IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno LII, 2010, Numero 2, Pagina 128

 

 

LO STATO E LA SFIDA DELLE MAFIE
 
 
Cosa Nostra. ‘Ndrangheta. Camorra. Sacra Corona Unita. Triadi cinesi. Mafia russa. Yakuza giapponese. Balabar turca. Cartelli colombiani e messicani. In una parola mafia. Questo nome definisce quella particolare forma di criminalità organizzata capace di realizzare guadagni immensi attraverso traffici illeciti e fenomeni di corruzione sociale, senza lasciare immune quasi nessuna area del pianeta; un cancro del vivere civile costituito da una organizzazione di potere che agisce espressamente per accumulare ricchezza, acquisendo influenza politica e riconoscimento sociale attraverso la violenza organizzata. Questo è il tratto distintivo delle mafie: esercizio dell’iniziativa in campo economico e politico attraverso la forza (dalla corruzione all’assassinio) praticata mediante una struttura organizzata duratura. Tale uso illegittimo della forza viene praticato laddove il monopolio legittimo della forza sarebbe prerogativa esclusiva dello Stato in quanto baluardo delle libertà civili e politiche, della democrazia, dell’uguaglianza, della solidarietà. Le mafie quindi “non sono solo un problema criminale, ma rappresentano una questione democratica di primaria grandezza perchè in alcune aree controllano il voto dei cittadini, condizionano i partiti, eleggono i propri rappresentanti o addirittura i propri affiliati nelle assemblee elettive, dal piccolo comune al Parlamento, e possono farlo perchè riscuotono consenso e sono ben inserite nel contesto sociale dove vivono”[1]. Dove invece non controllano direttamente il territorio, l'economia legale può venire inquinata dai capitali di origine mafiosa che vengono riciclati nei circuiti finanziari delle Borse, nelle partecipazioni societarie e negli investimenti privati. “In quest’alba del nuovo millennio c’è un unico, grande mercato illegale e criminale che ha mercificato tutti i prodotti commerciabili — inanimati e animati, cose e persone”.[2]
Scopo di questa nota sarà pertanto analizzare l’origine e le cause di questo potere organizzato anti-democratico, ed il suo rapporto con lo Stato nell’attuale scenario di economia globalizzata, soffermandosi su alcuni casi specifici e servendosi di alcuni esempi. In secondo luogo si avanzeranno argomentazioni a sostegno della tesi che un’efficace strategia di contrasto alle mafie è un problema politico prima ancora di essere una questione di repressione criminale, e in quanto tale tocca i fondamenti dello Stato stesso soprattutto in Europa.
 
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Il punto di partenza per comprendere le origini delle mafie va individuato nel suo rapporto con l’affermazione dello Stato moderno in questi ultimi due secoli. Fino al Settecento, per tutta la durata dell’Ancien régime, i paesi europei furono interessati da fenomeni molto profondi di banditismo e brigantaggio, che creavano numerosi problemi sociali oltre che di sicurezza per le persone. Essi scomparvero da intere aree d’Europa solo quando il processo di acquisizione del monopolio della forza legittima dello Stato moderno fu in grado di realizzare, almeno parzialmente, “una grande opera di incivilimento della popolazione ad esso sottoposta, i cui aspetti fondamentali sono il progresso morale connesso con l’educazione alla rinuncia alla violenza privata nella tutela dei propri interessi e il progresso economico-sociale reso possibile dalla certezza del diritto”.[3] Lo Stato moderno nasce quando il potere della forza viene prima accentrato nelle istituzioni statali e viene poi accettato e riconosciuto dai soggetti ai quali si impone. Solo quando l’autorità detentrice del potere viene ritenuta legittima il rapporto tra Stato e cittadino è diretto, senza mediazioni che non siano quelle istituzionali. Invece, quando il monopolio della forza legittima, pur essendo effettivo, non viene accettato dalla popolazione perchè viene percepito come azione politico-amministrativa inefficace e incapace di realizzare le aspirazioni della società, possono sorgere nuovi soggetti che, fungendo da mediatori tra le istituzioni e i cittadini, si fanno implicitamente garanti dell’ordine sociale e politico in determinate aree. Le cause di tale fenomeno sono molteplici: acquisizioni territoriali, migrazioni di migliaia di persone in pochi anni, mutamenti troppo rapidi nella compagine politico-economica, arretratezza e inefficienza della macchina amministrativa. L’assenza, o il fallimento, o anche solo il ritardo dello Stato nel creare le condizioni per promuovere la stabilità e l’integrazione sociali, genera un vuoto che produce una cultura della diffidenza verso le istituzioni e che lascia spazio a forme alternative di organizzazione e autorità che in molti casi raccolgono il consenso dei cittadini. Questo è il terreno di coltura di tutte le mafie. E’ così che entra in scena un nuovo soggetto che conquista il monopolio della violenza organizzata, caratterizzata dal fatto di essere illegittima, iniqua e arbitraria.
