IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno LX, 2018, Numero 2-3, Pagina 119

 

 

LA TASSAZIONE DELLE ATTIVITA’ INQUINANTI E IL PROBLEMA DELLA SOVRANAZIONALITA’*

 

 

1. Introduzione

Lo studio delle misure mirate al contrasto dell’inquinamento deve necessariamente partire con la definizione di bene pubblico, di fallimento di mercato, di esternalità negative e di intervento pubblico. Com’è noto, i beni possono essere classificati come privati (se sono rivali ed escludibili nel consumo), tariffabili (non rivali ma escludibili), comuni (rivali ma non escludibili) e pubblici (né rivali né escludibili). L’aria non inquinata, dato che è condivisa con ogni persona e il suo consumo non può essere regolato, va quindi inserita nella categoria di bene pubblico. In un’economia di beni pubblici, gli individui non hanno interesse a rivelare le loro preferenze, in particolare le loro valutazioni marginali. Sottostimare o nascondere queste valutazioni è quindi la strategia dominante per i consumatori, che agiscono come free-riders e impediscono di fatto agli attori economici di produrre beni pubblici, che di conseguenza non verranno né domandati né offerti. Questo è un caso da manuale di fallimento di mercato, dato che in un’economia libera e decentrata tali beni non possono essere prodotti in modo efficiente. Nel caso dell’inquinamento atmosferico, vanno anche prese in considerazione le esternalità. Un’esternalità si verifica quando la scelta di produzione o consumo di un attore influenza direttamente il pay-off di un altro senza essere compensato. Nell’economia ambientale questo è un concetto essenziale, perché l’inquinamento è classificato come un’esternalità negativa, causata principalmente da produttori, che ha ricadute sia su produttori che su consumatori. Ciò costituisce un ulteriore fallimento di mercato, e rende quindi necessario un certo livello di intervento pubblico.[1] Nelle sezioni successive discuterò le più importanti strategie che le autorità pubbliche possono adottare per affrontare il problema dell’inquinamento.
 

2. Intervento pubblico per proteggere l’ambiente

Bosi[2] individua sei soluzioni principali di cui gli Stati dispongono per proteggere l’ambiente, attraverso incentivi, disincentivi e meccanismi regolativi. I primi due mirano a internalizzare le esternalità, e consistono nella produzione pubblica e nella fusione di aziende. Produzione pubblica implica che l’attività economica inquinante sia messa sotto il controllo di un’autorità politica, il che significa che le emissioni sono controllate dal processo politico. L’inquinamento cessa così di essere un’esternalità, perché il suo livello è deciso dai detentori del diritto di voto, inteso come una scelta politica basata su un calcolo costi-benefici da parte degli elettori. Il limite di questa strategia è che si tratta di un’opzione radicale che limita considerevolmente la libertà degli attori economici in un’economia decentralizzata. La fusione di imprese, invece, internalizza le esternalità unificando le funzioni dei costi di produzione delle aziende coinvolte. Il punto debole di questa strategia è che riguarda solamente le esternalità negative di tipo produttore-produttore. Tuttavia, un aspetto positivo è il costo inferiore di implementazione rispetto alla produzione pubblica. Analizzerò le altre politiche con maggior dettaglio.
 

2.1 Regolamentazione.

Attraverso la regolamentazione, le autorità politiche possono obbligare le imprese a contenere le emissioni sotto un determinato limite oppure i consumatori a evitare certi tipi di comportamento. Nel breve periodo, le imprese possono reagire alle restrizioni legali riducendo la produzione. Possono anche investire in ricerca e sviluppo per acquisire in futuro meno infrastrutture e strumenti di produzione inquinanti. La regolamentazione è tuttavia indebolita da due aspetti importanti. Da un lato, richiede l’impiego di ispettori, che costituiscono un costo importante per l’autorità pubblica. Inoltre, le singole fattispecie possono differire molto le une dalle altre, e quindi una singola regolamentazione può agire in modo iniquo sui produttori. Dall’altro lato, prendendo in considerazione l’arena internazionale, dato che la regolamentazione è considerata dalle imprese come un obbligo oneroso, esse possono prendere in considerazione la strategia di delocalizzare i loro impianti in paesi con regole meno severe.

