Anno XLIX, 2007, Numero 1, Pagina 61
L’AVANGUARDIA EUROPEA
Introduzione: alle origini del fallimento del referendum.
La campagna francese in favore del «sì» è stata condizionata da un doppio malinteso sia generazionale, trattandosi della visione dell’Europa, sia per quanto riguarda la fiducia politica. Da un lato, l’argomento usato, incentrato sulla pace e sulla prosperità, si è dimostrato superato. Esso non è più in sintonia con le attese di oggi e ha un significato solo per le popolazioni dei nuovi paesi membri o per le generazioni più vecchie dei paesi fondatori: in effetti i loro figli più giovani ritengono che la guerra in Europa occidentale non sia più possibile. Quanto all’argomentazione secondo la quale dalla costruzione europea deriva la prosperità, essa è negata nei fatti dalla constatazione che, da circa un quarto di secolo, nei paesi che costituiscono il cuore dell’Europa occidentale persistono una elevata disoccupazione e una crescita lenta. D’altra parte, il secondo malinteso deriva dalla mancanza di sincerità dei governi quando parlano di Europa. Al di là di discorsi edulcorati sulle virtù della costruzione europea, questi dirigenti non perdono occasione di rivolgere accuse a Bruxelles ogni volta che si tratta di far accettare qualche riforma liberale impopolare, dimenticando spesso che il loro rappresentante al Consiglio l’ha approvata. Questo linguaggio ambiguo, a forza di essere usato, proietta nei popoli l’immagine di una Unione europea che detiene illegittimamente, dato che è considerata tecnocratica, un potere supremo occulto.
In verità, il «deficit democratico» non deriva dai tecnocrati della Commissione, del resto poco numerosi, ma piuttosto dalla debolezza dell’integrazione. I principi su cui si basa una confederazione sono per definizione meno democratici, dato che poggiano sul potere degli Stati, ossia dei rappresentanti diretti o indiretti dei governi (ministri che siedono nei Consigli, ma ancora più spesso commissari). Le decisioni sono dunque prese da rappresentanti del popolo in secondo o terzo grado. Per di più il Trattato costituzionale europeo manca di un contenuto forte, mentre il Trattato di Maastricht conteneva il progetto di una moneta unica e andava a toccare un elemento importante della sovranità. Questa intrinseca debolezza ha avuto perciò come conseguenza le pesanti critiche degli oppositori del Trattato suddetto, mentre i suoi sostenitori non potevano che contrapporre una difesa molto timida. Da ultimo, l’assenza di una finalità ben chiara per l’UE ha costituito un handicap ulteriore: l’obiettivo federale ufficiale è troppo vago ed è presentato come troppo lontano perché siano percepiti i benefici, mentre nello stesso tempo la mancanza di limiti geografici (il problema turco ha fortemente influenzato l’elettorato), e una estensione indefinita come suo corollario, non possono che indebolire la coesione dell’insieme e fomentare le paure.
La presa di coscienza dell’impasse alla quale conduce il cosiddetto «metodo Monnet», che tende a dare la priorità alle realizzazioni concrete, apre la strada a un’altra forma di costruzione. Questa implica progettare una entità federale con una propria coerenza interna. Ma questo progetto di Stato federale dovrà nondimeno coordinarsi con il mantenimento di una Unione confederale.
I limiti del metodo Monnet.
