IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XXX, 1988, Numero 1, Pagina 19

 

 

LA CRITICA DEL MOVIMENTO FEDERALISTA EUROPEO AI TRATTATI DI ROMA
 
 
Fra le forze politiche favorevoli all’unificazione europea il MFE fu quella che espresse, sotto la guida di Spinelli, la critica più radicale ai Trattati di Roma nel periodo della loro genesi,[1] e proprio la divergenza su questo tema fu una delle ragioni fondamentali della scissione dell’UEF, che poté essere ricomposta nel 1972. Più di trent’anni ci separano ormai dalla firma di quei Trattati (il Trentennale è stato celebrato nel 1987) e credo che sia utile svolgere un confronto fra la critica allora espressa dal MFE e lo sviluppo dell’integrazione europea finora realizzatosi.
 
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Occorre precisare che la critica del MFE ai Trattati di Roma fu in realtà soprattutto una critica alla CEE, perché l’Euratom, data la ristrettezza delle sue competenze, non fu considerata in grado di far avanzare in modo consistente l’unificazione europea, anche se essa avesse potuto realizzare i suoi obiettivi. L’attenzione fu pertanto concentrata essenzialmente sulla CEE, la quale aveva l’obiettivo estremamente ambizioso di realizzare l’unificazione del mercato europeo nel suo complesso come base per poi progredire verso l’unificazione politica.
Nei confronti di questo progetto venne sviluppata anzitutto una critica di principio. Il MFE riteneva, sulla base degli insegnamenti fondamentali contenuti nel Federalist e ripresi da grandi economisti contemporanei come Robbins, Einaudi, Ropke e Hayek, che l’effettiva unificazione economica di più entità statali fosse impossibile senza una preliminare unificazione politica che limitasse la sovranità e instaurasse un potere federale superstatale. Due erano gli argomenti fondamentali in cui veniva articolato questo assioma, che fin dall’inizio della politica di unificazione europea aveva guidato la critica federalista all’approccio gradualistico-settoriale.
In primo luogo l’unificazione economica degli Stati europei disposti a marciare seriamente in questa direzione aveva il suo presupposto nell’unificazione delle loro politiche estere e delle loro difese. Nessuno Stato, infatti, sarebbe stato disposto a rinunciare, come era implicito nel concetto di unificazione dei mercati, alla propria autosufficienza economica — condizione della sua indipendenza politica e della sua sicurezza militare — senza serie garanzie in merito alla salvaguardia della propria sicurezza. Ma queste garanzie potevano fondarsi solo sull’esistenza di istituzioni federali incaricate appunto di assicurare in modo unitario l’indipendenza e la difesa del territorio di tutti gli Stati aderenti. Inoltre, poiché le relazioni con gli Stati terzi non potevano non influenzare lo sviluppo economico degli Stati coinvolti nell’unificazione, era indispensabile una comune politica estera, possibile solo sulla base dell’unificazione politico-militare, per poter realizzare una economia effettivamente unitaria.
In secondo luogo solo l’esistenza, fin dall’inizio del processo di unificazione economica, di una autorità sovrannazionale, fondata sul consenso democratico diretto dei popoli, avrebbe consentito di sconfiggere i potenti e radicati interessi protezionistici presenti nei diversi Stati e di far prevalere l’interesse generale dei popoli europei per la creazione di un sistema economico unitario. Così come nessuno poteva pensare che si potesse instaurare e mantenere una economia unitaria nel singolo paese sottoponendola a un Consiglio di governatori provinciali dotati del diritto di veto e responsabili solo di fronte ai parlamenti provinciali, allo stesso modo non aveva alcun senso ritenere che un’economia unitaria europea potesse essere instaurata e mantenuta sulla base della cooperazione di governi nazionali sovrani, strutturalmente orientati a privilegiare gli interessi nazionali particolari rispetto all’interesse comune europeo.