La regolamentazione delle emissioni dei beni di consumo è meno problematica, soprattutto in caso di consumo di massa standardizzato. I controlli sono infatti più semplici da realizzare, dato che i beni sono standardizzati, e i cittadini non possono cambiare il luogo dei loro consumi così facilmente come le imprese possono delocalizzare la propria produzione. Il regolamento europeo sulle emissioni delle automobili è uno dei casi più noti. Un rapporto pubblicato dalla Commissione europea per monitorare l’effetto della regolamentazione sui prezzi[3] ha mostrato che in un’economia di libero mercato essi sono determinati più dalla concorrenza che dai costi delle contromisure contro le restrizioni legali. Alla luce di questa breve considerazione, possiamo affermare che una politica regolativa sui consumi è conveniente sia per gli Stati nazionali, sia per le organizzazioni regionali, perché i consumatori sono ancorati al loro territorio. La ragione che può spingere gli Stati a cedere a organismi sovranazionali queste competenze è che in tal modo potrebbero condividerne i costi e facilitare l’attività economica transfrontaliera. Inoltre, regolare le emissioni delle attività produttive a livello nazionale è meno efficiente, perché gli Stati sono sovrani solo su un territorio ristretto, mentre, teoricamente, in uno scenario globale, poche grandi organizzazioni sovranazionali potrebbero coordinarsi meglio tra di loro. Le politiche di regolamentazione non sono tuttavia sufficienti a finanziare organismi sovranazionali privi di una capacità fiscale propria, perché le entrate deriverebbero esclusivamente da multe in caso di violazioni delle regole, che sono per definizione intermittenti e imprevedibili.
 

2.2 Allocazione dei diritti di proprietà: il teorema di Coase.

Il teorema di Coase è stato enunciato nel 1960, lo stesso anno della nascita dell’economia ambientale.[4] Anche se ha ricevuto numerose critiche, l’argomento in questione è stato accompagnato da un dibattito che ha sviluppato notevolmente la materia. Robert Coase ha criticato il concetto di esternalità come causa di fallimenti di mercato, dato che le reazioni degli individui danneggiati sono esse stesse a loro volta esternalità contro l’attore che le ha causate. Si può venire a capo in modo efficiente delle esternalità solo se i diritti di proprietà sono completamente allocati, lasciando alle trattazioni di mercato il diritto di interferire con i beni altrui. Dunque, non è importante la destinazione dei diritti di proprietà, perché gli individui sono in grado di scambiarli in modo efficiente, ma che lo Stato sia in grado di assicurarli e di garantire le fondamenta del libero mercato.[5]

La prima grande critica a questo approccio è giunta da Allen Kneese,[6] a partire da due argomentazioni principali. Da un lato, si pone un problema di equità, dal momento che è meglio compensare una vittima dell’inquinamento piuttosto che aspettarsi che paghi per la sua salute; dall’altro, nel mondo reale, è difficile creare un mercato senza costi di transazione e, particolarmente nel caso di numerosi individui colpiti dalle esternalità, è troppo costoso aggregare le loro preferenze in modo da creare un mercato.[7] Lo studio di un caso concreto[8] dimostra che “il teorema di Coase non funziona in presenza di informazioni imperfette, comportamenti non massimizzanti e costi di transazione. […] L’utilizzazione di schemi standard o l’intervento del governo potrebbero essere, in date condizioni, un approccio più efficace e meno costoso.” Questa ricerca conferma le posizioni di Kneese, dimostrando che l’applicazione pratica del teorema è più complessa della teoria.
 

2.3. Le imposte pigouviane.

La teorizzazione delle cosiddette imposte pigouviane origina dal lavoro di Arthur C. Pigou.[9] Un intervento pubblico è giustificato dalla differenza tra prodotto marginale netto privato e prodotto marginale netto per la società. Tale differenza ha effetto sui costi marginali privati e pubblici, portando ad una situazione nella quale i produttori non hanno interesse a ridurre le perdite in cui incorre la società, che costituiscono esternalità negative. Di conseguenza, è necessario un intervento pubblico nella forma di una politica fiscale mirata. Il valore di questa tassa dovrebbe essere uguale al costo marginale esterno, calcolato da un punto di vista di efficienza a posteriori, spingendo il produttore a raggiungere un livello di produzione ottimale al netto della tassazione. Analogamente al caso del teorema di Coase, il passaggio dalla teoria alla politica è molto complesso. Di fatto, per un’autorità pubblica è difficile raccogliere informazioni circa i costi marginali e i livelli ottimali di produzione per ciascun produttore al fine di calcolare l’ammontare corretto della tassa. Inoltre, nell’ipotesi che venga trovato questo valore, esso rimarrebbe valido solo per il breve periodo, durante il quale le attività industriali rimangono costanti: un aumento o una diminuzione nel numero delle imprese renderebbe necessario ricalcolare la tassa.[10] Un esempio di tassa pigouviana vigente è la legislazione italiana varata in conseguenza della Conferenza di Kyoto del 1997, di cui si parlerà più avanti.
 

