Anno XXXII, 1990, Numero 1 - Pagina 44
INFLAZIONE TEDESCA O MONETA EUROPEA?
1. La moderna teoria economica analizza l’inflazione come possibile risultato dell’insufficienza delle entrate fiscali rispetto alla spesa.[1] Lo Stato può ricorrere all’inflazione, stampare cioè cartamoneta e utilizzarla per effettuare i pagamenti, se è posto di fronte a necessità di finanziamento superiori alle capacità di raccogliere tributi e di ricevere credito dal pubblico. Esistono addirittura economisti che hanno teorizzato il deprezzamento, a tassi costanti, del valore della moneta come strumento di finanziamento della spesa corrente dello Stato.[2]
Nel caso della Germania, la prima grande inflazione coincise con gli squilibri finanziari derivanti dalle immense necessità di spesa dello Stato per ragioni di guerra. Se infatti – tra il 1880 ed il 1913, in un periodo di pace per l’Europa – l’inflazione tedesca aveva mostrato un andamento molto contenuto e a tratti addirittura negativo, negli anni della prima guerra mondiale l’inflazione annua salì invece in media al 28,3%. Nel periodo direttamente successivo, cioè tra il 1919 ed il 1923, l’inflazione raggiunse il 662,6% annuo.[3]
Anche il secondo grande fenomeno inflattivo è legato ad una guerra mondiale. Nel giugno 1948 – con la Germania ridotta in rovine – Ludwig Erhard avviò la riforma monetaria in tre delle quattro zone di occupazione. Al Reichsmark fu sostituito il Deutsche Mark: i depositi bancari il cui titolo di proprietà era legittimo e certo furono convertiti al tasso 10: 1. In pratica il governo non riconobbe più il valore legale del Reichsmark e ridusse di dieci volte il potere di acquisto dei patrimoni monetari. Ad ogni cittadino furono distribuiti inoltre quaranta nuovi marchi, che costituirono la base per l’incremento dei nuovi patrimoni. Il «vecchio» denaro non valeva più nulla.
La crisi del 1919-1923 e l’episodio del 1948 sono rimasti impressi nella memoria storica dei Tedeschi, che attribuiscono oggi un grande significato al contenimento dell’inflazione da parte della banca di emissione federale, la Deutsche Bundesbank.
Sarebbe però errato ritenere che i fenomeni inflattivi appena descritti siano stati conseguenza di politiche monetarie errate da parte della Reichsbank, la banca centrale della Repubblica di Weimar. Le crisi inflazionistiche tedesche, nella prima metà del secolo, sono piuttosto il risultato di conflitti militari di lunga durata e di amplissime proporzioni, che hanno visto lo Stato tedesco opporsi alla quasi totalità dell’Europa e del mondo. L’inflazione tedesca è il frutto di quel fenomeno che lo storico Paul Kennedy[4] ha esattamente descritto come un caso di over-stretch (over-estensione): l’impegno politico, economico e soprattutto militare della grande potenza tedesca in un’area però troppo ampia per le risorse di cui la Germania disponeva. L’inflazione tedesca non è insomma la conseguenza della debolezza dei banchieri centrali berlinesi o dell’assenza di buoni economisti nel mondo germanico, ma piuttosto dell’operato di pessimi politici, che hanno imposto alla Germania sforzi che non potevano essere finanziati con un’ordinata manovra fiscale.
La stabilità monetaria del dopoguerra nella Repubblica federale – il più ampio fra i due Stati sorti dalla disgregazione del Reich – costituisce il fondamento della forza del marco e dell’economia tedesca occidentale ed è ovviamente, prima di tutto, il risultato del duro lavoro della popolazione, della moderazione salariale della classe operaia, del rigore e dell’indipendenza della politica monetaria della Deutsche Bundesbank ed infine dell’Ordnungspolitik (la politica economica a favore della crescita non inflazionistica, teorizzata da Walter Eucken e dalla scuola di Friburgo ed attuata dai governi federali fin dall’inizio degli anni Cinquanta). Non bisogna però dimenticare i fondamentali fattori esterni che hanno contribuito a mantenere bassa l’inflazione.
