Anno XXVII, 1985, Numero 2, Pagina 115
SPAAK II O SCHUMAN II? LE IMPLICAZIONI DELL’ARTICOLO 82 DEL PROGETTO DI TRATTATO PER L’UNIONE EUROPEA
Con insistenza crescente, si sentono voci che sostengono che si possono fare progressi verso l’Unione europea solo a condizione che i paesi disposti a progredire verso tale Unione vadano avanti per proprio conto, senza essere continuamente bloccati da una minoranza. Questa idea — a favore della quale ci sono state aperture da parte di diversi governi[1] e Parlamenti nazionali[2] e che è forse implicita nel fatto che il Comitato Dooge («Spaak II») ha deliberatamente adottato il suo rapporto a maggioranza — era stata inizialmente avanzata dal Parlamento europeo. Nel progetto di Trattato sull’Unione europea del Parlamento,[3] infatti, l’articolo 82 — uno degli articoli più controversi, ma che costituisce tuttavia una possibile chiave per il successo — prevede la possibilità che l’Unione venga stabilita, se necessario, senza la partecipazione di tutti gli Stati membri della Comunità europea. Che cosa spinse il Parlamento europeo a scegliere questa opzione? Come si sostiene in termini legali? Quali sono le sue prospettive?
Il Parlamento ha scelto l’opzione di adottare il Trattato anche senza l’adesione di tutti gli Stati membri, perché era giunto alla convinzione che, se questa possibilità non fosse stata sul tappeto, il suo progetto avrebbe avuto poche probabilità di successo. Nel corso degli anni, il Parlamento europeo aveva visto molte proposte di riforma istituzionale, che pure godevano di ampio consenso, venir bloccate solo da uno o due Stati. Durante l’elaborazione del progetto di Trattato, il Parlamento aveva assistito alle discussioni in seno al Consiglio sulle proposte Genscher-Colombo, durante le quali singoli Stati membri regolarmente bloccavano intere serie di proposte costruttive, per quanto moderate esse fossero.[4] Esso era cosciente delle scarse probabilità che certi Stati accettassero il progetto di Trattato, salvo, forse, se messi davanti alla possibilità di esser lasciati indietro dalla maggioranza degli Stati che andavano avanti senza di loro. Alcuni parlamentari avevano in mente il precedente della Dichiarazione Schuman del 1950 che proponeva di andare avanti con quegli Stati membri del Consiglio d’Europa che accettavano di procedere lungo il cammino dell’integrazione: sei degli allora dodici Stati membri decisero di fare così — alcuni altri li seguirono più tardi. La Comunità europea, così come la conosciamo, non sarebbe mai venuta alla luce se i Sei avessero atteso che gli altri fossero d’accordo. Questa volta, il Parlamento europeo ha definito una «massa critica», il numero minimo di Stati necessario per andare avanti: l’articolo 82 fa riferimento ad una maggioranza di Stati membri la cui popolazione rappresenti due terzi della popolazione totale della Comunità.
Queste argomentazioni possono essere politicamente suggestive, ma le implicazioni giuridiche del passaggio dalla Comunità all’Unione sono alquanto diverse da quelle della creazione del Trattato della CECA trent’anni fa. La differenza consiste nel fatto che l’Unione assorbirebbe le competenze comunitarie e le amministrerebbe attraverso le proprie istituzioni. Una simile situazione sarebbe possibile?