2.4. Diritti di inquinamento trasferibili: la base delle politiche di cap-and-trade.

La proposta dei diritti di inquinamento trasferibili (Emission Trading System, ETS) cerca di diminuire le esternalità negative combinando il ruolo delle istituzioni pubbliche con l’economia di mercato. In questo quadro, lo Stato distribuisce diritti di inquinamento sotto forma di vouchers che limitano ad un certo livello le emissioni delle imprese. In tal modo, l’ammontare totale di inquinamento consentito è deciso a livello politico, e l’assegnazione dei diritti dovrebbe essere ispirata a criteri sia di efficienza che di equità. Dopo questa fase, i produttori iniziano a contrattare il valore di questi vouchers e a redistribuirli alla luce di valutazioni individuali di costi-benefici. Il fatto che il numero totale dei permessi disponibili sia limitato ne assicura il valore, e il risultato di questo processo ne sarebbe una distribuzione ottimale.[11] Secondo il Fondo monetario internazionale,[12] la scelta tra carbon-tax ed ETS è meno importante del ricorso all’uno o all’altro e del fatto di assicurare una struttura di base corretta. Ciò che più conta è coprire completamente le emissioni, definire prezzi stabili in linea con gli obiettivi ambientali e sfruttare le opportunità fiscali. Gli ETS presentano comunque alcune debolezze: non assicurano piena copertura, dal momento che riguardano solo alcune attività inquinanti; richiedono provvedimenti per la stabilizzazione dei prezzi; richiedono la messa all’asta delle quote al fine di ottenere entrate per finanziare politiche fiscali più ampie. Nonostante le criticità, questo approccio teorico è stato adottato in diverse aree del mondo, in particolare dall’Unione europea.
 

3. Tassazione dell’inquinamento e istituzioni sovranazionali

3.1. L’approccio della teoria dei giochi.

La teoria dei giochi è una disciplina molto adatta per gli studi sul modo con cui sono gestiti i problemi ambientali a livello politico, perché è in grado di descrivere accuratamente alcune tipiche situazioni che si verificano nel corso delle trattative per gli accordi sul clima. Il quadro comunemente presentato dalle conferenze intergovernative è quello dello schema pledge-and-review, che, nel caso specifico, sostanzialmente implica che gli Stati debbano adempiere ad alcuni compiti e presentare un rendiconto dei loro sforzi. La situazione di pledge-and-review crea un ambiente competitivo il cui risultato è simile alla “tragedia dei beni comuni”.[13] Di conseguenza, la strategia dominante degli attori, supponendo che siano interessati al proprio vantaggio e ben informati sui vantaggi e sulle perdite, consiste nell’evitare la cooperazione perché non possono influenzare il comportamento dell’altro giocatore. L’equilibrio di Nash[14] porta ad una soluzione non cooperativa. Ciò succede perché l’agire unicamente in modo virtuoso è relativamente meno conveniente che rifiutarsi di agire. La tabella seguente illustra lo schema di base della situazione appena descritta, mostrando il risultato dei giocatori nel breve periodo. I più e i meno nelle celle della tabella indicano il pay-off, ossia il guadagno o la perdita, degli attori del gioco; in neretto la soluzione che corrisponde all’equilibrio di Nash.
 

 

B coopera

B non coopera

 A coopera

( + ; + )

( - - ; ++ )

 A non coopera

( ++ ; - - )

( - ; - )

 