L’inserimento della Germania federale nel quadro comunitario ha risolto definitivamente le questioni dei confini con l’Europa occidentale, consentendo di orientare la politica economica verso obiettivi di rigore e di stabilità nel pieno rispetto del mercato, invece che verso quelle finalità di espansione economica forzata, a scopo di riarmo e di riconquista dei territori, che avrebbero reso indispensabili il controllo amministrativo delle risorse e la nazionalizzazione delle industrie.
Il contributo del piano Marshall ha inoltre liberato il bilancio pubblico tedesco da oneri per la ricostruzione che non sarebbero stati sostenibili in un contesto non inflazionistico. L’ingresso della Germania occidentale nella NATO ha infine consentito alla Germania occidentale di accollare l’onere della spesa militare al potente alleato americano. I costi sarebbero risultati altrimenti elevatissimi, dal momento che il paese è collocato al confine con il Patto di Varsavia.
In conclusione, l’integrazione della Germania federale nel blocco occidentale è uno dei fondamenti della crescita non inflazionistica del dopoguerra. Grazie ad essa, il nuovo Stato tedesco occidentale si è liberato delle ragioni fiscali dell’iperinflazione.
2. Estensione ed integrazione sono le due parole chiave delle esperienze storiche opposte della Germania nella prima e nella seconda metà del secolo. Nel primo cinquantennio il tentativo tedesco di allargare i confini, di accrescere il potere nazionale, di imporre un nuovo ordine all’Europa si è tradotto in impulsi inflazionistici: la Germania ha subito una velocità di deprezzamento della moneta superiore alle aree limitrofe. Nel secondo cinquantennio, la partecipazione della Germania occidentale a processi integrativi europei ed atlantici –combinata con il grande potenziale produttivo tedesco e con la presenza di un know-how tecnologico elevato – ha reso possibili politiche economiche orientate alla stabilità monetaria sia da parte dei governi centristi sia da parte di coalizioni a guida socialdemocratica.
A parziale conferma dell’analisi sul ruolo antinflazionistico dell’integrazione della Germania occidentale in Europa, si può ricordare che anche la Germania orientale ha, almeno in parte, beneficiato dei vantaggi che derivano dalla partecipazione ad una lega di Stati, sia pur molto diversa da quella occidentale. La Repubblica democratica ha infatti anch’essa congelato tutti i problemi di confine con l’Europa orientale, che avevano dato origine alla seconda guerra mondiale, ed ha riversato sostanzialmente sull’Unione Sovietica gran parte dell’onere della difesa. Non si è certamente trattato di una scelta libera e consapevole – come nel caso della Repubblica occidentale – ma gli effetti economici in termini relativi sono simili. Le stime sull’inflazione della Germania dell’Est parlano di un tasso del 12% circa all’anno, decisamente superiore a quello tedesco occidentale, ma in ogni caso molto più contenuto dell’indice di tipo «sudamericano» in altri paesi dell’Est (si pensi all’inflazione in Polonia ed in Yugoslavia).
L’area economica tedesca nel suo complesso – nell’era delle due guerre mondiali maggiormente colpita dall’inflazione – gode in epoca di pace dei vantaggi della propria centralità geografica e può trarre beneficio dal tradizionale senso di disciplina e dall’alta diffusione della cultura che contraddistinguono la sua popolazione. La Germania è oggi caratterizzata da una relativa stabilità, in rapporto al tasso di inflazione medio nelle rispettive aree di appartenenza politica delle due Repubbliche.
L’alternativa tra estensione ed integrazione della Germania in Europa – risolta, nel dopoguerra, a favore della seconda opzione, sia per effetto di libere scelte sia in seguito ai nuovi equilibri di potere imposti ai Tedeschi – riacquista attualità a causa della rapida disgregazione del blocco comunista e del riavvicinamento tra Repubblica federale e Repubblica democratica tedesca.