Sulla base di questo punto di vista teorico, venne sviluppata nei confronti della CEE una critica soprattutto istituzionale. In modo particolare fu confutata la dottrina secondo cui le Comunità europee costituivano una categoria intermedia fra le tradizionali organizzazioni internazionali e quelle di natura federale, perché erano caratterizzate da taluni embrioni federali: soprattutto l’autonomia dell’organo esecutivo sovrannazionale, l’efficacia diretta della normativa e delle sentenze comunitarie, il voto a maggioranza nel Consiglio dei Ministri, la previsione di elezioni dirette del Parlamento europeo. L’elemento decisivo che, secondo il MFE, assimilava nella sostanza le Comunità alle tradizionali organizzazioni internazionali era la mancanza di autonomia finanziaria e di un potere autonomo (che solo l’unificazione politico-militare avrebbe potuto creare) in grado di imporre ai governi nazionali la volontà comune. Questo fatto, d’altra parte, togliendo alla Comunità lo strumento decisivo per impedire la secessione degli Stati che non fossero disposti ad accettare la volontà comune, rendeva inevitabile il mantenimento, anche contro la lettera dei Trattati, della prassi confederale del voto all’unanimità. Quanto all’elezione diretta del Parlamento europeo, si sottolineava infine che, data la mancanza di poteri di quest’organo, una sua elezione diretta sarebbe stata contraria ai più elementari principi democratici e, comunque, incapace di produrre un superamento della natura confederale delle Comunità.
Questa critica istituzionale fu integrata dalla individuazione di alcune fondamentali carenze del progetto di unificazione economica proprio della CEE, le quali derivavano dalla inadeguatezza delle istituzioni.
Questo progetto non conteneva anzitutto alcuna disposizione circa la creazione di una moneta comune. Ciò derivava chiaramente dal fatto che non si era voluto creare un vero governo europeo; di conseguenza, si era dovuto accantonare il problema di attribuire alla CEE dei poteri in campo monetario poiché questi possono competere soltanto ad una istituzione sovrana. D’altra parte ciò minava alla base il progetto di integrazione economica, poiché un mercato comune poteva funzionare solo in quanto sussistesse nell’area unificata una moneta comune, non diverse monete nazionali a cambi incerti e fluttuanti. E ciò per due ordini di ragioni: in primo luogo perché solo una moneta unica avrebbe permesso pagamenti e previsioni sicure su tutta l’area del mercato comune ed eliminato alla radice i rischi di restrizioni valutarie; in secondo luogo perché solo mediante l’istituzione di una moneta comune si sarebbero potuti superare interamente i problemi di cambio e di equilibrio delle bilance dei pagamenti che altrimenti sarebbero rimasti insolubili e avrebbero imposto, per imprescindibili interessi nazionali, ogni sorta di restrizioni.
Questa carenza costituiva una manifestazione particolarmente vistosa di una carenza d’ordine più generale relativa alle politiche economiche. La CEE prevedeva in modo molto preciso e dettagliato l’abolizione graduale delle dogane e dei contingentamenti per i prodotti industriali e conteneva la promessa di arrivare all’organizzazione di un mercato agricolo comune, nonché alla liberalizzazione dei movimenti dei lavoratori, dei capitali e dei servizi. Il Trattato era invece estremamente lacunoso in merito alle politiche economiche, vale a dire agli strumenti di cui devono disporre le moderne economie miste per affrontare le crisi dovute all’andamento della congiuntura economica, per correggere gli squilibri territoriali, settoriali e sociali prodotti da un incontrollato gioco delle forze economiche, più in generale per orientare lo sviluppo economico verso determinate priorità scelte dalle istituzioni democratiche. In questo campo erano previsti due strumenti, il fondo sociale e la banca europea degli investimenti, dotati di risorse e di poteri troppo limitati per avere una seria incidenza riequilibratrice. Per il resto ci si limitava a vaghi impegni ad armonizzare le politiche economiche e sociali degli Stati membri che restavano sotto l’esclusivo controllo dei singoli governi nazionali.
