l’enorme debito estero accumulato dovrà essere ridotto ed il tenore di vita ridimensionato, il basso tasso di risparmio, la crisi del sistema scolastico e sanitario, la necessità di adattamento ad una economia mondiale in rapida evoluzione, caratterizzata da forte competizione, accordi regionali e instabilità del sistema finanziario internazionale, portano a concludere che l’attuale crisi economico-finanziaria, in corso da quasi tre anni, difficilmente possa essere considerata di carattere congiunturale.
Inoltre la «dottrina della stabilità egemonica», sopra citata, si fonda sull’esistenza di un solo «stabilizzatore», il che porterebbe a considerare l’esistenza di due poli monetari affiancati al dollaro (euro e yen) come una minaccia alla stabilità mondiale. In alternativa è inevitabile rispondere negativamente al quesito circa l’assegnazione agli Usa del ruolo di stabilizer nel secolo appena iniziato. Ne consegue che, esclusa la possibilità di un leader egemonico, occorre ipotizzarne la non necessità e ritenere possibile la «cooperazione post-egemonica» (R.O. Keohane), basata su istituzioni internazionali dotate di poteri sufficienti per regolare il processo di globalizzazione in presenza di un sistema internazionale multipolare.
Circa le modalità di funzionamento, negli ultimi decenni, dell’economia globalizzata, basta sintetizzare alcune critiche, condivise ormai da molti studiosi.
Effetti sulla povertà: la flessibilità del mercato del lavoro ha significato riduzione dei salari e smantellamento di ogni forma di protezione dell’occupazione; la liberalizzazione del commercio congiunta ad alti tassi di interesse (per i paesi che hanno dovuto applicare la «ricetta» del Fondo monetario internazionale) ha generato distruzione di posti di lavoro ed aumento della disoccupazione; la liberalizzazione dei mercati finanziari non accompagnata da una corretta regolamentazione ha creato instabilità economica ed aumento dei tassi di interesse; le politiche di privatizzazione, senza promozione della concorrenza e senza sorveglianza sui monopoli, hanno avuto come effetto il rialzo dei prezzi al consumo; l’austerità budgetaria (aumento di imposte, riduzione della spesa sociale e per istruzione) ha fatto aumentare la disoccupazione e fatto esplodere la coesione sociale. Queste misure, nel loro insieme, hanno in molti paesi distrutto la classe media, indispensabile per lo sviluppo di una economia sana, e contribuito all’arricchimento di una piccola élite.
Politiche del Fondo monetario internazionale: il suo mandato iniziale è di rinforzare la stabilità mondiale e di fornire o reperire i mezzi finanziari per i paesi minacciati da recessione; pur non avendo mai ufficialmente cambiato il suo mandato, sembra ormai più al servizio della finanza mondiale che dell’economia mondiale; i suoi comportamenti, contraddittori ed intellettualmente incoerenti, hanno un senso solo se si ritiene che la sua missione sia di servire gli interessi della comunità finanziaria internazionale.
Conseguenze del cosiddetto «Washington consensus» (accordo esistente a partire dagli anni ‘80 fra il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale ed il Tesoro americano, sulla politica verso i paesi in via di sviluppo): la mondializzazione, così come è stata attuata, non ha dato i risultati promessi, che invece può e deve dare; il risultato delle politiche del «consensus» è stato, troppo spesso, di avvantaggiare una piccola minoranza a spese della maggioranza; gli interessi commerciali hanno prevalso sull’ambiente, i diritti umani, la giustizia sociale e la democrazia in nome di un modello semplicistico dell’economia di mercato che sarebbe corretto definire «fanatismo del mercato».
Procedure decisionali del Fondo monetario internazionale: le decisioni sono basate su di una strana mescolanza di ideologia e di cattiva economia che difficilmente riesce a dissimulare degli interessi privati; il Fondo applica decisioni standard che non tengono conto dei reali interessi degli abitanti dei paesi ai quali vengono prescritte; non vengono effettuati studi previsionali né dibattiti ed analisi approfondite sugli effetti di altre possibili soluzioni; le decisioni sono prese a porte chiuse, qualsiasi discussione viene scoraggiata, i paesi destinatari non possono sollevare alcun tipo di obiezione, la democrazia è completamente assente.
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Dalla pur sintetica e parziale descrizione di questo mondo globalizzato emerge con grande evidenza il problema essenziale del nostro tempo: il deficit democratico, ossia la mancanza di procedure e poteri fondati sul metodo democratico nelle sedi in cui i principali problemi possono essere affrontati e risolti, mentre la presenza di un potere legislativo eletto democraticamente dai cittadini, e quindi la possibilità di indirizzare le decisioni degli organi esecutivi da parte dei popoli, esiste soltanto negli Stati nazionali (come ben noto, soltanto in una parte di questi), ormai superati dalla dimensione di tutti i principali problemi contemporanei. La stessa Unione europea, da molti considerata un’area ad alto livello di democrazia, presenta nel suo maggior organo decisionale, il Consiglio dell’Unione, una singolare commistione di poteri legislativi ed esecutivi che non dovrebbe più essere consentita dai tempi della Rivoluzione francese. Il Parlamento europeo, unico organo democraticamente eletto, non rappresenta il potere legislativo mentre la Commissione, che deve ricevere la fiducia dal Parlamento, non è un governo.
