IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XLVII, 2005, Numero 2, Pagina 96

 

 

QUATTRO BREVI CONSIDERAZIONI
SUL RISCHIO DELLA PROLIFERAZIONE NUCLEARE
 

 

La globalizzazione sta producendo un tale intreccio di interdipendenze economiche, sociali e culturali da far ritenere che «ci sono ormai potenti ragioni per affermare che le guerre fra potenze sono destinate a svanire. Le guerre sono ormai costose, economicamente disastrose e contrarie agli interessi della maggior parte dei popoli… I conflitti possono essere meglio risolti attraverso la creazione di apposite istituzioni e regole internazionali».[1] In questa ottica, la prospettiva, da un lato, di soffrire gravissime perdite o distruzioni, se non addirittura l’annientamento, in caso di conflitto nucleare, e, dall’altro, i vantaggi derivanti dall’espansione del commercio uniti all’affermarsi e al diffondersi della democrazia sarebbero di per sé delle condizioni sufficienti per indurre gli Stati a non farsi la guerra. Ma come mostra anche l’esperienza storica recente, l’avvento dell’era atomica ha sì introdotto un importante deterrente contro il ricorso alla guerra, almeno direttamente fra potenze nucleari, ma non ha reso impossibili le guerre, né le cosiddette guerre per delega, né ha eliminato i preparativi alla guerra ed il loro corollario, la corsa agli armamenti, favorita tra l’altro proprio dai molteplici canali di scambi commerciali e di informazione aperti dalla globalizzazione.
A questo proposito è possibile fare quattro brevi considerazioni.
 
1. La corsa agli armamenti e il rischio della proliferazione nucleare dipendono dall’evoluzione della bilancia del potere mondiale e della globalizzazione. Nella seconda metà degli anni Ottanta del secolo scorso, la fine della guerra fredda aveva alimentato grandi aspettative circa la possibilità di avviare una nuova fase della distensione internazionale basata su una sicurezza garantita sempre più dalla crescente fiducia reciproca fra gli Stati e dalla collaborazione internazionale, e sempre meno sui rapporti di forza. La base materiale di queste aspettative era rappresentata dagli accordi Reagan-Gorbaciov per l’avvio della riduzione degli arsenali nucleari di USA e URSS e dalla cooperazione fra le due superpotenze per rafforzare gli organismi internazionali e l’ONU in particolare.
Negli anni Novanta la prima guerra del Golfo, la disgregazione dell’URSS e della Jugoslavia e i conflitti in Africa, mostrarono la fragilità dei presupposti su cui si fondavano quelle aspettative. Ma la crescente globalizzazione nel campo del commercio, delle comunicazioni, dei processi produttivi, con le inevitabili ricadute in termini di accresciuta interdipendenza economica, sociale e culturale fra tutti i popoli, faceva ancora sperare, se non nell’avvento di una nuova era nei rapporti fra gli Stati, almeno in un’era di «pace fredda».[2]
Il primo lustro di questo nuovo secolo ha infranto anche quelle speranze: il terrorismo internazionale, due guerre — la prima in Afghanistan e la seconda in Iraq —, la definitiva affermazione del Pakistan come potenza nucleare, la probabile attuazione del programma militare nucleare nord-coreano e la ripresa di quello iraniano, hanno mostrato, qualora ce ne fosse ancora bisogno, che il mondo è sì cambiato, ma non sino al punto che gli Stati possono escludere di prepararsi alla guerra e di dover chiamare i propri cittadini a combatterne una.
 