Le classi dirigenti locali generalmente non si oppongono all’ascesa della mafia, perché essa appare in una posizione servente, non sostitutiva rispetto al loro potere. Tale scelta è strategica: la violenza organizzata della mafia non deve suscitare una reazione politica delle istituzioni di tipo repressivo e pertanto si rivolge solo contro gli individui o i gruppi che non accettano l’ordine sociale-economico stabilito dalle classi dirigenti (che si servono della mafia), oppure che creano problemi all’interno del sistema che la stessa mafia stabilisce nei settori economici sotto il suo controllo (mercati legali di basso livello economico e mercati illegali, quali commercio di armi, stupefacenti, usura, prostituzione ed essere umani).
Per comprendere pienamente il fenomeno mafioso, esso va pertanto inquadrato come un problema politico e non più solo come un problema di repressione criminale. Ciò che viene percepito dai mass media e amplificato nel pensiero collettivo è quasi esclusivamente la mafia nella sua versione militare(che si manifesta attraverso un alto tasso di violenza), che rappresenta però solo il braccio armato di una forma di governo criminale del territorio gestito da persone spesso legate al mondo imprenditoriale e politico e capaci di esercitare un forte controllo sociale. Tra le varie forme storiche di manifestazione del fenomeno mafioso, il caso italiano (con le sue propaggini europee) e quello americano sono efficaci punti di partenza per la riflessione sulle strategie di contrasto.
 
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In Italia, le mafie si sono radicate nelle regioni meridionali del paese: in Campania vi è la Camorra; in Calabria la ‘Ndrangheta; in Sicilia Cosa Nostra; in Puglia la Sacra Corona Unita. Esse hanno ormai propaggini nel Nord del paese dove concorrono con le mafie straniere. Le mafie nacquero nel corso dell’Ottocento quando, dopo l’abolizione formale del sistema feudale con l’occupazione francese durante le guerre napoleoniche, si verificarono due fenomeni intrecciati tra loro: da un lato i baroni cercavano di difendere le loro vecchie prerogative mantenendo squadre armate e la nascente borghesia agraria aveva bisogno di una forza d’urto per imporsi nei comuni,[4] per la conquista fraudolenta delle terre demaniali e per la protezione dei propri terreni. Dall’altro gli elementi dei ceti medi e dei ceti popolari più vivaci e più intraprendenti capirono la possibilità di vendere la loro unica, ma preziosa mercanzia: la capacità di esercitare la violenza in modo organizzato.[5]
Fu questa una novità assoluta nello “scenario della criminalità, nel senso che per la prima volta nella storia d’Italia, gruppi di uomini si organizzavano e decidevano non solo di agire contro le leggi usando la violenza, ma soprattutto di farsi proprie leggi, creare associazioni, forme organizzative, strutture stabili, organismi in grado di durare nel tempo inventando ed elaborando linguaggi, modi di pensare, valori, una visione della vita e dei rapporti con gli altri, persone o istituzioni che fossero”.[6] Il rapporto tra proprietari e banditi prezzolati, che richiamava alla memoria un rapporto di tipo feudale, subiva così un salto di qualità (anche dopo l’unità d’Italia, a causa della debolezza delle giovani istituzioni nazionali) perché l’affermazione dello Stato aveva reso illegale la violenza praticata prima dai nobili. Ma al tempo stesso lo Stato (prima borbonico e poi nazionale), non essendo in grado di garantire la sicurezza nei traffici economici e la stabilità sociale, si vide costretto ad accordare l’impunità a coloro che, facendo uso di bande armate private, mantenevano l’ordine sociale spegnendo i focolai di ribellione. La mafia in questo contesto (soprattutto in Sicilia e in Calabria) rappresentò sostanzialmente il braccio armato di una forma di governo del territorio parallela allo Stato. Essa si organizzò sin da subito al proprio interno in una bassa mafia (gli specialisti della violenza e dei traffici illeciti) e in una alta mafia (costituita dai vertici dell’organizzazione). Quest’ultima, fungendo da cerniera tra la parte collusa del ceto politico e della grande imprenditoria e gli strati inferiori della società, garantisce la funzionalità dell’esercizio della violenza. L’affermazione della mafia è stata garantita quindi da una parte della classe dirigente locale (che era anche parte della classe politica nazionale) che ha tratto un indebito vantaggio economico e politico nel servirsi di una violenza organizzata e controllata sia nei confronti di braccianti e operai nelle rivendicazioni sociali e nelle elezioni politiche, sia nei confronti di concorrenti estranei o nemici di tale sistema.