Jean Monnet ha proposto di iniziare l’avventura europea attraverso realizzazioni concrete, che creassero delle «solidarietà di fatto», la cui accumulazione si credeva che generasse un processo irreversibile. Nel dar vita a cooperazioni senza leadeship politica, la costruzione europea ha finito per affondare nelle sabbie mobili. Questa via ha portato certamente a dei successi (il carbone e l’acciaio, l’unione doganale e commerciale, la politica agricola comune o PAC, dei progetti in campi specifici, al di fuori delle istituzioni comunitarie, quali Airbus o Ariane ecc.), ma essi rimangono dispersi in diversi settori, senza essere sfruttati politicamente attraverso la creazione di una sola volontà politica. Da ciò derivano spesso situazioni provvisorie o poco soddisfacenti. L’Unione economica e monetaria (UEM) è così definita come una «moneta senza Stato». Paradossalmente, certi progressi rispecchiano in parte un semplice ritorno alla situazione degli anni prima del 1914 e non devono essere troppo enfatizzati: la Belle époque, in effetti, conosceva già le parità fisse e la libera circolazione delle persone in Europa.
Ora, l’Europa non deve più «cominciare», anche se lo spirito del «metodo Monnet» era valido per il suo avvio. Era implicito che in seguito, una volta raggiunto un certo grado di integrazione, sarebbe stato sostituito da un metodo più diretto. Oggi ciò che è stato messo in comune è obiettivamente enorme: il diritto dell’Unione o le sue norme condivise investono quasi tutti i settori della vita quotidiana, senza tuttavia che il fulcro della sovranità degli Stati membri sia stato messo in forse, tranne la politica monetaria.
Gli attuali malfunzionamenti delle istituzioni europee producono due ostacoli opposti, legati alla loro logica essenzialmente confederale. Da una parte l’Unione subisce la paralisi decisionale a meno che non ci sia consenso: i problemi sono rimandati, mai risolti, come ad esempio la PAC che viene continuamente riformata, come la questione degli sconti alla Gran Bretagna, i limiti del budget dell’Unione… Su molte grandi questioni ciò è francamente penalizzante. Dall’altra parte si ottiene il consenso forzando la mano ai più deboli e questa «tirannia del consenso» evidentemente danneggia i più piccoli e favorisce i grandi: così, ad esempio, l’Austria ha dovuto recentemente rinunciare alla sua opposizione al processo di adesione turca per non compromettere le possibilità di adesione della Croazia, che le è molto vicina dal punto di vista storico ed economico.
Tali difficoltà legate al principio confederale — e aggravate dalla sconfitta dell’approfondimento, proposto imprudentemente solo dopo il grande allargamento — spingono a rimettere la costruzione europea sul giusto cammino mediante l’integrazione nelle sfere più importanti della sovranità: una integrazione dall’alto, e non più solo dal basso, è la condizione stessa del federalismo.
Il progetto federale.
L’entità federale deve poter funzionare in modo indipendente. Tale «nucleo duro» non avrà evidentemente l’estensione dell’Unione attuale, dato che oggi manca l’accordo di tutti sulla finalità europea; è chiaro infatti che la Gran Bretagna, per esempio, ha un suo progetto e che esso non è federalista. In queste condizioni, la suddetta entità meno estesa, nelle competenze federali legate alla sovranità, dovrà funzionare senza essere ostacolata dalle decisioni o non-decisioni degli Stati. Per questa ragione tale federazione deve rispettare il principio democratico, che presuppone una legittimità basata sul suffragio universale diretto per la designazione dei dirigenti o dell’assemblea di fronte alla quale essi sono responsabili. Il principio di efficacia esige anche che ci sia un Capo: le esperienze di collegialità nel dirigere uno Stato sovrano, sia pure federale, non sono per niente efficaci e sono del resto del tutto eccezionali. La Confederazione elvetica, raro esempio di una tale collegialità, presenta d’altronde una peculiarità in materia di sovranità per il suo tradizionale neutralismo. In ogni caso la federazione dovrà avere le proprie istituzioni distinte da quelle dell’Unione nel loro funzionamento e nella loro composizione.
