Anno XL, 1998, Numero 3, Pagina 232
SOVRANI MA INTERDIPENDENTI: IL FUTURO DEL G7
Jean Monnet, nel 1974, redasse il memorandum sul «governo europeo provvisorio» per l’allora Presidente della Repubblica francese, Giscard d’Estaing: il documento, come noto, ha portato alla costituzione del Consiglio europeo dei Capi di Stato e di governo della CEE, istituzionalizzando così la prassi dei Vertici europei. Nello stesso anno, Giscard d’Estaing, in un’intervista ad un quotidiano, lanciò l’idea di incontri al vertice tra i Capi di Stato e di governo dei paesi più industrializzati dell’Occidente. La proposta venne discussa con i paesi interessati nel corso della conferenza di Helsinki del luglio 1975, quando 35 paesi si incontrarono per firmare il Trattato sulla sicurezza e la cooperazione in Europa. Nacque quindi il progetto che ha dato vita al cosiddetto G7 (ora G8, con l’ingresso della Russia) e che si è riunito, per la prima volta, nell’autunno del 1975 a Rambouillet.
Sovrani ma interdipendenti[1] è il libro che racconta le ragioni che sono all’origine di questo organismo e l’esperienza del suo primo decennio di funzionamento, dal 1975 al 1986. Richiamare, sia pure a grandi linee, lo sviluppo ed i problemi di cui è stato progressivamente investito, può fornire degli elementi per capire quale futuro può avere il G7 dopo l’introduzione dell’euro. L’istituzionalizzazione degli incontri al vertice, si sostiene nel libro, è stata incoraggiata da tre caratteristiche strutturali assunte dalle relazioni internazionali nel corso degli anni ’70.
La prima caratteristica è la crescente commistione tra politica estera e politica interna conseguente all’aumento dell’interdipendenza economica. Quest’ultima, nel corso dei trent’anni successivi alla fine del secondo conflitto mondiale, si è estesa e approfondita inizialmente attraverso lo sviluppo del commercio internazionale e poi con la crescita degli investimenti diretti esteri e della mobilità dei capitali. L’interdipendenza ha eroso, gradualmente ma inesorabilmente, le barriere tra economia interna ed economia internazionale e, quindi, tra politica interna e politica estera, condizionando la capacità dei singoli Stati di determinare e perseguire autonomamente i propri obiettivi macroeconomici. Di qui la necessità di concordare tra i paesi industrializzati occidentali le principali misure di politica economica, nel tentativo di controbilanciare la perdita di autonomia nazionale, provocata dalla crescente integrazione, con lo sviluppo di politiche comuni.
La seconda caratteristica che viene ricordata nel libro, è il venire meno dell’egemonia statunitense, che si è affermata dalla fine del secondo dopoguerra fino ai primi anni ’70, e che si è indebolita con la decisione dell’estate del 1971 di sospendere la convertibilità del dollaro in oro, evidenziando la crescente incapacità americana di assicurare un ordinato sviluppo delle relazioni economiche e monetarie mondiali. Il libro ricorda, a questo proposito, che le età dell’oro del libero scambio sono state contraddistinte da una qualche forma di governo dell’economia da parte di una potenza egemone che ne ha assicurato una evoluzione ordinata: questo è quanto è avvenuto con la Gran Bretagna alla fine del XIX secolo e con gli Stati Uniti a partire dalla fine della seconda guerra mondiale. Il testo, peraltro, fa presente come proprio l’assenza di una potenza egemone fra le due guerre mondiali, o di un governo mondiale, come suggerito da Kindleberger, sia alla base della depressione degli anni ’30[2]. Così, commentando la crisi economica dei primi anni ’70, con il collasso del sistema di Bretton Woods, il primo shock petrolifero e la conseguente più grave recessione del dopoguerra, gli autori del libro ricordano che essa poneva lo stesso problema istituzionale che si era posto negli anni ’30, in quanto la gestione degli affari economico-monetari mondiali non poteva più essere affrontata solo dagli Americani. In luogo della stabilità egemonica assicurata per un quarto di secolo dal predominio USA era maturata la necessità obiettiva di articolare un nuovo sistema — stavolta collettivo — di governo e controllo dell’economia mondiale. L’alternativa della gestione collettiva si contrapponeva ad un’altra via, più radicale, e «consistente nella creazione di nuove istituzioni sovranazionali dotate di un’autorità ed una sovranità effettive», una soluzione che, si affrettano ad aggiungere gli autori del libro, veniva scartata per la sua improponibilità politica[3].