Il primo potenziale ostacolo sta nel fatto che le Comunità hanno proprie procedure di revisione fissate dall’articolo 236 del Trattato CEE (e dai suoi equivalenti dei Trattati CECA ed Euratom[5]) che prevede per il Parlamento europeo solo un ruolo marginale (consultivo e non certo di iniziativa), una decisione unanime da parte del Consiglio e la ratifica da parte di tutti gli Stati membri. Chiaramente, una tale procedura sarebbe contraria alla strategia del Parlamento europeo. Ma una considerevole corrente di opinioni giuridiche sostiene che i Trattati non possono essere modificati altrimenti che attraverso queste procedure. Kapteyn e VerLoren van Themaat affermano: «È molto discutibile se una regola del diritto internazionale universalmente accettata, secondo la quale un trattato può esser sempre modificato da un trattato successivo, quali che siano le prescritte procedure di modifica, possa essere applicata a trattati che hanno dato vita ad un nuovo ordine giuridico che limita le sovranità degli Stati membri ed è vincolante per essi così come per i loro cittadini».[6] Facendo riferimento alla giurisprudenza della Corte di Giustizia europea nel caso Costa contro ENEL[7] — nel quale la Corte stabilì che gli Stati membri hanno limitato parte della loro sovranità e trasferito il potere alla Comunità, creando un corpo di leggi vincolanti sia per i loro cittadini che per loro stessi essi argomentano che una revisione dei Trattati non può aver luogo senza rispettare la procedura in essi stabilita, procedura che coinvolge le istituzioni alle quali gli Stati membri hanno ceduto alcuni dei loro poteri. Questo modo di vedere è diffuso,[8] ma non condiviso da tutti: Davidson, Freestone e Lodge sostengono[9] che nella realtà politica e giuridica gli Stati membri restano padroni del destino della Comunità e sono perciò liberi di accordarsi su nuovi trattati senza seguire le procedure comunitarie. Tuttavia, in pratica, sebbene in passato[10] siano state apportate modifiche ai Trattati senza seguire queste procedure, le controversie suscitate da questo fatto hanno costituito una delle ragioni per cui ci si è assicurati che le modifiche successive[11] fossero apportate conformemente a quanto prescritto. Inoltre il Parlamento stesso ha sostenuto l’uso delle procedure di revisione per preservare l’acquis communautaire dall’erosione da parte degli Stati e coinvolgere le istituzioni comunitarie nel processo.
Come ha giustificato, allora, il Parlamento la proposta di un nuovo Trattato che non segue queste procedure di revisione? La sua argomentazione è semplice e chiara: il progetto di Trattato, pur contenendo un articolo (l’articolo 7) nel quale prende in carico l’acquis communautaire e perciò implicitamente dà per scontato che l’Unione debba succedere alla Comunità, non è una revisione, ma un nuovo Trattato, il cui obiettivo è ben più ampio e che non può in alcun modo essere paragonato a semplici emendamenti dei Trattati esistenti. Il professor Jacqué, uno dei quattro giuristi che hanno assistito il Parlamento nella stesura del progetto, ha scritto: «La procedura di revisione dev’essere applicata quando si agisce entro il quadro del vecchio sistema che si vuole riformare. Questa procedura non entra più in gioco quando l’obiettivo è creare istituzioni con nuovi poteri e dotate di un differente stato giuridico».[12] Anzi, il Trattato CEE è stato creato senza riferimento all’articolo di revisione del Trattato CECA, e quando l’Assemblea ad hoc si impegnò nella preparazione della Comunità politica e, successivamente, gli Stati membri misero allo studio il Piano Fouchet, non fu fatto alcun cenno alle procedure di revisione dei Trattati esistenti. Il Parlamento ha ragione nel non invocare queste procedure.
L’evitare l’articolo 236 e il redigere una chiara proposta politica aveva anche il vantaggio, dal punto di vista del Parlamento, di evitare che un nuovo trattato fosse redatto in prima istanza da funzionari dei ministeri degli esteri, che considerava come i custodi della sovranità nazionale e i più interessati al mantenimento dello status quo.[13]
Il fatto di non ricorrere alle procedure di revisione dei Trattati esistenti non è quindi un ostacolo per la strategia del Parlamento.[14] Un nuovo Trattato può essere sottoscritto e ratificato senza seguire le procedure di revisione dei Trattati vigenti. Ma questo significa anche che tale Trattato può essere sottoscritto da un certo numero, ma non da tutti gli Stati membri della Comunità?