Si spiega solo così l’inaudita violenza in Sicilia di proprietari terrieri e mafiosi all’indomani della riforma agraria avviata nel secondo dopoguerra che minacciava sia gli interessi materiali dei proprietari terrieri, sia gli interessi dei mafiosi poiché comportava il venir meno della loro funzione sociale di mediazione tra classi sociali. L’equilibrio mondiale stabilito con l’inizio della Guerra fredda giustificò persino politicamente, in funzione anti-comunista, il silenzio sulla violenza della mafia contro il movimento contadino e l’acritico sostegno elettorale al partito di governo di allora, la Democrazia cristiana.
Con l’entrata del soggetto pubblico nell’economia del Mezzogiorno, gli interessi economici divennero enormi, e quindi l’intreccio tra proprietà, mafie e politica si fece ancora più complesso. L’avvio della politica di spesa pubblica provocò una trasformazione nelle mafie italiane: divennero mafie imprenditrici secondo la nota definizione di Arlacchi. Le imprese appaltatrici delle grandi opere nel Sud Italia, molte delle quali situate proprio nel Nord, strinsero accordi e patti con le mafie. Esse concessero subappalti e assunsero guardiani mafiosi che assicuravano il rispetto della proprietà da furti e danneggiamenti e la garanzia di una limitata attività sindacale.[7] Ciò dimostra come di fronte alla violenza praticata dalle mafie il mercato dipende comunque dalle coscienze dei propri operatori: finché il dogma del capitalismo rimane esclusivamente quello del “massimo profitto con il minimo rischio” la mafia è solo un costo da sopportare per gli imprenditori fino a che presenta dei vantaggi economici. La responsabilità degli imprenditori nell’arricchire con i soldi dei contribuenti, tramite gli appalti pubblici, i mafiosi fu inferiore solo a quella della classe politica, titolare della decisione finale sulle richieste di aumento negli appalti. L’intervento statale nel Mezzogiorno aveva questo di particolare: favoriva il crescere del consenso attorno a quei politici che facevano della spesa pubblica una loro specialità, sia da parte dell’economia legale impegnata nel sostegno all’economia sottosviluppata, sia di quella illegale che si inseriva nel circuito degli affari grazie al meccanismo degli appalti e dei subappalti. La risposta della politica italiana fu molto lenta e disorganica e si dovette attendere il clima di autentica emergenza creatosi in seguito alla stagione delle stragi degli anni Ottanta e Novanta per avere la reazione dello Stato con inchieste giudiziarie e processi nei confronti dell’organizzazione di Cosa Nostra. In una situazione di normalità politica, infatti, senza una reazione in particolare della società siciliana, essendo intere aree della regione assistite economicamente dalla mafia, il voto condizionato da Cosa Nostra avrebbe potuto sconvolgere gli equilibri politici del paese. In molte aree della Sicilia (come in quelle della Calabria e della Campania) il voto ha infatti spesso un valore singolare: per molte persone rappresenta un commercio che aiuta a ottenere un lavoro, una licenza, un certificato in municipio o il saluto rassicurante, protettivo, di un notabile.[8] In molte aree caratterizzate da una estrema povertà rurale, la dinamica economica illegale sostiene i redditi reali e favorisce addirittura l’inizio di un processo di accumulazione capitalistico. Per questo motivo il problema delle mafie rimane soprattutto un aspetto della questione dell’affermazione del ruolo dello Stato.
 
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La storia della mafia italo-americana e della legislazione anti-mafia negli USA rappresenta un ulteriore prova della tesi che una strategia di contrasto alle mafie dipende innanzitutto dagli equilibri politici, dalla capacità dell’organizzazione mafiosa di ritagliarsi un ruolo in contiguità con il potere statale, e dal livello di influenza della globalizzazione sull’economia.