Infine, per arrivare all’ultima caratteristica delle relazioni internazionali che ha portato alla nascita del G7, la proposta del Vertice era finalizzata a ridare alla politica il primato della gestione dei rapporti fra gli Stati, soprattutto in campo economico-monetario, ridimensionando il ruolo fino ad allora svolto esclusivamente dalle grandi burocrazie internazionali.
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Per quanto riguarda il funzionamento del G7, il libro prende in considerazione lo sviluppo delle sue «competenze». Il Vertice, nelle intenzioni originarie di Giscard d’Estaing, avrebbe dovuto occuparsi esclusivamente di questioni monetarie ed a questo tema venne dedicato il primo incontro. In quella sede si accettò come strutturale la transizione ad un sistema monetario internazionale basato sui cambi flessibili, ed in questo senso vennero di conseguenza orientati i lavori di riforma dello statuto del Fondo monetario internazionale. Ben presto divenne però evidente che gli incontri al vertice non potevano limitarsi alle discussioni sulla politica monetaria e, dato anche il momento particolare che in quel periodo attraversava l’economia mondiale, si avviò la discussione su come sostenere lo sviluppo economico. Nei primi anni di funzionamento del G7, che abbracciano la seconda metà degli anni ’70, si confermò la tesi, di ispirazione keynesiana, della cosiddetta politica delle. locomotive dell’economia mondiale, vale a dire l’idea secondo cui da tre paesi, Stati Uniti, Giappone e Germania, dipendeva la possibilità di avviare la ripresa attraverso il rilancio delle rispettive economie interne. I Vertici che si tennero in quel periodo furono perciò in buona parte dedicati a convincere i tre paesi interessati ad assumersi il compito di rilanciare la domanda interna. Il Vertice di Bonn (1978) sancì l’avvio di una serie di misure espansive in Europa, negli Stati Uniti ed in Giappone che però, secondo molti osservatori, determinarono una forte domanda di prodotti petroliferi ed un nuovo aumento dei prezzi del greggio, amplificando la portata dello shock petrolifero del 1979 e della successiva recessione indotta dalle misure di contenimento dei consumi energetici. Da questo punto di vista, il G7 di Bonn ha segnato la fine di un ciclo della politica mondiale, quello fondato su una politica di tipo keynesiano a livello mondiale, ed ha aperto la strada ad un nuovo ciclo politico mondiale, quello delle politiche liberiste di Reagan e Margareth Thatcher. L’esito di queste politiche, peraltro, come possiamo constatare oggi, è stata un’ancora più accentuata interdipendenza delle economie a livello mondiale, sia pure caratterizzata da maggiori squilibri economici.
Un commento a parte merita il contrasto fra Europei ed Americani sulla politica monetaria e di bilancio statunitense. I primi, nel corso dei Vertici che si susseguirono, sostennero posizioni altalenanti, come conseguenza della loro divisione e incapacità di concordare una comune politica economica con gli USA, finendo in definitiva con il subire l’orientamento americano. Infatti, dopo aver criticato la politica inflazionistica ed i bassi tassi di interesse ai tempi di Carter, gli Europei censurarono la politica degli alti tassi di interesse Usa e del dollaro forte (Ottawa 1981) e si aprì lo scontro (Versailles 1982) tra la linea americana del non intervento sul mercato dei cambi e quella interventista dei Francesi. Quest’ultima si spiega con il fatto che Mitterrand, appena giunto al governo, intese promuovere una politica di sviluppo dell’economia ed un vasto programma di nazionalizzazioni, senza tener conto dei vincoli che gli derivavano dalla partecipazione al Sistema monetario europeo creato qualche anno prima: il risultato fu il collasso monetario e valutario della Francia, seguito da una rapida inversione di rotta nella politica economica. I due eventi che si succedettero in quegli anni, vale a dire la seconda crisi petrolifera ed il fallimento della politica di Mitterrand, esemplificano molto bene il grado di integrazione raggiunto dai paesi più sviluppati e le implicazioni della globalizzazione dell’economia, così come la lungimiranza dell’idea di dar vita ad un organo di carattere politico che potesse governare questi fenomeni. Nello stesso tempo apparve evidente l’insufficienza di una risposta fondata sulla cooperazione intergovernativa che, al fine di raccogliere il consenso di tutti, consentiva solo l’adozione di misure minime e comunque condizionate dagli USA.