Anche questa era una scelta obbligata, data la natura confederale delle istituzioni comunitarie. Il trasferimento alla Comunità di compiti rilevanti nel settore delle politiche economiche sarebbe in effetti stato possibile solo a condizione di dar vita a un governo europeo di carattere federale. Solo un governo del genere, infatti, avrebbe avuto gli strumenti (la capacità di esecuzione propria, il consenso democratico, l’autonomia finanziaria) per attuare efficaci politiche economiche a livello europeo, sostitutive in alcuni casi e complementari in altri rispetto alle politiche economiche nazionali. D’altra parte l’incapacità di affrontare questo problema comprometteva in partenza le prospettive di seri progressi dell’integrazione economica.
Poiché senza una forte unitarietà delle politiche economiche degli Stati membri non si poteva instaurare e mantenere un mercato unitario, la realizzazione di questo programma rimaneva legata alla convergenza spontanea di politiche nazionali del tutto indipendenti. Ma questa, a sua volta, se era realizzabile in fasi di congiuntura economica generalmente positiva, era destinata a venir meno nei momenti di crisi, che avrebbero prodotto inevitabilmente divergenze nelle politiche economiche nazionali con immancabili effetti restrizionistici.
La mancanza di efficaci politiche economiche a livello europeo, oltre a rendere estremamente precaria l’integrazione dei mercati, implicava altresì che qualsiasi progresso si fosse compiuto su questo terreno sarebbe stato inevitabilmente accompagnato da gravi distorsioni. In particolare, un’ampia liberalizzazione degli scambi non accompagnata da vigorose politiche riequilibratrici su scala europea avrebbe prodotto gravi squilibri territoriali, favorendo un’ulteriore concentrazione industriale nelle aree forti d’Europa e la persistenza dell’arretratezza delle aree deboli. Inoltre la lotta contro lo strapotere dei gruppi monopolistici sarebbe diventata ancora più difficile perché, mentre la liberalizzazione degli scambi avrebbe indebolito l’efficacia degli strumenti nazionali di politica economica, non si sarebbero d’altro canto potuti creare validi strumenti europei di politica economica a causa dei limiti delle istituzioni comunitarie.
La critica del MFE alla CEE sboccava in una conclusione drastica. Il Mercato comune, ridotto ai suoi veri termini, era l’impegno dei sei governi ad intensificare nel settore industriale il processo di liberalizzazione che nel quadro dell’OECE era arrivato ad un punto morto. Si trattava di un impegno reso possibile da una situazione di forte espansione economica che caratterizzava da alcuni anni i paesi a economia di mercato. Questa espansione rendeva desiderabile e poco temibile per le industrie nazionali dei Sei la liberalizzazione degli scambi e favoriva la convergenza delle politiche economiche. Finché fosse durata la congiuntura favorevole la CEE avrebbe funzionato, perché i governi sarebbero stati interessati a farla funzionare, ma essa sarebbe andata in pezzi non appena, con il cambiamento della congiuntura, i governi o una parte di essi avessero ritenuto più conveniente sottrarsi agli impegni assunti.
La conseguenza politica che il MFE trasse da questa analisi fu il lancio di una campagna in grande stile imperniata sulla mobilitazione del popolo europeo a favore della Costituente europea e dell’Unione federale europea e sulla denuncia della illegittimità degli Stati nazionali e della pretesa di costruire l’unità europea attraverso trattative diplomatiche tra i governi.
 