La federazione deve essere formata da Stati che abbiano rinunciato alla sovranità nei rapporti di politica estera. Sulla base del modello austro-ungarico degli anni dal 1867 al 1918 — anche se logicamente la Federazione europea presuppone una logica di associazione e non di divisione che la distingue dallo Stato nato dall’Ausgleich — la base minima federale deve comprendere almeno tre ministeri: la difesa, la diplomazia e le relative finanze. La prima naturalmente esclude i paesi neutrali che non fanno parte dell’Unione europea occidentale (UEO) e la terza chiude la porta a quelli che rifiutano l’Unione economica e monetaria (UEM). La presenza di questi tre pilastri fondamentali evidentemente non impedisce alla federazione di dotarsi di altre competenze, anche se essi sono sufficienti, a priori, per garantire la sua esistenza. Rimane la questione, più culturale, del mito unificatore. Per l’Austria è stato l’Imperatore, la legittimità dinastica dei paesi ereditari, la religione cattolica, la storia comune… Per quanto riguarda la Federazione europea non è certo che si possano manifestare subito sentimenti di una coscienza collettiva altrettanto radicati. Ma non è forse il destino di tutti i progetti federali quello di forgiarsi il proprio mito unificatore e creatore di un vincolo indissolubile? Nel caso degli Stati Uniti, in ogni modo, la federazione non è divenuta indissolubile che molto tardi, dopo la vittoria nordista nella guerra di secessione.
Gli ostacoli non sono insormontabili, poiché le opinioni pubbliche in Europa sono pronte a recepire il discorso federale. La rinuncia alla fierezza nazionale è tanto più facile in quanto molti europei se ne sono fatta una ragione dopo i due conflitti mondiali che hanno portato alla rovina il continente e dopo la fine degli imperi coloniali. Ci saranno resistenze molto più forti in seno agli apparati statali, e in particolare alle amministrazioni competenti nelle sfere relative alla sovranità. La rinuncia al rango di potenza internazionale è soprattutto difficile per i grandi: la Germania, l’Italia e soprattutto la Francia in quanto membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, dotato del diritto di veto. Per la Francia si tratta di rinunciare a questo posto privilegiato in seno al concerto delle nazioni. Per quanto riguarda la Germania, le conviene rinunciare alla incerta prospettiva di ottenere per sé stessa tale posizione. All’Italia sarà sufficiente, più semplicemente, accettare di non battersi più per impedire l’attribuzione di detto seggio alla Germania. Gli Stati europei più piccoli non si fanno più illusioni sulla loro potenza e si accontentano della vantaggiosa protezione da parte dell’Alleanza Atlantica. Conviene per contro prevedere delle modalità concrete di integrazione, quale la fusione dei comandi militari e dei corpi diplomatici, che di certo susciterà le resistenze che caratterizzano tutte le fusioni fra organizzazioni separate. Infine converrà metter da parte le paure diffuse: l’accettazione di uno Stato federale europeo dotato di armamenti nucleari non sarà di certo facile per l’opinione pubblica tedesca, pacifista e del tutto contraria al nucleare civile.
Dato che sono distinti nel loro funzionamento, lo Stato federale e l’Unione dovranno coordinarsi fra di loro, non essendo evidentemente lo scopo del primo quello di eliminare la seconda.
La Federazione dovrà potersi coordinare con l’UE confederale.
Questa necessità di coordinazione tra federazione ristretta e confederazione più estesa è soddisfatta dal principio stesso di «nucleo duro». La prima è chiaramente caratterizzata da una più solida integrazione rispetto alla seconda. L’appartenenza alla UE è un evidente presupposto per qualsiasi partecipazione al nucleo federale, così come è indispensabile l’appartenenza alle forme più avanzate di integrazione dell’Unione, come l’UEM, l’UEO, lo spazio Schengen, ecc. I confini del nucleo sono così disegnati in negativo, sulla base di queste condizioni, che escludono di fatto gli inglesi e gli scandinavi. La volontà dei popoli di partecipare o meno al suddetto progetto federale opererà un’ultima selezione fra i rimanenti paesi. Questa volontà dovrà essere sancita da una ratifica dei cittadini ed evidentemente il referendum appare necessario per una scelta così decisiva. Infine, la creazione di un nucleo federale presuppone il raggiungimento di una massa critica con la partecipazione di due o tre grandi paesi fondatori, e implicitamente di un numero maggiore di piccoli paesi, qualunque sia la loro anzianità come membri delle Comunità o dell’Unione.