Tale alternativa si pone ovviamente in termini molto diversi da quelli del passato, perfino di quello recente. Il quadro della politica europea è infatti soggetto, in questi mesi, a profonde mutazioni e risulta per molti aspetti del tutto differente sia da quello dell’anteguerra sia da quello degli ultimi anni. Nel primo cinquantennio del secolo la gerarchia degli Stati è stata determinata dalla dimensione degli eserciti; nei decenni seguenti il fattore fondamentale è stato rappresentato dagli arsenali nucleari; nei prossimi anni la chiave degli equilibri europei potrebbe essere la moneta. In un continente dove l’uso della forza militare diviene sempre più improbabile e dove forme di economia di mercato sembrano imporsi rispetto a quella pianificata, creando nuovi legami tra Stati, non è più necessario impiegare le armi per risolvere i problemi dell’interdipendenza e dei rapporti di forza. E’ invece più facile mettere mano al portafoglio e comprare quel che si vuole ottenere. Chi è dotato del potere di battere una moneta «buona» può utilizzarla per reperire risorse in tutto il continente, effettuando investimenti diretti, acquisendo imprese all’estero, emettendo titoli che vengono detenuti dai risparmiatori internazionali.
L’opzione dell’estensione acquista dunque un carattere prettamente monetario. Nel caso della Repubblica federale tale opzione non è più rappresentata da impossibili rivendicazioni territoriali ma da una rapida espansione dell’uso del marco al di fuori dei confini nazionali. E’ possibile riassumere le linee di tale processo espansivo in Europa in tre punti: l’unificazione monetaria tra la Germania occidentale e la Germania orientale, la currency competition nell’area del Sistema monetario europeo ed infine la circolazione parallela del marco in Europa orientale. Ovviamente, a fronte dell’impiego di marchi da parte di famiglie ed imprese non residenti in Germania, deve verificarsi un trasferimento di risorse verso il paese che emette la moneta. I fenomeni monetari hanno infatti sempre una contropartita reale: essa potrebbe riassumersi nel primato economico della Germania in Europa.
Anche l’opzione dell’integrazione della Germania in Europa ha una componente monetaria decisiva, che potrebbe essere così sintetizzata: l’unificazione monetaria tra le due Repubbliche tedesche all’interno dello SME, la realizzazione di un sistema di cambi fissi in Europa, il potenziamento del bilancio comunitario, la nascita di forme di collaborazione monetaria a livello paneuropeo. La contropartita reale di tale processo monetario potrebbe essere descritta nei termini seguenti: il potenziale produttivo della Germania unita è valorizzato dalla piena partecipazione ad un’unione politica dell’Europa; la Germania si colloca al centro di un processo di crescita dell’Europa centrale ed orientale, che coinvolge in modo equilibrato l’intero continente e conferisce nuova dinamica all’intera economia mondiale.
Scopo di queste pagine è di dimostrare che, mentre l’opzione dell’estensione monetaria è tendenzialmente inflazionistica, l’integrazione monetaria preserva la stabilità del valore della moneta. L’unica possibilità di integrare nel sistema politico ed economico occidentale le regioni della Germania orientale senza che si produca un processo inflattivo «pantedesco» consiste dunque nel contemporaneo rafforzamento dell’integrazione europea.
Un ulteriore Leitmotiv di queste pagine è la convinzione che il destino dell’integrazione europea sia ormai saldamente legato agli avvenimenti dell’Europa centrale ed orientale. Il legame è ormai evidente nel settore monetario: una soluzione inflazionistica al problema dell’unione monetaria intratedesca mette in pericolo la stabilità del Sistema monetario europeo, minaccia i risultati raggiunti in dieci anni di progressiva convergenza delle politiche economiche nell’Europa occidentale e compromette ogni sforzo di realizzare l’unione monetaria in Europa.
3. Le autorità monetarie tedesche hanno ben presente il rischio di una over-estensione della loro moneta. In un saggio recentemente comparso sul Bollettino mensile della Banca federale,[5] gli economisti della Bundesbank rilevano, con malcelata preoccupazione, che le riserve delle banche centrali in marchi tedeschi ammontano a 230 miliardi di marchi (settembre 1989). A titolo di paragone, si può ricordare che tale somma corrisponde al 20% dell’aggregato monetario M3 alla fine dello stesso mese e supera, in termini di flussi, l’incremento complessivo dello stesso aggregato tra il 1986 e la prima metà del 1989.
