IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno LXVI, 2024, Numero 2-3, Pagina 89

LE IMPLICAZIONI TECNICHE DI UNA DIFESA EUROPEA*

Introduzione: l’analogia con gli anni Cinquanta.

Le recenti tensioni internazionali, e la spirale di anarchia che regola i rapporti tra Stati porta oggi alla necessità di una ripresa della discussione sul tema della difesa comune: la finestra storica, su cui siamo già in ritardo, apertasi con la prima occupazione da parte della Federazione Russa della Crimea e del Donbass, ci ha gettato in una situazione simile a quella che si profilava negli anni Cinquanta, quando si tentò seriamente di mettere in piedi un sistema comunitario di difesa. Per quanto gli analogismi tra due periodi storici scoprano spesso il fianco a decontestualizzazioni e bias temporali, è comunque innegabile la copresenza di tre punti comuni.

In primo luogo, la presenza di un leader dall’altra parte della cortina cui non possiamo fidarci: prima Stalin, ora Putin.

In secondo luogo, una guerra che ci ha fatto comprendere la pericolosità dell’altra parte e la paura che il conflitto si allarghi endemicamente al continente: prima la Guerra di Corea ed ora la Guerra Russo-Ucraina.

Infine, il senso di insicurezza cronica della classe politica europea rispetto all’impegno americano nella difesa del continente ed il nodo centrale del burden-sharing interno alla NATO, da sempre leva politica delle presidenze d’oltreoceano.

La morte di Stalin nella Dacia nel marzo del 1953, la fine, con un nulla di fatto, della Guerra di Corea nel luglio dello stesso anno, e l’apertura del fronte algerino per i francesi nel 1954, hanno portato ad un repentino fallimento del progetto di costruzione della difesa comunitaria.

Questa cornice storica non vuole essere un futile esercizio di stile fine a sé stesso, ma un monito di come il processo storico di costruzione della difesa comunitaria (come del resto della federazione tutta), non si incastona nella logica dell’inevitabilità storica, ma rassomiglia più ad un essere organico in continuo cambiamento, e sta a noi agire nel momento giusto per far sì che questo giunga a compimento.

È quindi fondamentale non lasciarsi sfuggire anche questa opportunità.

La contestualizzazione storica e riconoscere questo momento come un’apertura fondamentale su cui fare leva, è forse la parte più semplice, perché scendendo poi nell’applicazione materiale delle scelte politiche, queste generano, una volta prese, altre domande aperte, in una sequenza di opzioni estremamente articolata.

Provando a mettere ordine alle molte idee che gravitano attorno alla questione della difesa, vi sono moltissime questioni politiche di fondamentale importanza che attendono soluzione o, meglio, implementazione, ma ve ne sono altrettante dal punto di vista tecnico e pratico. In particolare, sono riscontrabili a primo avviso almeno cinque punti chiave da risolvere in questo campo.
 

La costruzione di una struttura sistemica di coordinamento industriale.

Dobbiamo intanto aver chiaro che la costruzione di una difesa comune europea sarà, nella messa a terra sostanziale, un processo lungo e complicato perché, a differenza di Stati come la Federazione Russa e gli Stati uniti d’America, in cui l’industria bellica è nata e cresciuta in un sistema già connesso, e quindi costruita fin dagli albori con una struttura già improntata nella cooperazione tra aziende e con una competizione regolata dallo Stato centrale in materia di appalti, in Europa solo recentemente si sono avviati processi di cooperazione tra aziende dei vari paesi (uno dei primi progetti di cooperazione fra paesi europei nella produzione di armamenti è stato lo sviluppo del Panavia Tornado nella seconda metà degli anni Settanta). Queste collaborazioni seguono spesso regole di mercato, nelle quali quindi non sono inusuali estromissioni vicendevoli dai progetti di ricerca o ritiri unilaterali dallo sviluppo a seguito di scelte economiche da parte delle aziende, che, come primo punto di riferimento, hanno gli utili e non l’orizzonte politico. Le Joint Venture tra aziende della difesa europee sono le benvenute, e sono iniziative che, in assenza di altro devono essere incentivate, ma sono anche fortemente limitate negli scopi: ne è un esempio la recente collaborazione siglata tra l’italiana Leonardo e la tedesca Rheinmetall, volta all’aggiornamento del parco blindati dell’esercito italiano: se un mezzo viene sviluppato seguendo solo le linee strategiche e di dottrina italiane, questa macchina, per quanto possa uscire perfetta, vedrà la sua efficacia limitata agli obbiettivi specifici preposti dall’alto comando italiano e quindi non necessariamente adatto all’impiego in altri teatri o sotto dottrine di guerra differenti.
 