Agli inizi del Novecento la frenetica immigrazione europea scaricava sulle banchine americane milioni di individui ricchi solo di speranze. “In genere non amavano più il paese che li aveva spinti ad andarsene, la patria incapace di offrire loro un mestiere produttivo, ma non provavano nessun sentimento verso il nuovo Stato”.[9] La poca lungimiranza delle politiche sociali dell’epoca generò ghetti nelle nascenti metropoli americane (si rammentino le varie Little Italy o China Town) dove bande criminali senza scrupoli si conquistarono facilmente il rispetto sociale dei migranti offrendo al loro arrivo protezione e mutuo soccorso nell’indifferenza delle istituzioni. Nella sola città di New York si stima ci fossero negli anni ’30 circa un milione di Italiani tra immigrati e discendenti (il 15% della popolazione della metropoli). Comunque le bande di delinquenti per lo più estorcevano denaro ai loro compaesani e non avevano l’organizzazione tipica della cosca mafiosa. Il salto di qualità avvenne grazie alla congiuntura di due eventi: l’approvazione del Diciottesimo emendamento che criminalizzava la produzione e il commercio di alcolici (il proibizionismo) e l’ascesa del fascismo in Italia. Il regime fascista fin dal suo inizio fu spietato e implacabile contro la mafia cosiddetta militare, benché non osasse toccare né la borghesia mafiosa né la classe dirigente che dalla mafia aveva tratto vantaggio fino a quel momento (soprattutto contro le rivendicazioni dei contadini e delle nascenti leghe operaie). I mafiosi siciliani che riuscirono a sfuggire alla repressione fascista emigrando in America, compresero subito le enormi prospettive di profitto che si schiudevano nel contrabbando e nella produzione di alcolici. Ma per realizzare la produzione clandestina e il contrabbando di alcolici era necessaria un’organizzazione che le bande di strada non avevano. “Il proibizionismo era servito da catalizzatore in grado di trasformare le bande di periferia degli anni Venti in corporazioni regionali e nazionali gestite senza difficoltà. (…) Fin dall’età di venti o trent’anni i giovani delle nuove generazioni erano provetti nel coordinare piccoli eserciti di contrabbandieri, camionisti, esperti nel carico delle merci e nell’uso delle armi. Inoltre i giovani milionari malavitosi avevano imparato a riciclare il denaro per evitare i problemi dell’evasione fiscale, e sapevano come corrompere e manipolare i politici e come stabilire i contatti con le forze dell’ordine per prevenire grattacapi con la legge”.[10]
Le due innovazioni di carattere organizzativo interno che permisero alle varie fazioni di criminali italo-americani di prosperare indisturbate negli Stati Uniti per decenni coinvolsero tutte le borgate criminali (che agli inizi degli anni ’30 erano circa una ventina sparse sul territorio nazionale, con le cinque borgate più forti concentrate a New York). Esse si sarebbero innanzitutto dovute dotare di un codice di regole (che prevedeva il fatto di avere determinate gerarchie; il fatto che ciascun affiliato prestasse giuramento assoluto di lealtà alla mafia noto come omertà; che fosse garantito il retaggio italiano di ciascun membro della cosca; che fossero congelati i rapporti di forza tra le varie borgate per evitare i tentativi di scalate; che ciascun affiliato garantisse l’impegno a vita nell’organizzazione); questo codice era tale da “mettere la famiglia stessa nelle condizioni di continuare a funzionare con efficienza, anche se il boss o altri gerarchi venivano rimossi. L’organizzazione sarebbe stata al di sopra di tutto: le sue parti, sostituibili”.[11] Una simile organizzazione era funzionale sia alla necessità di sfuggire agli ordinari mezzi di repressione dei sistemi penali allora vigenti (e soprattutto contro le infiltrazioni della polizia tra i ranghi della malavita), sia a quella di concentrare la forza d’urto necessaria per eliminare la concorrenza ebrea e irlandese, creando in tal modo monopoli in ogni settore del mercato su cui Cosa Nostra poteva lucrare. La seconda innovazione fu la creazione di una Commissione, “l’equivalente di un consiglio dirigente a livello nazionale che avrebbe stabilito le politiche generali e le normative per tutte le borgate del paese e avrebbe risolto le dispute territoriali o di altro genere. (…) Sarebbe stata analoga a una Corte suprema della malavita, la cui funzione doveva essere quella di prevenire i conflitti pur riconoscendo la sovranità dei gruppi individuali”.[12] Ciò avrebbe evitato inutili faide all’interno della criminalità organizzata italo-americana per disputarsi il dominio sulle attività della malavita.