Tutte le organizzazioni pubbliche internazionali o regionali non rispondono del loro operato direttamente ai cittadini (Nazioni Unite, Corte internazionale di giustizia, Organizzazione mondiale della sanità, Fondo monetario internazionale, Banca mondiale, Organizzazione mondiale per il commercio, ecc.). La regola decisionale comune a queste istituzioni è «uno Stato, un voto», mentre la regola della democrazia è «un uomo, un voto». Quindi, in un mondo diviso in Stati sovrani, prevale la sovranità degli Stati, soggetti alla legge della forza, sulla democrazia.
Abbiamo visto che gli Stati Uniti non possono assumere un ruolo egemone e porsi, da soli, a tutela dell’ordine internazionale. L’accentuazione recente dei temi di ordine militare è conseguenza diretta del loro declino relativo in termini economici. Comunque è altamente auspicabile un mondo non dominato da una sola grande potenza, ma fondato su di un ordine multilaterale, in cui si affermi la convivenza pacifica fra grandi aree regionali. Un mondo in cui la globalizzazione economico-finanziaria possa non essere abbandonata all’affermazione del diritto del più forte, ma regolata da forme di governance mondiale, che potranno realizzarsi attraverso un processo lungo, non privo di fasi conflittuali, e che saranno tanto più efficaci quanto più i raggruppamenti regionali in formazione potranno darsi ordinamenti di tipo federale e democratico.
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E veniamo al ruolo, per ora solo potenziale, dell’Europa, cui si è fatto cenno inizialmente.
Se si ritiene che il significato ultimo della storia sia la realizzazione di un lento processo di costruzione della pace attraverso l’unificazione politica del genere umano. Se si pensa, anche, sulla base dell’insegnamento di Kant, Hamilton ed Albertini, che la politica si basi sui rapporti di potere e che la logica del potere sia quella di conservarsi e rafforzarsi a scapito di quello altrui. Se si crede che il bene comune ad una pluralità di Stati e la pace non possano essere ottenuti con la collaborazione internazionale, ma solo con la democrazia internazionale, attraverso la creazione di uno Stato sovranazionale, in base alla dottrina kantiana secondo la quale c’è diritto soltanto dove esiste lo Stato mentre, in assenza di Stato, vige la legge della forza. Se si pensa tutto questo, si giunge alla conclusione che, per far crescere nel mondo attuale il germe del federalismo ed iniziare il processo di unificazione mondiale non esiste oggi modo diverso dalla realizzazione di uno Stato federale europeo, dotato delle competenze della politica economica e monetaria, della sicurezza interna, della difesa e della politica estera. E questa è anche una tappa indispensabile per rilanciare l’obiettivo della equal partnership con gli Stati Uniti d’America, che consentirà alla politica americana di uscire dalle degenerazioni causate dalla sua attuale leadership egemonica.
Il significato della fondazione di uno Stato federale europeo, ossia l’affermazione del diritto e del metodo democratico oltre le frontiere nazionali, sarà quello di dare l’avvio alla fase federalista della storia universale. Dopo il consolidamento della Federazione europea, il federalismo sarà quindi più attivo di quanto non lo sia ora, ed i federalisti saranno consapevoli che il nuovo Stato, in quanto primo e necessario passo verso la creazione della Federazione mondiale, costituirà un’entità provvisoria che, nel tempo, verrà superata dall’aumento dell’interdipendenza.
Con lo Stato federale europeo si affermerà, per la prima volta nella storia, la cultura della negazione della divisione politica del genere umano e quindi si realizzerà il quadro storico per affermare, nella pratica, il diritto di non uccidere, con l’avvio di un processo che, oltre la Federazione europea, potrà condurre alla Federazione mondiale ed all’emancipazione di tutti gli uomini.
La Federazione europea, oltre ad essere un importante passo avanti verso la Federazione mondiale, rappresenterà per il resto del mondo un modello ed un esempio di superamento dei conflitti, di crescita del benessere, di consenso al metodo democratico, di tutela delle minoranze culturali, linguistiche e religiose, di ricerca dello sviluppo sostenibile. Essa potrà dare un forte impulso allo sviluppo dei paesi economicamente meno favoriti, anche in seguito alla sua forte dipendenza dal commercio internazionale. Inoltre, essendo fondata su di un forte pluralismo culturale, linguistico e religioso non consentirà la formazione del mito della «nazione europea» e la sua legittimità sarà fondata esclusivamente sul «patriottismo costituzionale» (J. Habermas). Garantirà inoltre un fondamento più solido al funzionamento ed all’azione dell’ONU e di tutte le istituzioni pubbliche internazionali, migliorando e riformando la governance mondiale, sia pure con i limiti conseguenti al passaggio lento e difficile da un equilibrio mondiale unipolare ad un equilibrio multipolare.
Lo Stato federale europeo, inoltre, realizzerà il quadro politico che consentirà ai cittadini europei la scelta autonoma tra un modello economico-sociale basato sulla riduzione sostanziale dello Stato sociale e sul ridimensionamento del ruolo dello Stato (modello anglosassone, di tipo essenzialmente darwinistico) ed un sistema di sicurezza sociale e di economia mista basato sulla solidarietà (modello europeo o renano).
Il fallimento dell’unificazione europea significherebbe invece il ritorno all’anarchia di un nuovo medioevo, nell’ambito della quale gli Stati Uniti eserciterebbero per un certo tempo il ruolo dell’Impero in progressiva decadenza, in un mondo in cui l’umanità ha le capacità tecnologiche di autodistruggersi.
Corrado Magherini