Omologazione e razionalizzazione: la necessità di integrarsi.

Questo ci porta direttamente al secondo punto critico da risolvere, l’omologazione dei sistemi di difesa e la razionalizzazione delle spese per la difesa.

Vi è una necessità imperante di omologazione e riconversione completa in termini di armi e mezzi delle forze armate di tutti i paesi europei che porti ad una comunione di equipaggiamenti e procedure; anche in questo caso vi sono iniziative di cooperazione lodevoli, ma limitate nel raggio. Esistono e vengono redatti regolamenti europei, anche su temi di micro amministrazione delle forze, in cui si cerca di dare a tutti i membri delle forze armate un compendio comune sul modo di agire durante i pattugliamenti a terra, ad esempio, o sulle procedure da seguire in caso di emergenza, ma tutti questi sforzi si ritrovano ad essere gerarchicamente sottostanti alle singole direttive ed ai singoli regolamenti stilati dagli Stati nazionali, rendendo quelli europei un apparato figlio di una sclerotizzazione burocratica e producendo una moltiplicazione superflua ed una differenza grossolana sui metodi ed i comportamenti del personale a terra.
  

Le spese, gli sprechi, l’opinione pubblica.

Affrontando invece il tema della razionalizzazione dei costi della difesa, ci scontriamo su due questioni interessanti, un paradosso ed una renitenza sociale.

Il secondo punto è il più veloce da dirimere, basta dire che non è certo un segreto la forte e lodevole resistenza della società civile europea, e quindi della politica, rispetto al tema della difesa e dei suoi costi, dal momento che è ancora vivo un sentimento antimilitarista nel continente che rende spinosa ogni discussione sulla difesa e sul suo finanziamento.

Il paradosso invece sta nel fatto che nonostante questa avversione ideologica verso i costi bellici, il budget dei vari ministeri della difesa dei paesi dell’Unione oltre ad essere invidiabile, parliamo, al 2020, di 200 miliardi di euro, non ha fatto che aumentare. Il problema dei costi non sta tanto in una valutazione etica del tema, ma nel campo pragmatico delle spese. Insomma, questi investimenti sono validi? Ad oggi, viene da dire che sono costi necessari, ma infinitamente razionalizzabili, perché anche qua siamo vittime di quelle sclerotizzazioni prima citate in termini di omologazione dei regolamenti.

Per capire gli sprechi che esistono e persistono, basti pensare all’enorme varietà in termini di parco mezzi tra le varie forze armate europee: ogni paese “maggiore” nel continente si ostina a ricercare e produrre i propri MBT (Main battle tank); ad esempio, in Francia abbiamo il Leclerc, In Germania abbiamo la serie Leopard ed in Italia l’Ariete, e ognuno di questi modelli di carro ha bisogno di un supporto logistico specifico, di un equipaggio addestrato per operare su quella macchina e di un comparto industriale che ne possa garantire la riproducibilità. Se moltiplichiamo questa varietà a praticamente tutti i paesi europei e in tutti gli ambiti micro e macro della difesa, capiamo facilmente come vi siano ampi margini di miglioramento nella gestione dei costi. Anche qui esistono esempi virtuosi da cui prendere spunto, come nel caso dell’omologazione in ambito NATO dei calibri per i fucili di dotazione nelle forze armate dell’alleanza atlantica nel 5,56 mm, ma, come detto in precedenza, è sempre troppo poco.
 