Una parte di tali 230 miliardi (precisamente 48 miliardi) è depositata dalle altre banche centrali presso la Bundesbank ed è perciò sottratta al sistema bancario commerciale. Se però le banche centrali, per difendere le monete nazionali, decidono di intervenire sui mercati dei cambi, di smobilizzare le riserve in marchi presso la Deutsche Bundesbank e di venderle a banche commerciali e ad altri operatori, la massa monetaria tedesca subisce un incremento indesiderato della medesima ampiezza degli interventi. I 48 miliardi di marchi depositati presso la banca federale tedesca – per la grandissima parte dal Federal Reserve System americano – possono dunque affluire sul mercato, aumentare la quantità di moneta e causare inflazione. I rimanenti 180 miliardi di marchi sono già depositati sull’euromercato. Essi costituiscono solamente una parte dei 720 miliardi di marchi che sono in mano ad operatori stranieri. Qualora si verificasse una redistribuzione dei portafogli internazionali, gli effetti sul tasso di cambio del marco sarebbero immediati: un calo del marco nei confronti del dollaro alimenterebbe l’importazione di inflazione.
A parere degli economisti della Bundesbank non mancano dunque già oggi motivi di allarme. Qualora la politica monetaria ed il bilancio pubblico in Germania non fossero più orientati all’obiettivo della stabilità monetaria, i partners esteri della Comunità alienerebbero i marchi in loro possesso e gli effetti inflattivi moltiplicherebbero i disturbi interni. Occorre dunque che la stabilità monetaria rimanga l’obiettivo della politica monetaria tedesca.
Il governo della Repubblica federale ha recentemente offerto all’altra Repubblica tedesca una trattativa sull’unione economica e monetaria intratedesca. La proposta del governo di Bonn è stata in un primo tempo sollecitata dall’opposizione socialdemocratica, ha ricevuto l’appoggio del partito liberale, è stata fatta propria dal ministro del Tesoro Waigel ed è stata infine formulata, al massimo livello, dal cancelliere Kohl al Presidente del Consiglio della DDR Modrow.
La Deutsche Bundesbank non ha nascosto, a seconda dei casi, la propria irritazione, la sorpresa e lo scetticismo nei confronti dell’unione economica e monetaria con l’altra Repubblica tedesca. Le ragioni politiche sembrano però aver avuto la meglio sulle indicazioni tecniche ed hanno impresso all’integrazione monetaria tra le due Germanie un ritmo che il processo di unificazione europea non ha ancora raggiunto. La Germania federale intende assistere con tutte le proprie forze la debole economia della Repubblica democratica. Bonn desidera inoltre evitare che i fenomeni emigratori dalla Prussia, dalla Sassonia e dalla Turingia verso la Germania federale continuino ai ritmi sostenuti degli ultimi mesi. Cinquantamila persone al mese affluiscono nelle regioni occidentali, alla ricerca di benessere e di sicurezza. Il governo di Bonn offre la propria solida moneta a coloro che intendono rimanere nell’odierna DDR. L’unione economica e monetaria costituisce inoltre il primo chiaro passo nella direzione della riunificazione del paese e del superamento dello stato di inferiorità politica in cui la Germania era caduta dopo l’esperienza del nazismo e della seconda guerra mondiale.
Il termine «unificazione monetaria», nel caso delle due Germanie, solleva alcune ambiguità. In realtà si tratta dell’estensione dell’uso del marco tedesco occidentale nelle regioni orientali: la Deutsche Bundesbank verserà denaro a parità fissa alle imprese e ai cittadini della DDR. Le possibili conseguenze di carattere inflazionistico sono ancora oggetto di discussione tra gli esperti. Se gli uni sottolineano che la crescita economica nella DDR consentirà di assorbire ogni pressione sui prezzi, gli altri sono invece del parere che l’estensione del marco occidentale alla Germania orientale sia una concessione di nuovo potere d’acquisto senza contropartite reali.