La principale roccaforte della mafia americana fu nella città di New York ed essa ebbe sedi importanti a Chicago, Tampa, Las Vegas, New Orleans nella Florida e in California. Per decenni la mafia fu in grado di gestire indisturbata i propri lucrosi affari nell’impotenza delle istituzione statali e nell’ignoranza di quelle federali. Come le mafie italiane, essa acquisì il monopolio dei traffici illegali (droga, prostituzione, gioco d’azzardo) e si pose come “utile” mediatore nei conflitti sociali. I malavitosi, fin dagli anni Venti, fungevano da braccio armato sia dei sindacati per intimorire i proprietari di imprese, sia di questi per far desistere i lavoratori nelle loro richieste.[13]
In base alla Costituzione degli Stati Uniti, l’azione repressiva nei confronti delle mafie avrebbe dovuto essere di competenza dei singoli Stati, dato che la Federazione non ha poteri in materia di diritto penale, ma solo poteri speciali nell’ambito dei settori di competenza federale. Ma i singoli Stati americani ad alta presenza mafiosa furono pesantemente condizionati dal voto di scambio e dalla corruzione di politici e giudici (anche questi ultimi, come pure i procuratori, negli Stati americani sono cariche elettive) e non apprestarono mai una legislazione antimafia di loro iniziativa. Lo Stato di New York probabilmente avrebbe subito lo stesso destino dello Stato italiano se non fosse stato membro di una Stato federale di dimensioni continentali. Infatti, per quanto fosse ricca e potente la mafia italo-americana, il suo potere di condizionamento non poteva raggiungere anche il livello federale, proprio per le dimensioni e le dinamiche politiche interne della Federazione. Inoltre, il sistema dei partiti americani, caratterizzati da un basso grado di accentramento del potere, ha fatto in modo che i politici collusi o appoggiati dalla mafia non fossero determinanti all’interno del proprio partito e negli equilibri di potere. Paradossalmente la prima legislazione anti-mafia — meglio conosciuta come legge RICO, Racketeer Influenced and Corrupt Organizations Act — ebbe come protagonista un democratico conservatore dell’Arkansas (Stato agricolo del sud), ossia il membro di un partito che aveva nelle grandi città il proprio elettorato e che spesso ricevette finanziamenti e sostegni elettorali dalla mafia stessa. A differenza del caso italiano la legislazione anti-mafia fu una consapevole scelta politica assunta dal Congresso agli inizi degli anni Settanta. Essendo la RICO una legge federale, i crimini che essa individua possono essere perseguiti su tutto il territorio americano da parte dei procuratori federali e dalla FBI. Il legislatore aveva ben chiara la struttura di potere della mafia grazie ad una serie di inchieste federali su tutto il territorio americano. Secondo tali inchieste, il fenomeno mafioso si costituisce di due componenti, e per ciascuna di esse furono create apposite norme penali, processuali e mezzi investigativi. Una parte del fenomeno è costituito dalla organizzazione vera e propria, e l’altra da una serie indefinita di condotte “contigue” esterne ma funzionali all’organizzazione, portate in essere da imprenditori, professionisti e politici. Per colpire l’organizzazione, la chiave di volta della legislazione anti-mafia consiste nella possibilità di distruggere con una sola sentenza un’intera famiglia mafiosa e soprattutto di incriminare i capi sulla base della semplice appartenenza al sodalizio mafioso.[14] Inoltre fu apprestata una normativa speciale per colpire a fondo i beni materiali dei membri dell’organizzazione attraverso sequestri e confische. Dal lato dei mezzi investigativi fu introdotta la possibilità di effettuare intercettazioni telefoniche e ambientali, e di realizzare uno speciale programma di protezione testimoni attraverso sconti di pena e carcere separato al fine di aggirare e abbattere la rete di legami interni al sodalizio e la regola dell’omertà. Si apprestarono infine specifiche norme penali e anti-trust contro le infiltrazioni mafiose nei sindacati.
Ci vollero circa dieci anni prima che la RICO desse i suoi frutti con una serie impressionante di condanne e confische nei confronti delle organizzazioni criminali. Grazie a questi risultati, anche i singoli Stati iniziarono a legiferare e a perseguire penalmente l’attività mafiosa, sulla base del modello federale, soprattutto a livello di controllo dell’attività amministrativa negli appalti pubblici. Un ulteriore passo da parte delle autorità federali fu poi quello di emettere specifiche norme sui movimenti di capitali nei circuiti finanziari e contro il riciclaggio del denaro guadagnato illecitamente.