La federazione prende il posto, a pieno diritto, dei suoi membri per le politiche dell’UE mantenendo le competenze federali che le sono state assegnate. Ciò produce inevitabilmente due conseguenze. Da una parte la massa critica del nucleo duro di fatto impone all’Unione i propri orientamenti come prioritari, mentre gli Stati membri che non fanno parte del nucleo duro sono posti ai margini, per non dire ai confini. Questi ultimi paesi non sono di certo obbligati a partecipare o ad aderire, ma perdono la possibilità concreta di opporsi alle grandi scelte fatte dalla federazione; come contropartita essi beneficiano di una evidente protezione di cui non devono sopportare i costi. Da tutto ciò deriverà una qualche forma di dissociazione, dato che le politiche confederali dell’Unione nei settori di competenza federale, come ad esempio la Politica europea di sicurezza comune (PESC), tenderanno naturalmente a svuotarsi in seguito a questa perdita di autonomia dei paesi marginali. I due processi di convergenza delle politiche dell’Unione e della federazione nei settori di competenza di quest’ultima, come la scomparsa di politiche confederali autonome in questi settori, vanno naturalmente di pari passo, senza che appaia possibile evitarlo.
Tuttavia, il fatto che gli altri Stati dell’Unione mantengano l’indipendenza presuppone che i membri della federazione siano rappresentati singolarmente in seno alle istanze dell’Unione per ciò che riguarda le competenze di carattere confederale. In effetti, se la federazione fosse considerata come un solo Stato membro in seno alle istituzioni dell’Unione, ciò comporterebbe sia una eccessiva diminuzione del suo peso demografico, sia una situazione in cui, tenendo conto del peso della massa critica, gli altri Stati membri sarebbero messi completamente a tacere, dato che non potrebbero mai raggiungere la maggioranza senza allinearsi con lo Stato federale europeo al quale hanno scelto di non aderire. Quest’ultima ipotesi condurrebbe a una situazione antidemocratica e assurda, che farebbe dell’Unione europea uno strumento di dominio da parte della federazione sui paesi marginali e nessuno avrebbe interesse a parteciparvi. Per evitare che la UE entri in crisi, è importante fare in modo che, nei settori in cui la federazione non avrà alcuna competenza (e dunque, a priori, nella maggior parte dei settori che non riguardano la sovranità esterna), gli Stati federati rimangano partner a pieno titolo della confederazione e non siano sostituiti dalla federazione. Tale situazione, per quanto singolare possa apparire, non è certo la sola questione relativa al pericolo che l’importante edificio che costituisce l’UE si disgreghi in seguito alla nascita della federazione. Essa presenta tuttavia il vantaggio di far sì che i governi degli Stati federati mantengano un ruolo nella politica estera — per quanto limitato alla diplomazia «intra-confederale» — in seno alle istanze della UE. In questo modo la federazione diventa più accettabile all’esterno come all’interno dei propri confini.
La creazione di una tale federazione indipendente, ma in simbiosi con l’Unione, sarà intanto largamente sufficiente a creare un effetto di attrazione. In realtà tutti gli Stati confederati, i cui popoli vorranno avere voce in capitolo nei settori di competenza della federazione, avranno interesse ad aderirvi. Mentre quest’ultima avrà interesse a estendersi progressivamente, dato che la sua ragion d’essere per quanto riguarda la sovranità verso l’esterno la condurrà in modo naturale a voler aumentare il proprio peso. I limiti di questa estensione saranno dettati dalla preoccupazione di non mettere in pericolo la coesione interna nell’aumentare eccessivamente la sua eterogeneità culturale. Converrà nondimeno occuparsi piuttosto presto di questa questione dei limiti, per evitare il paradosso dell’UE attuale, che si pone la questione dei confini solo dopo aver promesso o accettato degli allargamenti senza aver prima enunciato i principi minimi di coesione. Oltre a tutto ciò, l’aumento progressivo delle competenze federali, conforme alla tendenza storica che si può osservare in molte federazioni, rafforzerebbe l’interesse degli altri Stati dell’UE ad aderire al nucleo. Questa logica dell’estensione progressiva del nucleo federale iniziale ne fa una vera avanguardia europea.