2. Il possesso e la minaccia dell’uso delle armi nucleari resta legato alla possibilità della guerra fra gli Stati. La corsa al riarmo nucleare era un pericolo fortemente temuto dagli stessi strateghi della deterrenza americana nel secolo scorso. Bernard Brodie, uno dei teorici della strategia nucleare USA, aveva fin dagli anni Quaranta denunciato il rischio della proliferazione nucleare. Brodie riconosceva che la soluzione definitiva del problema consisteva nel creare un governo mondiale, ma era convinto che durante la inevitabilmente lunga e tormentata fase di transizione verso quella meta, un numero crescente di Stati si sarebbe dotato dell’arma atomica per garantire da sé la propria sicurezza ed eventualmente per minacciare quella degli altri. Per questo, secondo Brodie, dopo lo scoppio delle prime bombe atomiche era urgente dare una risposta a tre quesiti: l’arma atomica poteva diventare un deterrente contro la guerra? Sarebbe stato possibile prevenirne l’uso? Sarebbe stato possibile rendere accettabili le conseguenze di un suo uso? «Il problema della bomba atomica», scriveva Brodie nel 1945, «è inseparabile dal problema della guerra, e gli strumenti di controllo della bomba sono utili nella misura in cui riducono la probabilità della guerra. Il rafforzamento delle istituzioni internazionali per preservare la pace può essere accelerato dalla necessità di controllare l’uso della bomba atomica, e gli Stati Uniti non devono risparmiare sforzi per promuoverlo. Ma finché gli Stati restano sovrani e indipendenti, nessuna istituzione può sostituirsi alla diplomazia».[3] Il controllo internazionale dell’armamento atomico secondo Brodie avrebbe dovuto svilupparsi su tre livelli: quello della libera circolazione delle informazioni, per mettere a disposizione di tutti i dati relativi alla ricerca e alla produzione di materiale nucleare; quello della limitazione della produzione del numero di armi atomiche; quello della progressiva abolizione della produzione di armi nucleari. Ma già all’indomani del fallimento del Piano Baruch per creare un’Autorità mondiale per il controllo dell’energia nucleare, apparve subito chiaro che, dei tre livelli indicati da Brodie, solo il primo avrebbe avuto qualche probabilità di essere parzialmente perseguito a livello internazionale. Questo in effetti fu quanto accadde nei decenni successivi, che videro la creazione di vari organismi di verifica e controllo e la stipula di innumerevoli trattati internazionali, che non limitarono la produzione né poterono avviare l’abolizione delle armi nucleari. Questi ultimi due livelli di controllo, relativi rispettivamente al contenimento e alla definitiva abolizione delle armi atomiche, non erano e non sono tuttora neppure pensabili senza un effettivo trasferimento di sovranità allivello mondiale.[4] Constatata questa impasse, non restava che accettare di convivere con il rischio del conflitto atomico, cercando di prevenirlo rendendolo inaccettabile dal punto di vista delle sue conseguenze distruttive.
In una simile situazione, la deterrenza, il deterrere reges proelio dei romani, ossia la minaccia dell’uso di un’arma o di una ritorsione terribili per prevenire la guerra, rappresentava per Brodie il solo mezzo per dissuadere gli Stati dall’intraprendere un confronto militare che non avrebbe potuto avere vincitori.[5] Ma qual era il livello minimo di armamenti nucleari che uno Stato doveva possedere per esercitare la deterrenza? La risposta di USA e URSS a questa domanda fu una corsa sfrenata al rafforzamento dei rispettivi arsenali nucleari già negli anni Cinquanta e Sessanta. Questa prima era della proliferazione nucleare, come spiegò un altro stratega americano, McGeorge Bundy, aveva una causa ben precisa: l’enorme squilibrio di forze, in primo luogo convenzionali, che si era instaurato sul continente europeo fra la superpotenza sovietica e i deboli Stati europei occidentali.[6] Il risultato fu che, almeno sul continente europeo, divenne progressivamente sempre più incerta e ambigua la definizione del confine tra guerra convenzionale e guerra nucleare: l’equilibrio del terrore impedì la guerra tra USA ed URSS in Europa, ma al prezzo di rendere pensabile il ricorso agli armamenti atomici anche nei conflitti locali e di giustificare il possesso di ingenti arsenali nucleari per rendere efficace la deterrenza.[7]
 