Preoccupazioni derivano anche dalla politica fiscale. La Germania federale dovrà sostenere sforzi ingenti per ridurre gli squilibri regionali tra i Länder occidentali e le regioni orientali. Mentre la Repubblica federale è un paese sostanzialmente omogeneo, la Germania è divisa da quarant’anni di sviluppo economico differente. L’odierna DDR deve risolvere gravi problemi nel settore delle infrastrutture tecnologiche, deve far fronte ad un impressionante decadimento dei centri storici, è afflitta da gravi problemi ecologici.
La lista dei problemi della Germania non è circoscritta nell’area tedesca. Una volta che il marco sia divenuto la moneta legale della Germania unita, potrebbe essere adottato come valuta di investimento e come strumento di scambio da parte di milioni di famiglie e di imprese al di fuori del paese. Tale eventualità potrebbe verificarsi sia all’interno della Comunità, per il ben noto fenomeno della currency competition in presenza di liberalizzazione valutaria, sia in alcuni paesi dell’Est (Polonia, Cecoslovacchia, Yugoslavia). Non c’è dubbio che, anche in questo caso, l’estensione monetaria potrebbe tramutarsi, presto o tardi, in un fenomeno di over-estensione. Nel caso il marco tedesco circolasse come moneta parallela nell’intera area europea, le autorità monetarie della Repubblica federale potrebbero perdere ogni capacità di controllare una parte importante della massa monetaria nazionale. La stessa definizione concettuale degli obiettivi monetari quantitativi diverrebbe problematica.
Ipotizziamo per un attimo che i fenomeni appena descritti (unificazione monetaria tedesca, diffusione del marco come moneta parallela «europea») si realizzino senza che il processo di integrazione monetaria europea sia contemporaneamente rafforzato. La coesione dello SME verrà senz’altro messa a dura prova. Fino ad oggi le banche centrali comunitarie hanno seguito la politica del tasso di sconto della Deutsche Bundesbank. I tassi di riferimento francesi, belgi, olandesi e, in alcune occasioni, anche quelli italiani ed inglesi hanno subito variazioni del tutto corrispondenti a quelle dei tassi amministrati tedeschi. Le banche centrali comunitarie hanno dunque riconosciuto alla Deutsche Bundesbank un ruolo primario all’interno dello SME. Il marco viene considerato come l’ancora di stabilità di tutta la politica monetaria europea. Il funzionamento dell’accordo di cambio si basa fino ad oggi su due regole fondamentali: la Deutsche Bundesbank svolge, in primo luogo, un’ordinata e rigorosa politica antinflazionistica e gli altri paesi centrali seguono, in secondo luogo, il comportamento delle autorità monetarie tedesche.
Ipotizziamo inoltre che la Deutsche Bundesbank – posta di fronte ad una minaccia inflazionistica proveniente dall’interno del paese – intenda ridurre la liquidità nella Germania unificata ed operi una severa stretta monetaria. I partners europei saranno posti di fronte ad una difficile scelta: potranno seguire la Deutsche Bundesbank ed effettuare una politica restrittiva o dovranno rinunciare alla parità di cambio con il marco. Si può immaginare che i conflitti di interesse metteranno a dura prova la credibilità del regime di cambio e che gli operatori proveranno a saggiarne la forza sul mercato. In assenza di un accordo sui cambi fissi o di una vera e propria moneta unica, le aspettative dei mercati finiranno dunque per orientarsi verso l’instabilità dei cambi nella Comunità e verso più frequenti riallineamenti.
Ma anche nell’ipotesi contraria di una politica accomodante della Deutsche Bundesbank e dello sviluppo di una dinamica inflazionistica tedesca, l’accordo di cambio europeo non potrà sfuggire a tensioni. Le banche centrali europee saranno infatti poste di fronte ad una sorprendente alternativa: mantenere la parità di cambio rispetto al marco, importando l’inflazione dall’area tedesca, oppure consentire alle proprie monete di rivalutarsi sulla valuta della Germania.