La risposta tradizionale a questo dilemma, che condanna all’impotenza l’arena internazionale, è di creare un potere sovranazionale capace di costringere gli Stati a cooperare: questo nuovo attore politico dovrebbe essere in grado di creare leggi che diminuiscano il vantaggio offerto da comportamenti non cooperativi. Tuttavia, poiché questo sviluppo politico non è in vista, diversi studiosi del Carbon Price Project hanno proposto un nuovo approccio alla cooperazione internazionale.[15] L’idea consiste nel calcolare il contributo di ciascuno Stato e redistribuire la somma raccolta a livello internazionale in parti uguali. Supponendo che gli attori abbiano in dotazione due unità, che le risorse redistribuite raddoppino e che l’eccedente sia accumulato da un attore terzo, il pay-off di ciascun attore sarebbe quindi uguale alle risorse non redistribuite più il valore della minima contribuzione tra gli Stati moltiplicata per due. Ad esempio, se uno degli Stati non contribuisce, non viene redistribuito nulla, e quindi il suo pay-off è uguale alle risorse di partenza. Di conseguenza, gli Stati sono interessati a redistribuire tutti la medesima quantità di risorse. Tale nuovo approccio, noto come “gioco a impegno comune”, può essere sintetizzato con la seguente tabella.
 

 

B dà 0

B dà 1

B dà 2

 A dà 0

( 2 ; 2 )

( 2 ; 1 )

( 2 ; 0 )

 A dà 1

( 1 ; 2 )

( 3 ; 3 )

( 3 ; 2 )

 A dà 2

( 0 ; 2 )

( 2 ; 3 )

( 4 ; 4 )

 

Questa situazione offre un equilibrio di Nash multiplo, dal momento che non c’è una strategia dominante come nel primo caso; perciò gli attori si coordineranno al fine di ottenere il massimo risultato, cioè la soluzione desiderabile per le esigenze ambientali.

La principale criticità nell’approccio che utilizza la teoria dei giochi sta nel fatto che si considerano gli Stati come individui e come attori omogenei. Diventa così difficile immaginare che scelte politiche, come lo stabilire un prezzo delle emissioni di anidride carbonica, siano determinate unicamente dall’interesse nazionale e dalle decisioni di altri Stati. Condizione necessaria per raggiungere una massiccia cooperazione è che ciascuno Stato coinvolto nel processo scelga di cooperare fino in fondo. Se anche solo uno Stato rifiuta, l’intero gioco cessa di essere uno strumento utile. Un altro motivo di preoccupazione è che il ruolo dell’arbitro non è ben definito e se fosse identificato con un’organizzazione internazionale, come la Banca mondiale o l’ONU, sarebbe privo di responsabilità democratica. Per di più, se non viene prevista alcuna esecuzione forzosa, l’arena internazionale rimarrebbe immutata, lasciando a negoziati intergovernativi il problema della fissazione del prezzo delle emissioni. Anche se questo risultato rappresentasse un successo pratico per uno specifico problema, non contribuirebbe alla creazione di una istituzione democratica sovranazionale. In conclusione, la teoria dei giochi è utile per spiegare il fallimento di accordi internazionali, ma, poiché prevede attori esclusivamente interessati al proprio vantaggio, non offre una roadmap per raggiungere una democrazia sovranazionale.
 

3.2. Le conferenze internazionali sul clima.

La teoria dei giochi permette un’utile analisi per capire il motivo per cui numerose conferenze internazionali sul clima basate sul metodo pledge-and-review hanno fallito. La Conferenza di Kyoto va considerata un fallimento perché, dopo aver dichiarato un unanime impegno comune a ridurre di una data percentuale le emissioni, gli Stati hanno deciso di agire in ordine sparso. Per di più, il 25 luglio 1997, il Senato degli Stati Uniti ha approvato la risoluzione Byrd-Hagel, che ha bloccato ogni tentativo di adottare le misure previste a Kyoto. I senatori americani erano preoccupati per il relativo vantaggio che i paesi in via di sviluppo avrebbero avuto se solo i paesi sviluppati fossero stati costretti a ridurre le proprie emissioni. In particolare, il testo della risoluzione afferma: “Gli Stati Uniti non dovrebbero sottoscrivere alcun protocollo […] che richieda nuovi impegni a limitare o a ridurre le emissioni di gas serra […], a meno che il protocollo o altro accordo non imponga anche alle Parti “Paesi in via di sviluppo” nuovi specifici impegni programmati a limitare o ridurre le emissioni di gas serra entro lo stesso periodo di tempo, o che risulti in seri danni all’economia degli Stati Uniti.”