3. Gli squilibri nei rapporti di forza fra Stati alimentano il binomio deterrenza e proliferazione nucleare. La proliferazione nucleare non coinvolse un numero crescente di Stati, come si temeva potesse accadere negli anni Sessanta, fondamentalmente per tre ragioni, la prima di natura politica, la seconda di natura tecnologica e la terza di natura militare.
Finché l’ordine mondiale dipendeva in ultima istanza dai rapporti di forza tra USA e URSS in una regione ben definita del mondo, l’Europa, il fenomeno della proliferazione nucleare al di fuori delle due superpotenze, benché già in atto, serviva per rafforzare una o l’altra zona di influenza, ma non aveva una valenza strategica autonoma, né a livello regionale, né a livello mondiale. Inoltre, finché la maggior parte dei paesi non ha avuto la possibilità di sviluppare programmi nucleari autonomi, a causa delle difficoltà di reperire o produrre i componenti necessari all’assemblaggio di ordigni nucleari e dei vettori necessari per trasportarli e degli alti costi che una simile politica avrebbe comportato, la proliferazione de facto rimaneva limitata alle zone di influenza russo-americane. Ma nel momento in cui la fine del bipolarismo ha messo in contatto mondi fino a quel momento separati sia sul terreno degli scambi commerciali sia su quello dei trasferimenti di tecnologie sempre più a buon mercato e sempre più facilmente accessibili, il pericolo della proliferazione nucleare e delle armi di distruzione di massa è diventato concreto ed ha incominciato ad interessare la ridefinizione stessa dei rapporti di forza fra Stati ormai usciti dal rigido schema dell’equilibrio bipolare. In questo quadro, l’ONU, gli accordi presi nell’ambito del Trattato di non proliferazione nucleare, l’Agenzia per il controllo dell’energia nucleare di Vienna non potevano giocare un ruolo molto diverso da quello previsto a suo tempo da Brodie.[8] Ma, sulla base dell’esperienza storica, non era pensabile che il mondo avrebbe accettato a lungo che fosse la sola potenza USA a decidere dove, quando e come fare giustizia e garantire l’ordine. Così nel corso dell’ultimo decennio si è affermato un processo di reazione allo strapotere americano che ha avuto delle implicazioni anche per quanto riguarda la deterrenza e la proliferazione nucleare. In sostanza, come nel corso della guerra fredda gli USA non esitarono a contemplare l’impiego di armi nucleari in Europa per contrastare la superiorità convenzionale dell’URSS, così molti paesi hanno incominciato a sviluppare programmi militari finalizzati a contrastare la superiorità convenzionale americana, ponendo le premesse di una seconda era della proliferazione delle armi di distruzione di massa abbinata al riarmo missilistico e al terrorismo.[9] Si tratta evidentemente di una svolta nel campo dei rapporti fra Stati, che introduce un ulteriore elemento di pericolo rispetto alla passata competizione tra USA e URSS, in quanto aumenta le variabili in gioco e i possibili errori di valutazione della situazione di pericolo che questo o quel governo potrebbero commettere.
La conseguenza è stata che gli USA, sentendosi a loro volta minacciati, hanno aumentato a dismisura le loro spese militari — che superano ormai quelle di Cina, paesi europei e Russia messe insieme.[10] Ma questo ha indotto quei paesi che a loro volta si sentivano minacciati dallo straripante potere americano, o che semplicemente non volevano dipendere dalla politica USA, ad accelerare i loro programmi di riarmo, anche nucleari, nel tentativo di scoraggiare, cioè di deterrere a loro volta, gli americani dall’agire contro di loro.
 