 
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Il caso italiano e quello americano sono sicuramente emblematici per quanto riguarda il problema della strategia di contrasto alla mafia. Nel caso italiano, una politica anti-mafia, in una situazione di normalità, avrebbe significato far saltare gli equilibri esistenti e dichiarare una sorta di guerra civile a quella parte del paese che finora aveva vissuto grazie ad attività illecite e illegali, sostitutive di un lavoro dignitoso e remunerato inesistente. Per tale motivo la reazione dello Stato italiano è avvenuta solo quando si è verificato un clima di emergenza nazionale, ma ha potuto produrre solo una disorganica legislazione anti-mafia e si è basata principalmente sulla coraggiosa attività di una parte della magistratura e delle forze dell’ordine; i risultati, pertanto, sono stati molto parziali.
L’esempio americano dimostra invece come, nel caso specifico, le dimensioni e le dinamiche politiche interne al paese abbiano potuto preservare il livello di governo federale dalla corruzione mafiosa al punto da permettergli di vincere l’inerzia dei singoli Stati condizionati dalla presenza della mafia. Inoltre, il quadro della Federazione si è dimostrato indispensabile nella misura in cui il progresso tecnologico e la libera circolazione di persone, merci e capitali all’interno del territorio federale rende enormemente difficile l’azione repressiva delle forze dell’ordine dei singoli Stati e molto facile per i criminali poter sfuggire attraversando dei confini. In questo caso le polizie di ogni singolo Stato devono chiedere l’autorizzazione governativa o quantomeno, se questa non è necessaria, la collaborazione delle altre forze di polizia per poter perseguire il singolo sospettato una volta che questi abbia varcato il confine: è facile immaginare i risultati se la lotta contro le organizzazioni mafiose fosse stata lasciata esclusivamente ai singoli Stati (come invece avviene in Europa).
Il caso americano dimostra anche l’importanza della solidità, della capacità politica e amministrativa e della forza complessiva dello Stato per contenere l’influenza mafiosa: quanto più lo Stato è debole, tanto maggiore sarà il peso delle mafie, reso ancora più forte anche da interessi e interventi esterni. Oggi, in particolare, l’influenza delle mafie è amplificata dalla globalizzazione e dall’interdipendenza economica che erodono progressivamente i poteri di stabilizzazione e di controllo sull’economia da parte dello Stato. Inoltre, il cambiamento in atto negli equilibri economici a livello globale sta procurando il ritorno preoccupante, in molti paesi, di conflittualità sociali di fronte alle quali la politica è impotente e che quindi alimentano, di fatto, la forza della violenza (e non la forza del diritto); a ciò si aggiungano le crisi economiche che, deprimendo la liquidità e il credito legale, inducono le imprese a ricorrere a quello illegale.
L’Europa è, tra tutte le aree del pianeta, quella in cui gli effetti della globalizzazione e dell’apertura dei propri mercati (per via della creazione di un mercato unico e di una moneta unica senza protezione penale) ha favorito la penetrazione di mafie da tutto il mondo. Un paese come la Spagna, per via della diffusa corruzione, viene spesso citata dai rapporti della magistratura italiana come un vero e proprio container di cocaina a livello europeo. Il traffico internazionale di cocaina è gestito per la maggior parte dalla ‘Ndrangheta calabrese che ha saputo costruire rapporti solidi con i cartelli colombiani e messicani per la produzione della cocaina, accordi con i deboli governi africani per lo stoccaggio, e una rete capillare di distribuzione che parte da Spagna, Olanda e Italia. I proventi di questi traffici (la stima approssimativa del solo traffico di droga si aggira intorno ai 300 miliardi di euro) viene poi investita in vari paesi nell’economia legale. La Germania, ad esempio, ha ignorato a lungo l’ingresso nella propria economia di capitali di origine mafiosa ai tempi della riunificazione, dato che quei capitali avevano costo zero per il paese e contribuivano alla riconversione e al rilancio della Germania dell’Est. Nei più importanti paesi europei la legislazione anti-mafia è assente o del tutto inadeguata, e non prevede nemmeno il reato di associazione mafiosa. Poco è stato fatto riguardo ai sequestri e alle confische dei beni mafiosi: paradigmatica, sotto questo profilo, l’assenza di norme che aiutano lo svolgimento delle indagini, come, ad esempio, in Germania, quella che permette di svolgere intercettazioni ambientali in luoghi pubblici o in Spagna quella che consente la perquisizione di un domicilio privato durante le ore notturne.