L’accordo di Parigi è partito da un concetto diverso, in quanto il trattato è destinato a diventare vincolante se un numero minimo di Stati lo sottoscriverà. Il testo afferma che “l’accordo entrerà in vigore il trentesimo giorno a partire dalla data in cui almeno 55 Parti della Convenzione, corrispondenti nel loro insieme ad almeno il 55% del totale delle emissioni globali di gas serra, abbiano depositato i loro strumenti di ratifica, accettazione, approvazione o accessione.” Questi numeri suggeriscono che solo un’azione comune da parte dei maggiori inquinatori nel mondo, sempre riluttanti a ratificare questo tipo di accordi, avrebbe veramente il potere di vitalizzare il trattato. Inoltre, l’accordo di Parigi richiede a tutte le Parti di dichiarare lo sforzo massimo che sono disposte a compiere definendo a livello nazionale il proprio contributo e di rafforzarlo negli anni successivi. Ciò comporta la richiesta a tutte le Parti di riferire regolarmente sulle proprie emissioni e sui propri sforzi per implementare gli impegni. Questo meccanismo ricorda da vicino lo schema pledge-and-review che non è stato in grado di portare al successo la conferenza di Kyoto.
 

4. Le politiche ambientali nazionali ed europee

Dopo una rapida analisi delle due più note conferenze sul clima e delle loro debolezze, prenderò in esame il teatro europeo, sia a livello nazionale, sia dell’Unione europea.
 

4.1 Il livello degli Stati membri: le carbon taxes.

Poiché l’UE non ha raggiunto le caratteristiche di un’unione fiscale, solo gli Stati membri hanno il potere di attuare politiche fiscali. In Italia, la legge che per la prima volta regola la tassazione sulle emissioni è la n. 448/1998 “Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo”. L’articolo 8, comma 1 stabilisce: “Al fine di perseguire l’obiettivo di ridurre le emissioni di anidride carbonica derivante dall’impiego di oli minerali in accordo con le conclusioni della Conferenza di Kyoto dell’1-11 dicembre 1997, le aliquote delle accise sugli oli minerali sono rideterminate […].” Il secondo comma prescrive che la variazione delle accise non debba aumentare la pressione fiscale complessiva sui cittadini, perciò il comma 10 stabilisce che l’aumento del gettito debba essere compensato da una diminuzione della pressione fiscale su altre linee di bilancio. Quindi l’Italia ha tradotto in legge i principi della Conferenza di Kyoto, ma il risultato è limitato a una riallocazione del carico fiscale, senza il finanziamento di strumenti politici per ulteriori tagli nelle emissioni di anidride carbonica.[16] Attualmente, il paese tassa i prodotti petroliferi quando sono utilizzati per produrre energia. Questo caso costituisce un’eccezione alla Direttiva sulla tassa sull’energia dell’UE, che prevede un drenaggio fiscale sulla produzione di elettricità.[17]

Un interessante caso tra le politiche nazionali è il British Climate Change Levy (CCL). Come dimostrato da McEldowney e Salter,[18] il CCL non arriva ad essere una carbon tax ed è, in effetti, una tassa sull’energia, ma non varia direttamente al variare del contenuto in carbonio dei carburanti. Tuttavia, in questi termini, ha dato un contributo al raggiungimento degli obiettivi di contenimento dei cambiamenti climatici del Regno Unito: sebbene le stime precise varino, si calcola che tra il 2001 e il 2010 siano stati risparmiati 12,8 milioni di tonnellate di anidride carbonica, che corrispondono ad una riduzione del 20% delle emissioni totali di anidride carbonica.[19] Questo esempio dimostra che una politica nazionale, anche se non è assicurato il coordinamento con altri paesi, può ottenere importanti risultati.
 

4.2 Il livello dell’Unione europea: il sistema di scambio delle emissioni.

Il sistema di scambio delle emissioni dell’Unione europea (ETS) è stato creato nel 2005 e interessa i paesi dell’area economica europea, cioè gli Stati membri dell’UE più Islanda, Liechtenstein e Norvegia. Copre circa il 45% delle emissioni di gas serra di quest’area. L’intera operazione è stata divisa in tre fasi. La fase 1 (2005-2007) ha coperto solamente le emissioni di CO2 da parte di centrali elettriche ed industrie ad alta intensità energetica, e sono state distribuite quote gratuite. Nella fase 2 (2008-2012) il tetto delle quote è stato abbassato: la proporzione di assegnazioni gratuite è leggermente calata al 90%; diversi paesi hanno tenuto aste; la penalità per inadempienza è stata aumentata. Nella fase 1, il volume degli scambi è aumentato da 321 milioni di quote del 2005 a 1,1 miliardi nel 2006 e a 2,1 miliardi nel 2007. Attualmente il programma è entrato nella fase 3, la cui caratteristica principale consiste nell’applicazione di un singolo tetto per tutta l’EU al posto del sistema precedente di singoli tetti nazionali; la messa all’asta è il metodo di default per l’assegnazione delle quote (al posto dell’assegnazione gratuita) e sono stati inclusi un maggior numero di settori e di gas. La fase 4 inizierà nel 2021 e durerà fino al 2030, termine ufficialmente previsto dalla Convenzione di Parigi. Per raggiungere l’obiettivo UE della diminuzione di almeno 40%, i settori coperti dal ETS devono ridurre le loro emissioni del 43% rispetto al 2005.