Dopo la fase keynesiana, come detto sopra, si è aperto dunque un nuovo ciclo politico mondiale ispirato alla progressiva riduzione dell’intervento pubblico nell’economia e basato su una crescente liberalizzazione degli scambi commerciali e dei capitali a livello mondiale, vale a dire, di fatto, sulla scelta di lasciare al solo mercato il compito di gestire la crescente interdipendenza economica. Quello che il libro non chiarisce è che la svolta liberista non è stata determinata dal fallimento di una politica keynesiana mondiale: quella che è fallita è stata in realtà la sommatoria di politiche keynesiane nazionali. Il risultato della svolta è stato comunque che i governi europei che si sono succeduti, di destra o di sinistra, hanno dovuto adottare provvedimenti simili e orientati ad un liberismo sempre più spinto come strumento di riequilibrio dei conti con l’estero e di difesa della competitività del proprio sistema industriale. In quel periodo Reagan, come prima misura del nuovo ciclo, inaugurò una politica degli alti tassi di interesse che sarebbe durata per tutto il suo primo mandato, in quanto la nuova amministrazione era impegnata nel finanziamento di una politica di forte riarmo degli Stati Uniti, volta a rafforzare la leadership americana sul mondo occidentale e la politica di confronto con l’Unione Sovietica. L’eredità che lascerà questo ciclo, almeno per quanto riguarda l’Europa che, in quegli anni e salvo brevi parentesi in quelli successivi, continuerà a seguire una politica più rigorosa di quella degli USA, sarà una forte disoccupazione.
Con il Vertice di Bonn (1978), per la prima volta sono entrati stabilmente nell’agenda degli incontri del G7 anche i problemi relativi alla politica commerciale. Attraverso pressioni americane sulle trattative GATT, si arriverà alla conclusione del Tokio Round e, successivamente (Williamsburg 1983, Londra 1984), all’apertura di un nuovo ciclo GATT (Uruguay Round), da cui deriverà una ulteriore liberalizzazione degli scambi commerciali e dei movimenti di capitale e la costituzione del WTO. Con l’avvio del nuovo ciclo GATT, si delinearono due posizioni contrapposte: quella che mirava alla liberalizzazione degli scambi di beni e servizi su scala mondiale, sostenuta da Reagan, e quella che metteva l’accento sulla stabilità monetaria attraverso la riforma del sistema monetario internazionale, difesa dalla Francia. Ovviamente, la posizione americana rifletteva l’interesse degli Stati Uniti a far valere la forza della dimensione continentale del proprio apparato industriale e del proprio mercato dei capitali, entrambi agevolati dal fatto di poter contare su una moneta utilizzata come strumento di riserva. La posizione francese era dettata invece dalla preoccupazione di mettere sotto controllo il dollaro americano, le cui oscillazioni potevano annullare (a solo favore degli Americani) qualunque positivo risultato sulla via della liberalizzazione degli scambi. L’esito del confronto portò ad un maggior controllo sulle oscillazioni dei tassi di cambio, ma non all’obiettivo sperato dai Francesi, anche se nel frattempo l’Europa, con l’entrata in vigore dello SME, tentò di difendere il proprio mercato dalle fluttuazioni del dollaro.