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Si tratta ora di vagliare queste tesi alla luce della successiva trentennale esperienza storica.
La parte meno valida della critica federalista dei Trattati di Roma è chiaramente la sfiducia nella possibilità di ottenere importanti progressi nell’unificazione economica europea sulla base delle istituzioni comunitarie. Questa previsione è stata contraddetta dal successo della cosiddetta integrazione negativa, cioè liberoscambista, che ha avuto un’influenza determinante sulla grande crescita economica dell’Europa comunitaria, ha portato ai successivi allargamenti della Comunità, ha favorito il consolidamento del sistema democratico e la sua estensione a tutta l’area dell’Europa occidentale. Occorre a questo proposito osservare che il MFE, correggendo alla luce dell’esperienza la sua visione troppo schematica circa la priorità dell’unificazione politica rispetto a quella economica, seppe fornire una spiegazione molto convincente del fatto che si fossero potuti realizzare notevoli progressi nell’unificazione economica nonostante il rinvio sine die della creazione di un’autorità politica europea di carattere democratico e federale. Secondo tale analisi, questi progressi erano stati resi possibili dalla circostanza per cui, in mancanza di un potere democratico europeo, era intervenuto come fattore integrativo determinante un potere politico informale fondato sull’«eclissi di fatto delle sovranità nazionali» e sull’«unità di fatto delle ragioni di Stato».[2] Con ciò si intendeva in sostanza la debolezza endemica degli Stati nazionali europei, che li costringeva a cooperare per sopravvivere, e la forte convergenza delle loro politiche estere, difensive ed economiche assicurata dall’egemonia americana, che la caduta della CED aveva rafforzato — fattori che erano particolarmente forti per precise ragioni geostoriche nell’Europa dei Sei. Nell’analisi dei federalisti si faceva d’altra parte rilevare che questa base politica dell’integrazione economica europea era strutturalmente precaria anche perché il rafforzamento relativo degli Stati nazionali prodotto dalla stessa integrazione economica era destinato alla lunga a minare le basi della convergenza delle loro ragioni di Stato se questa non avesse trovato una stabilizzazione tramite forti istituzioni sovrannazionali.
Ciò precisato, se l’esperienza storica ha messo in luce taluni schematismi della critica federalista alla CEE, d’altro lato essa ha fornito una sostanziale conferma sia della tesi relativa alle inevitabili distorsioni di un processo integrativo non inquadrato da forti politiche economiche comuni, sia della previsione di una crisi profonda dell’unificazione economica in corrispondenza con una seria inversione di congiuntura.
A proposito della tesi sulle distorsioni del processo di integrazione è sufficiente qui sottolineare che i profondi squilibri territoriali della Comunità hanno sempre costituito e costituiscono tuttora il suo più grave handicap e che è diventato sempre più evidente il nesso fra questo handicap e l’inadeguatezza delle istituzioni comunitarie. L’esperienza ha ormai dimostrato che solo un’autorità europea fornita di poteri reali e di una legittimazione democratica diretta sarebbe in grado di imporre un livello soddisfacente di solidarietà fra gli Stati forti e quelli deboli della Comunità, allo stesso modo in cui nell’ambito degli Stati solo l’esistenza di un’autorità democratica centrale fondata sul consenso delle popolazioni sia delle regioni ricche che di quelle povere è in grado di far prevalere le esigenze della solidarietà nazionale rispetto agli interessi regionali particolari.
Per quanto riguarda la previsione di una crisi acuta della Comunità, è una dato di fatto che dal momento in cui, all’inizio degli anni Settanta, si è chiusa la fase di espansione economica mondiale e di stabilità monetaria nel cui ambito si era svolto il periodo transitorio del Mercato comune, e si è aperta una fase critica dello sviluppo economico mondiale, l’integrazione economica è entrata in una situazione di sostanziale stallo in cui si trova tuttora. Non solo non ha avuto successo il tentativo di passare dall’integrazione negativa a quella positiva, cioè alla realizzazione di efficaci politiche comuni, ma ha fatto passi indietro la stessa liberalizzazione degli scambi.