Le argomentazioni qui sono più complesse. Molto dipende dall’atteggiamento assunto dagli Stati che non vogliono far parte dell’Unione. Lo scenario più semplice dal punto di vista giuridico sarebbe quello in cui gli Stati non aderenti accettano la creazione dell’Unione,[15] forse salvaguardando i loro interessi attraverso qualche forma di associazione o di accordo con essa. In tal caso, non ci sarebbero ostacoli sulla strada dell’abrogazione dei Trattati della Comunità sulla base dell’accordo unanime di tutti i loro firmatari, secondo il diritto internazionale,[16] e l’Unione potrebbe allora succedere alle Comunità.
Se uno o più degli Stati non aderenti non sono disposti a sciogliere le Comunità, allora la situazione è più complessa. Potrebbero sostenere che gli Stati dell’Unione sono venuti meno ai doveri verso di loro, assunti con i Trattati della Comunità e che il Trattato dell’Unione è illegale e non valido. Haraszti[17] ha sostenuto che un trattato «inconciliabile con la sostanza» di un precedente trattato «equivarrebbe ad una violazione del diritto internazionale» e sarebbe perciò nullo in base all’articolo 53 della Convenzione di Vienna sul Diritto dei Trattati. Come sottolineato da Davidson, Freestone e Lodge,[18] le opinioni a sostegno di questa tesi sono poco numerose. Anzi, sia Schwarze[19] che l’ex-Avvocato generale della Corte europea, Catalano, hanno sostenuto che le cose stanno in realtà all’opposto. Poiché il preambolo del Trattato CEE afferma che le parti contraenti sono «determinate a porre le basi di una ancor più stretta unione tra i popoli d’Europa» e che simili affermazioni esistono nel preambolo del Trattato CECA, senza che tali Trattati forniscano strumenti sufficienti alla realizzazione di questo fine dichiarato, «sono perfettamente legittime iniziative da parte degli Stati che li hanno creati, miranti all’adempimento dell’impegno principale firmato ed adottato. Potrebbero quindi sorgere dubbi circa il corretto perseguimento degli obblighi di cui sopra da parte degli Stati che non accettano il nuovo Trattato dell’Unione, poiché il loro comportamento tende ad impedire il raggiungimento dell’obiettivo che si erano impegnati a perseguire».[20]
Una simile argomentazione piace evidentemente ai sostenitori del Trattato e analoghe argomentazioni furono usate quando gli Stati Uniti d’America furono costituiti senza seguire le procedure degli Articles of Confederation e prima che fosse chiaro che tutti gli Stati vi avrebbero partecipato. Lo stesso si verificò nella stesura della costituzione svizzera dopo la guerra del Sonderbund. In entrambi i casi furono create con successo nuove entità giuridiche, che furono riconosciute come sostituenti le entità preesistenti, le quali non furono mai formalmente disciolte. Ciononostante, come è commentato nell’Annuario della Legislazione europea,[21] «una simile argomentazione sembra appartenere più al regno della politica che a quello del diritto». Ciò che è certo, tuttavia, è che vi è ampio spazio per discussioni giuridiche, ma che è improbabile che esse costituiscano un ostacolo se vi è un numero sufficiente di Stati determinati a costituire una Unione. Il massimo che gli Stati che non vi partecipano potrebbero chiedere è il mantenimento della Comunità a fianco dell’Unione, tentando di limitare le responsabilità dell’Unione ai campi non coperti dalla Comunità o a quelli che la Comunità accettasse di trasferire all’Unione. Tale situazione comporterebbe una serie di difficoltà politiche, pratiche e legali. Vi sarebbe una costosa duplicazione con il Parlamento, il Consiglio, la Commissione e la Corte di Giustizia della Comunità coesistenti accanto alle analoghe istituzioni dell’Unione. Vi sarebbero continue dispute sulle responsabilità di ciascuno dei due ambiti, dal momento che molti problemi verrebbero trattati sia dalla Comunità sia dall’Unione. Gli