Die kaiserliche und königliche Armee.

Il terzo punto da toccare è sempre da leggersi in termini di armonizzazione, ma culturale.

Una delle sfide che ci si porrà di fronte sarà l’omologazione delle componenti nazionali all’interno di una sola istituzione. Le forze armate in Europa, sono state spesso e stanno tornando ad essere l’ultimo baluardo di un’identità nazionale in crisi, un ricettacolo di nazionalismi che può fortemente intaccare la cooperazione tra unità diverse, incorrendo nel rischio di generare un effetto “austro-ungarico” interno alle forze di difesa, che ne minerebbe la compattezza e le capacità operative.
  

Il possibile ruolo dei federalisti.

Dopo aver tentato di sottolineare le criticità chiave nel processo di creazione della difesa europea, ci rimane da chiederci cosa possa fare il Movimento federalista europeo in questa realtà. Il nostro ruolo d’avanguardisti può essere efficacemente svolto spendendosi come collante tra politica ed industria, essendo forti dell’impossibilità di essere politicamente ricattati, perché, privi di velleità partitiche, possiamo essere i primi interlocutori con i settori industriali della difesa ed intavolare con loro una discussione volta a semplificare, alla politica, la comprensione delle necessità di un settore economico imponente e, alle aziende, la comprensione della necessità politica della difesa comunitaria, barcamenandosi in un opera diplomatica tra i due mondi.

Se dovessimo in modo miope concentrarci su uno solo dei due fattori trascurando l’altro rischieremmo o di non creare nulla (fallimento politico) o di creare un gigante dai piedi d’argilla (fallimento nella messa a terra del progetto).

* * *

Rimangono due punti da esaminare prima di avviarci alle conclusioni.
  

La NATO.

Partiamo dall’elefante nella stanza di una qualsiasi discussione sulla difesa comunitaria, il rapporto con la NATO, e quindi con gli Stati Uniti.

L’alleanza deve rimanere centrale nella costruzione di un sistema di difesa comune, deve servirci come bussola rispetto alla costruzione di una forza integrata, e, successivamente può essere un importante sistema d’appoggio con però un peso specifico statunitense fortemente ridimensionato e con la riacquisizione da parte europea della propria autonomia strategica e militare, lavorando per spezzare lo strapotere americano sull’industria bellica europea, preferendo la produzione di sistemi indigeni e per renderci maggiormente capaci di agire anche liberamente in contesti strategici complessi.
 

Strutturare le forze armate.

Su questo punto vi è una concordia di base nel mondo federalista e non solo, con però criticità a cui stare attenti. Come costruire queste forze armate? Qua credo dipenda tutto da quale ruolo si voglia dare al sistema di difesa comunitario.

Se l’obbiettivo è quello di avere la capacità di proiettare la nostra forza al di fuori del continente, prospettiva abbandonata dagli europei sin dalla guerra fredda, appaltando la propria capacità di proiezione della forza agli statunitensi, almeno quando si parla di operazioni su vasta scala, avremo necessariamente bisogno di forze armate con personale attivo simile in numero a quello statunitense seguendo quindi la metodologia novecentesca di strutturazione, con tutti i costi non solo prettamente economici che ne conseguono.

Questa non è un’opzione particolarmente convincente, perché la proiezione all’esterno può essere raggiunta con riforme nel modo di funzionamento della NATO senza così rischiare un uso errato della forza militare da parte delle forze politiche europee, che essendo politica, può e sicuramente varierà molto nel tempo, evitando il rischio di una deriva di tipo neo-coloniale o comunque un uso offensivo e quindi improprio delle forze armate, coadiuvando quello che si spera sarà un impegno costituzionale, quando verrà il momento, di ripudio della guerra ad una struttura tecnica inadatta ed incapace di seguire ed attuare politiche di potenza.