Anche in riferimento al risvolto politico della critica federalista ai Trattati di Roma, vale a dire alla scommessa sulla possibilità di costituire una forza popolare autonoma di carattere sovrannazionale in grado di forzare i governi nazionali ad accettare la rivendicazione della Costituente europea, il giudizio non può essere univoco.
La linea di opposizione frontale alla politica europeistica ufficiale, diretta a mobilitare il popolo europeo sulla base della contestazione della legittimità degli Stati nazionali, non ebbe il successo sperato. In effetti la campagna per il Congresso del popolo europeo e le altre campagne popolari che la seguirono nella prima metà degli anni Sessanta non dettero luogo, a causa della debolezza organizzativa della forza federalista, a una mobilitazione dell’opinione pubblica sufficiente a modificare la situazione di potere in senso favorevole alle rivendicazioni federaliste.
Questo indubbio insuccesso, se chiama in causa un certo velleitarismo che caratterizzò la linea politica del MFE in quegli anni, non deve però indurre a trascurare un fatto di grande importanza. In una fase storica in cui i successi dell’unificazione economica tendevano a nascondere i limiti strutturali della Comunità europea, le campagne popolari svolte dal MFE fra il 1957 e il 1966 hanno avuto il grande merito di mantenere viva l’alternativa democratica e federale a una costruzione europea che era debole e precaria proprio perché escludeva la partecipazione popolare. Anche se solo una piccola parte dell’opinione pubblica fu in grado di conoscere il messaggio dei federalisti, queste campagne popolari costituirono il primo esempio nella storia europea di un’azione politica di base capace di svilupparsi in modo unitario al di là delle frontiere nazionali in diversi paesi d’Europa. Esse dimostrarono inoltre che, ogniqualvolta si chiedeva ai cittadini di esprimersi a favore di un’unità europea completa e della partecipazione popolare alla sua costruzione, la risposta era largamente positiva. L’aver mantenuto viva la rivendicazione della Costituente europea in una fase sfavorevole ha permesso al MFE di svolgere un ruolo efficace allorché la crisi dell’integrazione europea ha nuovamente portato all’ordine del giorno il problema dell’unificazione politica.
Ciò è avvenuto anche perché è stata superata la visione eccessivamente riduttiva delle istituzioni comunitarie, che negava la presenza in esse di qualsiasi embrione federale e, quindi, escludeva la possibilità di trovare in esse un qualsiasi appiglio cui agganciarsi per portare avanti con più efficacia la rivendicazione della Costituente europea. In questo contesto è emerso l’impegno del MFE a favore dell’elezione diretta del Parlamento europeo, fondato sulla convinzione che la legittimazione popolare diretta avrebbe aperto la strada alla lotta per l’assunzione di un ruolo costituente da parte del Parlamento europeo stesso. Ed è emerso in seguito l’appoggio all’iniziativa dell’assemblea di Strasburgo a favore della riforma istituzionale della Comunità, che ha portato all’approvazione del progetto di Trattato di Unione europea il 14 febbraio 1984 e alla riproposizione di una vera riforma delle istituzioni comunitarie dopo che i governi hanno varato l’Atto Unico europeo.
 
Sergio Pistone


[1] Per la critica del MFE ai Trattati di Roma cfr.: A. Spinelli, L’Europa non cade dal cielo, Bologna, Il Mulino, 1960; A. Chiti-Batelli, I trattati del Mercato comune e dell’Euratom visti da un federalista (due fascicoli ciclostilati editi dal MFE nel 1957 e 1958); L. Levi - S. Pistone (a cura di), Trent’anni di vita del MFE, Milano, F. Angeli, 1973; L.V. Malocchi - F. Rossolillo, Il Parlamento europeo. Significato storico di un’elezione, Napoli, Guida, 1979; W. Lipgens, 45 Jahre Ringen um die Europäische Verfassung, Bonn, Europa Union Verlag, 1986.
[2] Cfr. M. Albertini, L’integrazione europea e altri saggi, Pavia, ed. Il Federalista, 1965.

 

 

 

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