Stati dell’Unione si comporterebbero presumibilmente come un gruppo compatto in seno alla Comunità. Potrebbero anche agire per ridurre al minimo l’importanza della Comunità, facendo scendere il bilancio al livello minimo possibile e rifiutando di sviluppare nuove politiche. Potrebbero perfino uscire dalla Comunità, quale che sia la legalità di una simile mossa. In ogni caso, è difficile vedere quali vantaggi a lungo termine avrebbero gli Stati che non accettassero l’Unione nell’insistere sul mantenimento della Comunità a fianco della Unione. Le difficoltà insite in tale situazione sarebbero proibitive per tutti, ma soprattutto per loro. È di gran lunga più probabile che essi preferirebbero negoziare un accordo di associazione accettato all’unanimità nel quale ad esempio l’Unione preservi l’acquis communautaire come la libera circolazione o la partecipazione a progetti di ricerca. In alternativa, potrebbero passar sopra alle loro riserve e finire per aderire all’Unione: ciò è appunto quanto il Parlamento spera che finisca per accadere.[22] La strategia di permettere che l’Unione venga creata senza la partecipazione di tutti gli Stati della Comunità non mira ad escludere alcuno, ma ad impedire ad una minoranza di vanificare il desiderio della maggioranza di istituire l’Unione europea. Il successo di questa strategia non dipenderà, come succede normalmente nelle faccende comunitarie, dal raggiungere un compromesso con il più recalcitrante, ma dalla determinazione della maggioranza. Il precedente storico appropriato non è quello di Spaak nel 1956, ma quello di Schuman nel 1950.
Richard Corbett
[1] Si veda ad esempio il discorso del Presidente Mitterrand al Parlamento europeo, il 24 maggio 1984.
[2] Si veda ad esempio la risoluzione del Senato italiano del l0 maggio 1984, verbale della 110a seduta pubblica, pp. 11-40.
[3] Gazzetta Ufficiale (1984) C 77, p. 33.
[4] Per un resoconto di questo processo, si veda Joseph Weiler in Journal of European Integration, n. 2-3 (1983), p. 129.
[5] Articolo 96 del Trattato CECA e articolo 204 del Trattato Euratom.
[6] Kapteyn e Verloren van Themaat, Introduction to the Law of European Communities, 1973, pp. 37-38.
[7] Caso 6/64, Costa v. ENEL (1964) E.C.R. 585.
[8] Si veda, ad esempio, Schwarze, «Das allgemeine Volkerrecht in den innergemeinschaftlichen Rechtsbeziehungen», in Europarecht, 1, 1983, p. 1; Schermers in International Institutional Law, 2a ed., 1982, cap. 8 e Lesguillons in L’application d’un traité-fondation: le traité instituant la CEE, 1968.
[10] Per esempio, l’emendamento del Trattato CECA per tener conto del Trattato della Saar (1956).
[11] Per esempio i Trattati del 1970 e del 1975 che emendavano alcune prescrizioni di bilancio e finanziarie dei Trattati.
[12] Jacqué, «The European Union Treaty and the Community Treaties», in Crocodile, n. 11, 1983, p. 7.
[13] Parlamento europeo, doc. 1-575/83/B.
[14] Né nuoce alla posizione del Parlamento europeo il fatto che queste procedure dovrebbero essere seguite nel caso di emendamenti ai Trattati esistenti piuttosto che nel caso dell’adozione di un nuovo Trattato.
[15] Così come nel 1960 tutti i paesi dell’OECE accettarono la sua sostituzione con l’OCDE, anche se non tutti i membri dell’OECE sarebbero entrati nell’OCDE.
[16] Articolo 54 della Convenzione di Vienna sul Diritto dei Trattati.
[17] Haraszti, Some Fundamental Problems of the Law of Treaties (1973), citato in Lodge, Freestone e Davidson, op. cit., p. 347.
[20] Catalano,«The European Union Treaty: Legal and Institutional Legitimacy», in Crocodile, n. 11, 1983, p. 4.
[21] D. Nickel e R. Corbett, «The Draft Treaty establishing European Union», in Yearbook of European Law, 1984, in corso di stampa.
[22] Vedasi la Risoluzione sulle decisioni del Consiglio europeo circa l’Unione europea approvata il 17 aprile 1985 (Rapporto Croux), Doc. A 2-17/85.