In ultima analisi, un sistema europeo di cambio non può avere come punto di riferimento un paese al cui interno si sviluppano pressioni inflazionistiche. Nel caso in cui la banca centrale di tale paese reagisca con una stretta monetaria, influssi deflazionistici si trasmetteranno in tutta l’area europea; nel caso invece in cui la condotta della banca centrale consenta alle spinte inflazionistiche di affermarsi, l’intero sistema monetario sarà interessato da fenomeni di diminuzione del valore della moneta. Lo standard di riferimento del Sistema monetario europeo deve essere rappresentato dalla durevole stabilità del valore della moneta. Fino ad oggi la Germania federale ha assolto bene al proprio compito garantendo nei dieci anni dello SME un tasso di inflazione stabilmente inferiore alla media europea. La Germania unificata potrebbe non essere in grado di raccogliere l’eredità della Repubblica di Bonn.
Disturbi monetari egualmente gravi potrebbero derivare dalla circolazione del marco all’esterno dell’area tedesca. Dal momento che il marco viene emesso dalla Banca federale di Francoforte, l’unica fonte di alimentazione del mercato parallelo di marchi all’esterno della Germania è costituita da uno stabile disavanzo della bilancia dei pagamenti tedesca, che non può non avere conseguenze, nel medio periodo, sul tasso di cambio e sull’inflazione. La credibilità antinflazionistica della Deutsche Bundesbank sarà sottoposta ad un’ulteriore dura prova. La Banca federale emetterà infatti una moneta nazionale a diffusione europea e dovrà far fronte al cosiddetto «dilemma di Triffin». Si dovrà impegnare da un lato ad evitare fenomeni di rarefazione della liquidità interna per effetto dei deficit dei pagamenti e della circolazione esterna della moneta; dovrà impedire al tempo stesso un «DM-shortage», ovvero una permanente scarsità di marchi all’esterno della Repubblica federale, se vorrà evitare che le famiglie e le imprese decidano di attribuire ad un’altra moneta il ruolo di valuta parallela dominante e di conseguenza vendano contemporaneamente i marchi, deprimendo il cambio.
4. L’integrazione monetaria europea offre il quadro per la soluzione dei problemi posti finora in evidenza.
Formuliamo ancora una volta un’ipotesi: l’unificazione monetaria intratedesca e la diffusione del marco nell’Europa orientale come moneta parallela si verificano in parallelo con un sostanziale rafforzamento della Comunità. All’interno della CEE viene infatti stabilito un sistema di cambi fissi irrevocabili; le istituzioni comunitarie vengono inoltre dotate di risorse proprie più consistenti ed i bilanci degli Stati membri sono sottoposti a procedure europee di controllo e coordinamento.
In questo ambito l’unificazione monetaria tedesca non rappresenta che un momento della più ampia unificazione europea, un allargamento dell’area dello SME. In realtà, infatti, i cittadini della Germania dell’Est non ricevono semplicemente marchi occidentali, in cambio dei biglietti orientali: la loro nuova moneta, pur avendo le sembianze delle banconote emesse dalla Bundesbank, è la moneta europea; tale moneta europea, anche se non trova ancora espressione materiale in una banconota o in una moneta in Ecu, è comunque definita dalla presenza di una massa monetaria unica in Europa. I possibili effetti inflazionistici ed i disturbi monetari che derivano dalla concessione di potere d’acquisto uno actu ai cittadini della Germania dell’Est non devono più essere valutati come conseguenza dell’estensione della liquidità tedesca, ma piuttosto, della crescita, percentualmente meno rilevante, della liquidità europea. E’ evidente che i pericoli inflazionistici sono meno acuti se l’intera Europa monetaria e non solamente l’area del marco occidentale, conferisce la nuova moneta alla Germania orientale.
Considerazioni molto simili possono essere effettuate anche per quel che riguarda le politiche fiscali: se il peso finanziario del risanamento della Germania dell’Est – e tendenzialmente di vaste aree dell’Europa centrale ed orientale – è lasciato sulle sole spalle dei Tedeschi occidentali, è probabile che lo Stato tedesco soffra di squilibri finanziari notevoli. Una politica di deficit spending da parte del governo di Bonn, simile a quella attuata dal governo francese nei primi anni della presidenza di François Mitterrand, non è però nell’interesse né dei Tedeschi né degli altri Europei, perché scardinerebbe il meccanismo dei cambi all’interno dello SME, alimenterebbe l’inflazione nel paese che ha l’economia più forte all’interno del mercato unico, renderebbe del tutto impossibile l’attuazione del Piano Delors e bloccherebbe l’intero processo di integrazione monetaria in Europa: per questo motivo occorre un profondo rafforzamento del bilancio comunitario, che consenta, in base al meccanismo delle risorse proprie, di ripartire l’onere finanziario su tutta l’Europa.