Gli altri due importanti argomenti di rilevanza mondiale che sono entrati stabilmente nell’agenda del G7 sono quelli della politica estera e di sicurezza (Ottawa 1981 e Versailles 1982) e dei rapporti Nord-Sud. A Ottawa e Versailles, Reagan sostenne la necessità di una politica di irrigidimento nei rapporti commerciali con l’Unione Sovietica, scontrandosi con la linea moderata europea, sostenuta in particolare dalla Germania. Se nel corso del successivo Vertice di Williamsburg del 1983 si riuscì ad elaborare una dichiarazione politica congiunta favorevole all’installazione degli euro-missili, in seguito, sempre sul tema della politica di sicurezza, i rapporti tra Stati Uniti ed Europa si fecero più difficili, soprattutto a partire da quando Reagan lanciò il progetto SDI (Bonn 1985). Infatti, Germania e Gran Bretagna si dichiararono disponibili a partecipare al progetto, ma la Francia si dissociò apertamente. Con riferimento, invece, ai rapporti tra Nord industrializzato e Sud sottosviluppato, gli Americani assunsero un atteggiamento più prudente, fino a introdurre un cambiamento nella loro politica monetaria, in direzione di bassi tassi di interesse, soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni ’80. Questo mutamento nella politica economica venne determinato non solo dalla preoccupazione che, con una rivalutazione del dollaro favorita dagli alti tassi di interesse, si mettessero in moto tendenze protezionistiche da parte dell’industria americana, ma anche dal fatto che gli alti tassi di interesse stavano mettendo in difficoltà i paesi in via di sviluppo più indebitati, ed in particolare i paesi dell’America latina (Williamsburg 1983 e Londra 1984). Politica economica, politica commerciale, politica estera e di sicurezza, ovviamente, non esauriscono l’elenco dei problemi di cui, con il passare degli anni, è stato investito il G7. Col tempo, altri se ne sono aggiunti e riguardano la politica energetica, il terrorismo internazionale, l’inquinamento, la disoccupazione, ecc. Su questi specifici argomenti si tengono riunioni dei Consigli dei Ministri di volta in volta interessati, quasi a conferma del fatto che il G7 è una sorta di Consiglio mondiale dei Capi di Stato e di governo dei paesi più industrializzati, da cui promanano riunioni dei Consigli dei Ministri sul modello di quelle dell’Unione europea.
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A commento conclusivo del contenuto del libro si possono fare alcune osservazioni sul ruolo dell’Europa nelle riunioni del Vertice ed alcune considerazioni sulle prospettive che si possono ipotizzare circa il futuro di questo organismo, tenuto conto che il testo prevede un G7 che resta tale nella composizione e che dovrebbe continuare a configurarsi come una istituzione informale.
Il primo incontro cui ha partecipato la Commissione europea è stato quello tenutosi a Londra nel 1977, ma non ancora a pieno titolo, in quanto la presenza della Comunità europea si formalizzò solo con il Vertice del 1981, senza che a ciò abbia poi mai corrisposto il riconoscimento effettivo di un suo ruolo autonomo[4]. Inoltre, diversamente da quanto sostenuto dagli autori del libro, alla data della nascita del G7 la «stabilità egemonica» assicurata dagli Americani si era sì indebolita, ma non poteva ancora dirsi una condizione superata. Tant’è che, a partire dagli anni ’70, il ruolo del dollaro come moneta di riserva, ancorché inconvertibile, paradossalmente si è rafforzato in quanto sostenuto appunto dall’egemonia degli Stati Uniti sulla parte occidentale del mondo. Ed il persistere di questo ruolo americano, agevolato dalla caduta del Muro di Berlino e dal crollo dell’Unione Sovietica, ha contribuito ad oscurare per circa due decenni il fatto che l’inconvertibilità del dollaro in oro poneva, per la prima volta nella storia delle relazioni monetarie, un problema nuovo: quello di un sistema monetario internazionale fondato su una valuta fiduciaria. La portata di questa innovazione, per il futuro del sistema monetario internazionale, si apprezzerà solo a partire dall’utilizzo dell’euro, che verosimilmente sarà un’ulteriore moneta di riserva fiduciaria, fatto che richiederà necessariamente la definizione di accordi che stabilizzino i rapporti di cambio tra euro e dollaro sul modello dello SME. Il G7 è dunque di fronte ad una svolta, in quanto con la nascita dell’euro non viene messa in discussione solo la presenza dei singoli paesi europei, ma anche il futuro di questo organismo, il quale o diventa veramente un’istanza per la gestione dell’economia mondiale, oppure è fatalmente destinato ad un inesorabile declino. Il problema è quello di vedere, dal punto di vista dei federalisti, quale potrebbe essere uno sviluppo del G7 che consenta di farlo evolvere verso una forma istituzionale più efficace, tendenzialmente più stabile e, soprattutto, più democratica.