Il sistema di scambio delle emissioni presenta due limiti principali: copre solamente una parte delle emissioni e le entrate delle aste sono a disposizione solamente degli Stati membri, non dell’UE, per cui la massima parte dei crediti ottenuti è stata utilizzata per finanziare attività a livello nazionale. Le principali utilizzazioni delle entrate riguardano le energie rinnovabili (2,89 miliardi di euro, pari al 40,6% delle utilizzazioni totali), spese connesse all’efficienza energetica (1,95 miliardi di euro, pari al 27,4%) e il trasporto sostenibile (774 milioni di euro, pari al 10,9%).[20]
 

5. Conclusioni

Come abbiamo visto, i progetti attuali possono essere suddivisi in due categorie: politiche di carbon pricing e di cap-and-trade. La prima soluzione non prevede attori sovranazionali democratici, dal momento che si basa sulla cooperazione tra singoli Stati. Un “prezzo della CO2 armonizzato a livello internazionale e riscosso a livello nazionale”[21] è sostenibile. Il secondo richiede attori sovranazionali in grado di coordinare gli Stati e di creare uno schema comune: in tal modo non si rende indispensabile una responsabilità democratica.

Lo scopo di questo saggio era di analizzare il problema specifico delle emissioni di anidride carbonica e gli strumenti adottati dai governi per limitarle. Ma tutti i rapporti indicano che il successo di un intervento ambientale deriva da un insieme di proposte, che coinvolgono sia iniziative promosse dallo Stato, sia iniziative legate al mercato e abbracciano diversi tipi di intervento. Per realizzare efficacemente un insieme di queste politiche, i cittadini ed i governi hanno probabilmente bisogno di istituzioni sovranazionali, come ha dichiarato recentemente il Presidente francese Macron, che, in un discorso sulla finanza verde tenuto a Bruxelles il 28 marzo 2018, ha affermato che i cittadini europei hanno bisogno di un vero sistema di risorse proprie europee per essere in grado di sostenere una economia verde durevole; infatti, un bilancio autonomo assicurerebbe la capacità di fare importanti investimenti per infrastrutture e progetti nella transizione ecologica. Tale bilancio non deve essere incoerente con obiettivi ambientali o con altre politiche, ma deve contribuire con nuovi strumenti alla realizzazione della visione ecologica. Macron ha poi proposto l’istituzione di una tariffa esterna come strumento per finanziare una linea di bilancio europea a sostegno delle politiche ambientali.[22] Questa sorta di dumping verde è suggestiva, ma sembra mancare di realismo, in particolare perché la Germania, che ha specifici rapporti commerciali con paesi dipendenti dalla CO2, probabilmente vi si opporrebbe. In ogni caso, la proposta nel suo insieme si inquadra nell’idea macroniana di un’Europa sovrana, la cui realizzazione richiede un bilancio dell’eurozona dotato di risorse proprie e posto sotto controllo democratico. Anche se il dazio proposto divenisse operativo, questo bilancio si baserebbe su ipotetiche entrate europee di tipo diverso. Tuttavia, attualmente è l’unica posizione “sovranazionalista” tenuta da un capo di governo dell’Unione europea e perciò il suo successo è importante per coloro che auspicano la creazione di istituzioni democratiche al di sopra degli Stati nazionali.

Federico Bonomi


* Si tratta della relazione tenuta all’incontro Supranational Democracy Dialogue, svoltosi all’Università del Salento nell’aprile 2018.

[1] Paolo Bosi, Corso di Scienza delle Finanze, Bologna, Il Mulino, 7a ed., 2015.

[2] Ibidem.