La seconda opzione è la creazione di una relativamente piccola task force altamente specializzata capace di difendere i territori continentali, se coadiuvata da una massiccia forza di riservisti e che in accordo con le Nazioni Unite abbia la possibilità di essere schierata anche al di fuori del continente riuscendo così a donare un peso specifico anche a questa istituzione e risolvendo l’annosa questione della sua inefficienza.

Su questo assetto, che gode, come già detto, di largo consenso, vi sono però dei nodi da affrontare.

Il primo, meno critico, che ricalca la questione dell’armonizzazione degli equipaggiamenti delle varie forze armate è: come si equipaggiano i riservisti? Serve a monte un sistema di omologazione di equipaggiamenti e dottrine seguendo un processo gerarchico, partendo dalla punta della piramide per poi scendere ai riservisti. Nulla vieta che in un primo momento i sistemi d’arma che cadrebbero in disuso a seguito dell’omologazione continentale, continuino a prestare servizio nelle guardie nazionali dei vari paesi, ma successivamente si dovrà procedere anche alla loro razionalizzazione, esaurendo nei fatti la domanda nazionale per sistemi di armamenti che non siano quelli comuni in tutta Europa, e tornando quindi al punto prima citato della necessità di dialogare in anticipo con le aziende nazionali per far loro presente il rischio di perdere questa imponente fetta di mercato.

La seconda criticità si lega alla lettura data precedentemente delle forze armate come ricettacolo dei nazionalismi europei, le guardie nazionali di un certo paese dovranno essere composte dai cittadini di quel paese? Oppure risulterà essere più utile mischiare le nazionalità, seguendo il modello arcaico di costruzione dell’identità nazionale tramite il servizio militare in luoghi lontani dal paese natio? Perché per quanto possa sembrare scontato che la guardia nazionale, ad esempio polacca, sia composta esclusivamente da cittadini polacchi, esiste un forte rischio di deriva nazionalista interna alle guardie nazionali, minando quindi l’interno sistema. Una soluzione, oltre al mischiare le varie nazionalità, che riporta a periodi storici di cui, come europei, non possiamo andare fieri, si potrebbero mettere le guardie nazionali alle dipendenze dirette di un ministero centralizzato e non dei singoli Stati, irrigidendo però così un sistema, che invece richiede per sua natura un’alta elasticità ed una velocità di mobilitazione rapida.
  

Conclusioni.

In conclusione, rimangono altri punti problematici degni di nota, come il ruolo inglese, che ancora oggi sviluppa e produce mezzi in collaborazione con aziende europee, come nel caso del progetto Tempest, nato dalla collaborazione tra Leonardo e BAE systems, che dispone di un arsenale nucleare e che siede al consiglio di sicurezza dell’ONU, o ancora, il nodo della forza nucleare francese.

Quello su cui, però andrà posta maggiormente l’attenzione, perché rischiamo di peccare inavvertitamente di eurocentrismo, sarà la risposta del resto del mondo al processo di costituzione della difesa europea, perché, per quanto possa sembraci un passaggio naturale sulla via della federazione, dovremo tener presente che non tutti vedranno questi sviluppi nella nostra stessa ottica, ma leggeranno il riarmo del continente europeo, teatro e creatore di due guerre mondiali e inevitabilmente macchiato dalla propria storia coloniale, come una nuova minaccia da cui difendersi.

Questa paura potrebbe portare al riaffiorare del “paradosso della sicurezza”, che ha già attanagliato il mondo durante la guerra fredda e che minacciosamente sta tornando a farsi vedere in tempi recenti.

Edoardo Pecene


[*] Rielaborazione dell’intervento alla riunione nazionale dell’Ufficio del Dibattito del Movimento federalista europeo tenutasi a Cagliari il 19-20 ottobre 2024sul tema: Unione europea: un laboratorio per realizzare l’unità nella diversità.

 

 

 

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