4. L’assenza di un polo europeo aggrava la percezione degli squilibri di potere nel mondo e, quanto più questo vuoto diventa una costante nei rapporti internazionali, tanto più diventa difficile disinnescare il time table della corsa al riarmo, convenzionale e non. Abbiamo già accennato al fatto che la non Europa degli anni Cinquanta ha favorito la proliferazione nucleare sotto l’ombrello sovietico-americano. Più recentemente la non Europa della fine della guerra fredda, delegando agli USA il ruolo di poliziotto internazionale super armato, ha favorito la nascita di un clima di competizione sbilanciata tra USA e il resto del mondo. Se fosse esistito uno Stato federale europeo negli anni Cinquanta, è ragionevole pensare che esso avrebbe avuto interesse a rendere meno conflittuali i rapporti tra USA ed URSS e a promuovere la cooperazione tra i due blocchi. E’ altresì ragionevole pensare che se fosse esistito lo Stato federale europeo negli anni Novanta, esso avrebbe avuto interesse a condividere con gli USA, la Cina e la Russia la responsabilità di contribuire a frenare le spinte alla frammentazione in diverse regioni del mondo (in primis nei Balcani) e a ridurre i focolai di tensione in Medio Oriente e in Africa. Se oggi ci troviamo in una sorta di Far West più o meno nucleare in formazione, ciò è dovuto in gran parte all’assenza di un polo europeo.
Per questo si può affermare, per quanto riguarda la proliferazione nucleare e delle armi di distruzione di massa, che il rischio maggiore per il mondo e per l’Europa non riguarda se e come questo o quello Stato si doterà nel prossimo futuro di quelle armi, ma in quale sistema mondiale di Stati questo fenomeno si svilupperà. I segnali che con l’equilibrio bipolare anche diversi fattori che lo avevano caratterizzato sono destinati a sgretolarsi sono evidenti. Basti pensare che, nella situazione attuale, persino in paesi usciti sconfitti nella seconda guerra mondiale ai quali era stata finora negata la possibilità di riarmarsi, come il Giappone, si sta riaprendo il dibattito sulla opportunità di riaffermare la propria autonomia militare nazionale. Su un altro versante, mentre gli USA cercano di prevenire e contrastare la proliferazione nucleare, si assiste alla stipula di accordi bilaterali USA-India per il trasferimento delle tecnologie nucleari che, al di là della loro valenza strategica regionale, sono destinati ad aprire un nuovo fronte, difficilmente controllabile, per la proliferazione stessa.[11]
La domanda alla quale gli europei devono dunque cercare di dare una risposta è la seguente: in che modo l’Europa può contribuire a far uscire l’attuale sistema mondiale degli Stati dal regime di multipolarismo fortemente squilibrato in cui si trova e a promuoverne uno più equilibrato, in cui nessun polo possa o debba svolgere da solo il compito di garante in ultima istanza della sicurezza propria e altrui su scala regionale e globale?[12]
Per incominciare a rispondere a questa sfida, gli europei dovrebbero incominciare a trarre le conseguenze di due dati di fatto che ormai incombono sul loro futuro e che si possono così riassumere: la fine della protezione americana sull’Europa e la crisi del modello europeo di integrazione. Il primo dato di fatto è la conseguenza dell’inevitabile processo di logoramento a cui va incontro la potenza americana: nella misura in cui gli USA si dimostreranno sempre meno in grado di garantire la sicurezza e di impedire la corsa agli armamenti in gran parte del mondo, essi non saranno più in grado neanche di garantire la stabilità e l’ordine in Europa, né saranno interessati a legare la loro sicurezza a quella degli europei. Il secondo dato di fatto è invece la conseguenza del logoramento di un modello di integrazione regionale, quello comunitario europeo, che non è riuscito a consolidarsi in una unione politica e che in un quadro di multipolarismo squilibrato come quello attuale, rischia di essere prima frantumato e poi travolto dalle crisi economiche e militari che, proprio a causa delle contraddizioni e della precarietà che questo ordine mondiale genera, inevitabilmente si manifesteranno.
Se vogliono davvero incominciare a contribuire a far cambiare rotta al mondo, aiutando sé stessi e l’America a porre le basi di un sistema mondiale degli Stati capace di attenuare i fattori di rischio di nuovi conflitti e di rilanciare la cooperazione fra le diverse regioni del pianeta, gli europei devono sostituire alla pseudo-diplomazia dell’Unione europea e a quella basata sulle iniziative di questo o quel gruppuscolo di Stati, la politica estera e di difesa — ivi compresa la componente nucleare e la ridefinizione dei rapporti con gli USA — di uno Stato federale europeo.
Solo una volta che almeno un primo gruppo di paesi si sarà dimostrato capace di compiere un simile passo, l’Europa incomincerà ad esistere.
 