[3] Adarsh Varma, Dan Newman, Duncan Kay, Gena Gibson, Jamie Beevor, Ian Skinner, and Peter Wells, Eect of regulations and standards on vehicle prices. Technical report, Didcot, AEA Technology plc., 2011.

[4] Steven G. Medema, Of Coase and Carbon: The Coase theorem in Environmental Economics, 1960-1979, Denver, University of Colorado 2011.

[5] Paolo Bosi, Corso di Scienza delle Finanze, op. cit..

[6] Allen V. Kneese, The Economics of Regional Water Quality Management, Baltimore, The Johns Hopkins Press and Resources for the Future, 1964.

[7] Ibidem.

[8] Jens Abildtrupa, Frank Jensenb, and Alex Dubgaardb, Does the Coase theorem hold in real markets? An application to the negotiations between waterworks and farmers in Denmark, Journal of Environmental Management, 93 (2012), p. 169.

[9] Arthur C. Pigou, The Economics of Welfare, London, Macmillan and Co., 1920.

[10] Dennis W. Carlton and Glenn C. Loury, The Limitations of Pigouvian Taxes as a Long-Run Remedy for Externalities, The Quarterly Journal of Economics, 95 (1980), n. 3, p. 559. Richard N. Cooper, Peter Cramton, Ottmar Edenhofer, Christian Gollier, ´Eloi Laurent, David JC MacKay, William Nordhaus, Axel Ockenfels, Joseph Stiglitz, Steven Stoft, Jean Tirole, and Martin L. Weitzman, Global Carbon Pricing. The Path to Climate Cooperation, Cambridge, Mass, The MIT Press, 2017.

[11] Paolo Bosi, Corso di Scienza delle Finanze, op. cit..

[12] Mai Farid, Michael Keen, Michael Papaioannou, Ian Parry, Catherine Pattillo, Anna Ter-Martirosyan, and other IMF Staff, After Paris: Fiscal, Macroeconomic, and Financial Implications of Climate Change, Staff Discussion Notes No. 16/01, International Monetary Fund, 2016.

[13] Questa espressione è stata coniata da G. Hardin nel 1968 (G. Hardin, The Tragedy of the Commons, Science, 162 (1968), p. 1243) per descrivere le situazioni in cui beni liberamente accessibili, di cui non sia chiaramente identificata la proprietà e il cui sfruttamento non sia regolamentato, sono inevitabilmente destinati ad esaurirsi in seguito allo sfruttamento da parte di individui unicamente tesi al proprio interesse (free-riders). La tragedia può essere evitata solo se la proprietà di tali beni viene chiaramente identificata e il suo uso viene regolamentato dal o dai proprietari.

[14] J.F. Nash, jr. ha dimostrato che in un gioco, in cui ciascun giocatore sceglie la propria strategia in modo da ottenere il massimo vantaggio, nessun giocatore ha interesse a cambiare la propria strategia a meno che non la cambi anche qualcun altro (razionalità strategica). Se ciascun attore presenta una strategia dominante, vale a dire la scelta che massimizzi la propria utilità tenendo conto delle strategie degli avversari, si verifica un equilibrio di Nash. Nel caso della tragedia dei beni comuni, l’equilibrio di Nash, dato dall’intersezione delle strategie dominanti degli attori, conduce a una soluzione non cooperativa, e pertanto sub-ottimale.

[15] Richard N. Cooper et al., Global Carbon Pricing. The Path to Climate Cooperation, op. cit..

[16] Legge 23 dicembre 1998, n. 448, Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo, Gazzetta Ufficiale, n. 302 del 29 dicembre 1998, supplemento ordinario n. 210/L.

[17] OECD, Taxing Energy Use 2018, Parigi, OECD Publishing, 2018.

[18] John McEldowney and David Salter, Environmental taxation in the UK: The Climate Change Levy and policy making, Denning Law Journal, 27 (2015), p. 37.

[19] Ibidem.

[20] Xavier Le Den, Edmund Beavor, Samy Porteron, and Adriana Ilisescu, Analysis of the use of Auction Revenues by the Member States, European Commission, 2017.

[21] Martin L. Weitzman, Can Negotiating a Uniform Carbon Price Help to Internalize the Global Warming Externality? Harvard Project on Climate Agreements, Journal of the Association of Environmental and Resource Economists, 1 (2014), p. 29.

[22] Emmanuel Macron, Discours du Président de la République à la conférence sur la finance verte, Bruxelles, marzo 2018.

 

 

 

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