Anche i rischi della circolazione parallela del marco al di fuori dell’area tedesca debbono essere affrontati in un ambito europeo. E’ evidente che i cittadini dell’Europa centrale ed orientale desiderano da anni poter viaggiare all’estero, ma non dispongono di una moneta che sia convertibile in altre valute. E’ altrettanto chiaro che le nuove élites politiche ed economiche vogliono legare stabilmente i loro paesi al mercato mondiale e, in primo luogo, alla Comunità europea, ma le imprese non posseggono valuta pregiata e le riserve valutarie sono spesso molto modeste. Il percorso della convertibilità delle monete nazionali è lungo, perché presuppone che l’economia nazionale sia in grado di esportare beni e di assicurare, con il ricavato delle esportazioni, la consistenza delle riserve e la solvibilità del paese. Può dunque essere inevitabile che, in attesa dell’ingresso dei paesi dell’Europa centrale ed orientale in un quadro di integrazione monetaria paneuropea, le monete comunitarie – legate fra loro da un accordo di stabilità dei cambi – ed in particolare il marco tedesco, svolgano il ruolo di monete parallele.
Nella fase in cui la definitiva stabilità dei cambi CEE non è ancora raggiunta – mi riferisco dunque ai prossimi mesi – si dovrà affiancare l’Ecu «privato» al marco come moneta parallela nei paesi dell’Est, concedendo crediti ed aiuti nella moneta europea. In tal modo, come hanno sottolineato Michel Aglietta e Christian de Boisseu su Le Monde,[6] tutte le dodici monete comunitarie saranno adottate come strumento di pagamento o di riserva in Polonia, in Ungheria, in Cecoslovacchia e nelle altre aree economiche che si aprono alla libertà di mercato. Se si assume che parte della circolazione parallela in Ecu non si aggiunga, ma si sostituisca alla circolazione parallela in marchi, la somma degli strumenti monetari occidentali in Europa centrale ed orientale potrà rappresentare una frazione percentuale della liquidità globale comunitaria molto minore rispetto a quanto non rappresenti invece della sola liquidità nazionale tedesca. Occorre dunque pensare, in attesa che sia raggiunta la definitiva stabilità dei cambi nello SME, ad una doppia moneta parallela comunitaria nell’Est europeo: l’Ecu ed il marco tedesco. In tal modo si riducono gli effetti inflazionistici prodotti in Germania dalla circolazione di strumenti monetari nazionali in Europa orientale.
A partire dal primo luglio 1990 il Comitato dei Governatori delle banche centrali della CEE diverrà il nucleo del futuro sistema europeo delle banche centrali. Il Comitato assumerà, sia pur progressivamente, il controllo sugli aggregati monetari, sulla politica dei tassi, sulle strategie di cambio dei partners comunitari. E’ ragionevole pensare che il Comitato – ovvero l’istituzione che esprime la sia pur ancora debole identità monetaria della CEE – dovrà farsi carico di approfondire le tematiche dei rapporti monetari con l’Est europeo: dovrà perciò avere poteri di controllo sull’impiego del marco e dell’Ecu privato, cioè della doppia moneta parallela, e dovrà eventualmente predisporre le misure di politica monetaria che consentano di ampliare o di restringere la liquidità in conseguenza della circolazione delle monete al di fuori della Comunità. In altre parole, il Comitato dei Governatori si dovrà trasformare in un Federal Open Market Committee del marco e dell’Ecu privato.
Il Comitato dovrà inoltre intrattenere rapporti diretti con le autorità monetarie dei paesi dell’Europa orientale ed intraprendere iniziative per conferire direttamente risorse a tali paesi. Un fondo europeo in Ecu per la stabilizzazione monetaria nell’Europa centrale ed orientale – sul modello di iniziative recenti a favore della Polonia – potrebbe costituire un importante contributo comune dell’Europa occidentale.