Franco Spoltore


[1] Così si è espresso Martin Wolf, in «China’s Rise Need not Being Conflict», Financial Times, 14 settembre 2005.
[2] Ibidem.
[3] Bemard Brodie, «The Atomic Bomb and American Security» (1945), in US Nuclear Strategy, di Philip Bobbit, Lawrence Freedman e Gregory F. Treverton, Londra, 1989.
[4] Bemard Baruch, The Public Years, Londra, Odham Press limited, 1961.
[5] «Una politica che offre buone chance di prevenire la guerra è meglio di gran lunga rispetto ad una politica che pretende di avere qualche possibilità di vittoria», Bemard Brodie, in Strategy in the Missile Age (1959), citato da McGeorge Bundy in «Strategic Deterrence Thirty Years Later: What has changed?» (1980), in US Nuclear Strategy, cit.
[6] McGeorge Bundy, op. cit.
[7] «The Commission on lntegrated Long-Term Strategy», gennaio 1988, in US Nuelear Strategy, cit. Sulla logica che giustifica ancora il mantenimento di migliaia di testate da parte degli USA, è interessante la testimonianza fornita qualche anno fa da un membro del Congresso USA, William M. Thomberry: «Quanto più abbassiamo la soglia per diventare una potenza mondiale, tanto più rendiamo possibile diventarla. Non c’è una grande differenza se gli USA possiedono 7000 o 4000 testate nucleari. Anche la soglia delle 2500 testate nucleari può apparire irraggiungibile da parte di una potenza emergente che abbia solo qualche dozzina di bombe. Ma cercare di raggiungere una parità con gli USA sulla base di 500 o 1000 testate, può diventare un obiettivo perseguibile sia psicologicamente che praticamente. Non possiamo ridurre troppo il nostro arsenale in modo che gli altri paesi, soprattutto quelli che perseguono l’obiettivo di esercitare un ruolo globale, siano incoraggiati a ricercare la parità con noi». Congressman William M. “Mac” Thomberry (R, Texas), The Washington Times, 15 giugno 2001. Si noti che lo Strategic Offensve Reductions Treaty (SORT, o “Moscow Treaty” del 2002) prevede di ridurre gli arsenali di USA e Russia a circa 2000 testate. Il SORT garantisce inoltre a USA e Russia di mantenere il possesso di non meglio specificati arsenali non operativi, ridispiegabili però nel giro di poche ore.
[8] I.C. Oelrich, lnstitute for Defense Analyses, Sizing Post-Cold War Nuclear Forces, ottobre 2001, 1801 N. Beauregard Street, Alexandria, Virginia. A questo proposito si veda anche l’articolo di Stephen Fidler apparso sul Financial Times il 22 maggio 2005 a commento della periodica riunione dei paesi aderenti al Trattato di non proliferazione nucleare, «Why Nuclear Containment is Breaking down».
[9] «La difesa della Cina può essere considerata sul piano tecnologico paragonabile a quella degli USA negli anni Sessanta, quando le capacità nucleari tattiche americane avevano raggiunto il loro massimo. La Cina potrebbe avere difficoltà ad affondare una portaerei americana nello stretto di Taiwan con mezzi convenzionali, ma non con armi nucleari». Così Ivan Oerlich in «Nuclear Weapons after the Cold War», Occasional Paper n. 3, gennaio 2005, Federation of American Scientists.
[10] La dottrina della guerra preventiva risponde a questa logica. Come ha rivelato uno studio effettuato dal Pentagono diffuso dal Washington Post, nell’articolo di Walter Pincus, «Pentagon Revises Nuelear Strike Plan, Strategy lncludes Preemptive Use Against Banned Weapons», 11 settembre, 2005.
[11] Zia Mian e M.V. Ramana, «Feeding the Nuclear Fire»,in Foreign Policy in Focus, 20 settembre 2005.
[12] Sul fatto che le cooperazioni fra organizzazioni regionali di Stati rappresentino una via d’uscita a questa impasse, sono d’accordo anche consiglieri diplomatici del calibro di Richard N. Haass. Il loro limite è rappresentato dal fatto che considerano per esempio la NATO, l’attuale Unione europea, l’ASEAN, come degli interlocutori capaci di affermare e difendere una politica alternativa a quella degli USA, ma questo evidentemente non può avvenire. Si veda in proposito Richard N. Haass, «The Opportunity: America’s Moment to Alter History’s Course», Public Affairs, giugno 2005.

 

 

 

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