In questo scenario l’Unione europea non può svolgere alcuna funzione. Essa è prigioniera della sua natura confederale e del suo ruolo di semplice arbitro e regolatore del mercato. Le istituzioni europee, e in particolare la Commissione e la Corte di giustizia, hanno il compito di garantire l’apertura del mercato interno e le libertà economiche, ma non hanno gli strumenti per proteggerle con un sistema penale europeo adeguato. La stessa azione amministrativa dell’Unione, quale l’erogazione di fondi comunitari, diventa fonte di continue frodi nelle aree ad alta presenza mafiosa.
Di fronte a questa drammatica, ancorché silenziosa, emergenza, molti commentatori e lo stesso Parlamento europeo hanno invocato la determinazione di norme penali a livello europeo contro la criminalità organizzata a protezione del mercato e della società. Ma il problema è che il diritto penale, essendo il potere più penetrante ed invasivo, rispetto alle libertà individuali e collettive dei cittadini, di cui dispone lo Stato per regolare la convivenza civile, può essere esercitato solo se legittimato democraticamente dal Parlamento. Invece un ipotetico diritto penale comunitario discenderebbe da fonti come il Consiglio (gestito dai governi nazionali) e la Commissione (solo sulla carta un organo indipendente) che costituiscono l’esecutivo-legislativo di una istituzione non sovrana e derivata (nel senso che i suoi poteri le sono conferiti dagli Stati membri che possono in qualsiasi momento riappropriarsene). Lo stesso Parlamento europeo — come ha affermato il 30 giugno 2009 la corte di Karlsruhe[15] — non fornisce all’Unione europea una legittimazione democratica paragonabile a quella garantita all’interno di uno Stato democratico dall’organo rappresentativo dei cittadini. In primo luogo, perchè si tratta di una istituzione che non rispetta il principio one man one vote, ossia il diritto dei cittadini ad essere rappresentati su un piede di parità. In secondo luogo perchè la divisione dei poteri non esiste ancora a livello europeo e il Parlamento né rappresenta il potere legislativo, né nomina o controlla il governo e non è quindi legittimato a gestire l’amministrazione della giustizia penale.
L’unica possibilità di azione, per i diversi Stati europei, è aumentare il coordinamento tra le polizie giudiziarie e armonizzare le legislazioni nazionali anti-mafia, per evitare che i vuoti legislativi costituiscano incentivi per il sorgere di porti franchi giudiziari. E’ evidente il limite del fatto che la responsabilità di politiche anti-mafia ricada sui singoli Stati, nonostante le mafie controllino traffici illegali transnazionali e siano sempre più legate a quegli aspetti dell’economia globale che sfuggono al controllo delle autorità statali.
Da ultimo, è doverosa la critica sull’efficacia di accordi e convenzioni internazionali, relativi a norme penali contro la criminalità organizzata, per garantire l’uniformità legislativa della materia. Il punto cruciale, infatti, è la mancanza di organismi di controllo e di una polizia giudiziaria e investigativa in grado di perseguire le organizzazioni a livello transnazionale per far sì che non si debba ogni volta partire esclusivamente dalla rilevanza penale sul territorio dei singoli Stati. Infatti, nel caso una cosca mafiosa sia organizzata a livello europeo, le magistrature dei vari paesi possono agire solo sulla base della rilevanza dei reati sul proprio territorio, e il risultato a livello europeo dipenderà solo dalla buona volontà di collaborazione tra le polizie giudiziarie e gli inquirenti dei diversi paesi. Le disposizioni penali di un accordo internazionale verranno poi applicate da organi giudiziari diversi senza che vi sia un organo superiore a livello europeo che ne garantisca una interpretazione uniforme e possa avviare azioni penali a livello europeo contro la criminalità organizzata. Gli Stati non accorderanno mai ad un organo sovranazionale poteri di giurisdizione e di iniziativa contro reati legati alla criminalità organizzata e le mafie, poiché per la loro perseguibilità è necessario un sistema organico di norme penali sostanziali e processuali, comprensivi di penetranti strumenti investigativi e di controllo sull’economia: in poche parole nessuno Stato accetterà di perdere il controllo di un potere repressivo nei confronti dei propri cittadini per cederlo ad un organismo non legittimato democraticamente.