In una seconda fase – una volta che la riforma delle economie dei paesi dell’Europa centrale ed orientale si sia consolidata – sarà necessario procedere risolutamente verso forme di integrazione monetaria più ampie dell’attuale Comunità europea. La CEE dovrà incoraggiare forme di integrazione monetaria all’Est, fra i paesi che siano disposti a sacrificare, in condizioni di uguaglianza, parte della sovranità monetaria a favore di autorità comuni. In Europa occidentale l’Ecu avrà ormai sostituito, secondo quanto indicato nel Piano Delors, il sistema di cambi fissi ed irrevocabili e le singole monete nazionali. L’Ecu ed una moneta di conto dell’Europa centrale ed orientale potranno essere allora legate da accordi di cambio simili a quelli del Sistema monetario europeo. Le famiglie e le imprese dell’Europa occidentale, come pure quelle dell’Europa centrale ed orientale, disporranno allora di monete convertibili che partecipino ad un unico sistema europeo di stabilità europea dei prezzi e dei cambi.[7]
Alcune parole, infine, sulle prospettive a più lungo termine. La Comunità europea – probabilmente allargata all’Europa centrale ed orientale – avrà la possibilità, se lo vorrà, di trasformarsi negli StatiUniti d’Europa. Essi disporranno di una moneta comune che diverrà uno dei cardini del sistema monetario internazionale. L’alternativa tra estensione ed integrazione e gli stessi pericoli di over-estensione monetaria si presenteranno al livello mondiale ed il presente articolo dovrà inevitabilmente assumere un diverso titolo: «Inflazione europea o moneta mondiale?».
5. Il corso del dibattito sull’unione monetaria intratedesca mostra che, se esistono da un lato la volontà politica di assumere responsabilità al di là dei confini e, dall’altro lato, la disponibilità a sacrificare la sovranità nazionale, i processi di integrazione monetaria sono veloci. Il dibattito sull’integrazione monetaria europea deve ora proseguire con la medesima intensità. L’unione tra i due marchi dell’Ovest e dell’Est, se inserita nel quadro di una rapida unificazione monetaria europea, è la base di una più forte identità monetaria dell’Europa e l’inizio di un processo di integrazione paneuropeo. Se invece gli avvenimenti degli ultimi mesi non sono accompagnati da una crescita dell’Europa monetaria e dal consolidamento delle finanze comunitarie, esiste il pericolo che si manifestino fenomeni inflazionistici strutturali in Germania e che l’Europa intera imbocchi conseguentemente una fase di difficoltà. Il nodo deve essere sciolto dalla conferenza intergovernativa sull’unione economica e monetaria, il cui inizio è previsto al più tardi per la fine del 1990: le decisioni assunte in quella sede potranno chiarire se l’Europa sceglie la via dell’integrazione o dell’inflazione.
Francesco Mazzaferro
[1] Geoffrey Brennan, James Buchanan, «Revenue Implications of Money Creation under Leviathan», in The American Economic Review, Vol. 71, maggio 1981; Stanley Fischer, «Seigniorage and the Case for a National Money», in Journal of Political Economy, Vol. 90 n. 2, 1982.
[2] Harry Runge, Haushaltsfinanzierung durch Notendruck, Berlino, Ducker und Rumblot, 1986.
[3] Andrea Sommariva, Giuseppe Tullio, German Macroeconomic History 1880-1979: A Study on the Effects of Economic Policy on Inflation, Currency, Depreciation and Growth, Macmillan Press, 1987.
[4] Paul Kennedy, The Rise and Fall of the Great Powers: Economic Change and Military Conflict from 1500 to 2000, Unwin Jyman, 1988.
[5] «Die Längerfristige Entwicklung der Weltwährungsreserven», in Monatsberichte der Deutschen Bundesbank, gennaio 1990.
[6] Michel Aglietta, Christian de Boisseu, «Le rouble, le mark et l’écu», in Le Monde, 19.12.1989.
[7] Alfonso Jozzo, «Perestrojka a passo di rublo», in Il Sole 24 Ore, 14.11.1989.