Conclusione: quale metodo utilizzare?
La presa di coscienza della necessità di andare più avanti nell’integrazione e di superare gli ostacoli posti attualmente dall’Unione è sempre più diffusa. Tracciato questo abbozzo del nucleo federale, e compresa la necessità di una stretta coordinazione con l’Unione per preservarne gli acquis, naturalmente ai partigiani di tale progetto federale si pone la questione dei mezzi. Tale processo di costruzione di una avanguardia federale potrà essere avviato solo se una parte importante della classe politica e delle opinioni pubbliche è convinta della sua validità. Allora, per compiere scelte decisive, occorrerà fondarsi su maggioranze elettorali.
Il ruolo dei militanti federalisti oggi è dunque quello di convincere, e due vie complementari sono davanti a loro. In primo luogo bisogna far schierare i cittadini europei e i loro dirigenti, coinvolgendoli in un problema certamente già conosciuto, ma la cui soluzione attraverso il federalismo non si impone ancora come una cosa evidente agli occhi di tutti. È necessario rendere pubblico il progetto per suscitare il dibattito, e i federalisti dovranno diffondere la loro soluzione attraverso i media, presso la classe politica e gli opinionisti, così come in seno ai vari partiti politici dei quali fanno parte. È solo in questo modo che essi costringeranno i governanti e i partiti a schierarsi sul progetto federale. In secondo luogo, tocca a loro, in seno alle rispettive formazioni politiche, spingere verso una evoluzione di tipo politico dell’Unione, il cui funzionamento confederale attuale, più che il frutto di un quadro istituzionale, riflette l’eredità di un metodo di costruzione dell’Europa concepito come la messa in opera di una cooperazione internazionale, dove ciascuno mantiene a livello nazionale le proprie idee, i propri valori e le appartenenze politiche. Al contrario, il livello europeo deve rientrare nel campo della concreta competizione politica democratica e perciò deve cessare di essere soprattutto il quadro di decisioni basate sul consenso. Solo così il confronto politico e i giochi di potere susciteranno l’interesse dei media e dell’opinione pubblica per l’Europa. A questo scopo bisognerà fare di tutto per sciogliere la «grande coalizione» fra il Partito popolare europeo (PPE) e il Partito dei socialisti europei (PSE), mantenendo la quale si neutralizzano politicamente le istanze europee di carattere federale quali la Commissione e il Parlamento europeo. Abolire questo tabù del consenso, che è necessario solo in questioni di ordine costituzionale, non solo può ridare un peso alle istituzioni europee, ma costituisce un presupposto per l’esistenza di una Unione europea pienamente democratica, permettendo ai cittadini europei di scegliere, attraverso una maggioranza parlamentare modificabile, una équipe politica e il suo capo, il Presidente della Commissione. Quest’ultima cesserà così di essere formata da rappresentanti sia del PPE che del PSE, cosa che mantiene in primo piano i rappresentanti degli Stati. Paradossalmente, abolire il criterio del consenso sul contenuto delle politiche europee è senza dubbio il mezzo migliore — dato che apre la strada a una competizione politica e a veri dibattiti con gli elettori europei — per creare le condizioni affinché si manifesti un vero consenso sulle istituzioni necessarie alla creazione di una federazione.
Frédéric Le Jehan