Riassumendo, la genesi delle mafie, come potere organizzato in grado di gestire la violenza, è solo uno dei tanti volti del fallimento del sistema contemporaneo formato da Stati divisi, sovrani e impotenti. La via obbligata per combattere un simile cancro del vivere civile è innanzitutto la creazione di un potere europeo in materia di giustizia. Ma tale potere non può esistere senza un’istituzione sovrana statale europea che sappia tradurlo in una consapevole scelta legislativa penale. Quindi in Europa, nella battaglia per il diritto e la pace solo la creazione di uno Stato federale potrà fornire la possibilità di agire contro le mafie, a difesa della libertà e della democrazia delle nostre società, per tenere alta la fiaccola della giustizia.
 
Davide Negri


[1] E. Ciconte, Storia criminale, Catanzaro, Universale Rubbettino, 2008, p. 15.
[2] Ibidem, p. 16.
[3] S. Pistone, “Federalismo e ragion di Stato”, Il Federalista, 44, n. 2 (2002); il corsivo è stato aggiunto. Lo Stato moderno si fonda su quattro pilastri: il già citato monopolio della forza da parte dell’autorità statale (cioè il disarmo dei privati cittadini); lo Stato di diritto, che grazie ad una serie di istituti e meccanismi indicati dall’ideologia liberale rende il monopolio della forza legittimo; la democrazia — resa possibile dalla rivoluzione industriale e dall’uscita di ampi strati della popolazione dallo stato di povertà materiale — che generalizza la partecipazione dei cittadini alla formazione delle leggi e al controllo del governo; infine lo Stato sociale, che persegue la giustizia sociale costantemente rimessa in discussione dall’economia di mercato.
[4] L’ammodernamento dello Stato, operato nel decennio francese con la sostituzione della forza dello Stato a quella personale in precedenza detenuta dai feudatari, spostò su un piano del tutto nuovo la lotta per il potere. Le nascenti forze borghesi, prima impegnate a contrastare o abbattere la potenza privata dei baroni, erano ora indotte ad indirizzare i loro sforzi alla conquista della direzione dello Stato, intervenendo in prima persona nell’amministrazione della cosa pubblica. Dalle postazioni comunali avevano la possibilità di difendere i loro interessi immediati nonché quelli di più ampia prospettiva. Da A. Lepre, Storia del Mezzogiorno nel Risorgimento, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 127; in E. Ciconte, Storia criminale, op. cit., p. 33.
[5] E. Ciconte, Storia criminale, op. cit., p. 34.
[6] E. Ciconte, Storia criminale, op. cit., p. 31.
[7] Le ditte appaltatrici ebbero anche un ritorno economico perchè gli imprenditori edili accusavano i mafiosi di ritardare i lavori in modo tale da ottenere dallo Stato nuovi finanziamenti per perizie supplementari o varianti in corso d’opera.
[8] N. Gratteri e A. Nicasio, La malapianta, Milano, Arnoldo Mondadori, 2010.
[9] R. Rossotto, FBI, Torino, Edizioni M.B.E., 1972, p. 30.
[10] S. Raab, Le famiglie di Cosa Nostra, Roma, Newton Compton Editori, 2007, p. 45.
[11] Ibidem, p. 43.
[12] Ibidem, p. 43.
[13] Ibidem, p. 48. I settori dell’imprenditoria maggiormente colpiti dalla mafia tramite il controllo dei sindacati a New York furono l’industria dell’abbigliamento, le società di stivatori sul fronte del porto di Brooklyn, il mercato del pesce di Fulton, il mercato della vendita e della produzione delle carni a Manhattan e a Brooklyn, le compagnie edili, gliautotrasportatori, il settore alberghiero, della ristorazione e dei rifiuti.
[14] Lo sviluppo della mafia fu favorito in parte da sistemi penali abituati a perseguire singoli malavitosi isolati per specifiche violazioni delittuose. Finché non ci fu il salto qualitativo nel campo delle norme, a finire nelle maglie della giustizia erano quasi sempre i ranghi della mafia militare, gli esecutori materiali dei crimini che, in base alla regola dell’omertà e grazie alla generosa assistenza della famiglia mafiosa fuori e dentro dalle carceri, preservavano il resto dell’organizzazione da ulteriori incriminazioni.
[15] Cfr. “La Corte costituzionale tedesca e il futuro dell’unificazione europea”, Il Federalista, 51, n. 2 (2009).

 

 

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