Gli sviluppi prevedibili, e tra loro complementari, sembrano essere tre. Innanzitutto, come ha recentemente fatto notare il ministro francese dell’economia e delle finanze, Dominique Strauss-Kahn, è necessario che all’interno del G7 venga rappresentata l’Unione europea in quanto tale e non i suoi singoli membri[5]. Ovviamente una presenza europea che abbia senso, e cioè abbia una influenza effettiva sul funzionamento del G7, presuppone l’esistenza di un’Europa capace di decidere e di agire e pertanto l’attribuzione di poteri di governo all’attuale Commissione europea. Il G7 dovrebbe quindi diventare G4 (una volta che la Gran Bretagna fosse entrata a far parte della moneta unica). Poiché il G7 è nato per discutere delle relazioni monetarie tra Stati Uniti, Europa e Giappone, il tema dei rapporti tra euro, dollaro e yen è sicuramente destinato a dominare le future riunioni del Vertice, e su questo punto si dovrà esprimere l’Unione europea in quanto tale, soprattutto quando si parlerà di tassi di cambio. Ma anche quando si parlerà di tassi di interesse, una competenza che il Trattato di Maastricht riserva al Sistema europeo di Banche centrali, tenuto conto dell’integrazione del mercato dei capitali, per assecondare la crescente integrazione del mercato mondiale si dovrà promuovere una accentuata armonia degli indirizzi di politica monetaria da parte delle due sponde dell’Atlantico. L’altro punto su cui l’Europa dovrà esprimersi con una sola voce sarà la politica di bilancio, normalmente utilizzata come leva per il rilancio della domanda e che ha un effetto di traino anche dell’economia mondiale. Occorre infatti notare che le principali aree presenti nel G7, vale a dire gli Stati Uniti e l’Unione europea, sono impegnate in una severa politica di bilancio: l’Unione europea per rispettare i parametri di Maastricht anche dopo il varo dell’euro e gli Stati Uniti per rispettare una legge approvata dal Congresso[6]. Se questa situazione persiste, avrebbe come esito un irrigidimento nell’utilizzo delle politiche di bilancio come volano dell’economia mondiale e il conseguente rischio di una stagnazione della domanda a livello mondiale, soprattutto se altri paesi decidessero di seguire la stessa strada. Il compito di promuovere lo sviluppo delle economie più arretrate sarebbe così affidato all’esclusivo gioco delle forze del mercato, come è avvenuto nel corso dell’ultimo decennio, ma con le conseguenze negative che, come dimostra la crisi delle economie del Sud-Est asiatico, sono sotto gli occhi di tutti e con crescenti squilibri nella distribuzione dei redditi, anche all’interno degli stessi paesi industrializzati. Questi sono pericoli che ogni anno vengono denunciati dall’ONU con il suo Rapporto sullo sviluppo umano e che richiedono un maggior governo dell’economia mondiale e non un minor intervento dei poteri pubblici. In ogni caso, se oggi il G7 volesse ricorrere a manovre di bilancio per sostenere l’economia mondiale, così come si è fatto in passato, non è ormai più pensabile che la sola Germania se ne assuma l’onere: la decisione dovrà essere presa dall’Unione europea.
Il secondo sviluppo prevedibile è l’allargamento di questo organismo. Già l’estensione alla Russia ha rappresentato il superamento del limite di un Vertice in cui erano presenti solo le potenze occidentali e che ne faceva un’altra istituzione contrapposta al blocco sovietico. Nel prossimo futuro occorrerà allargarlo ulteriormente ad altre realtà economico-industriali, anche in rappresentanza delle istanze dei paesi meno sviluppati. In questo senso si sono già espressi il presidente francese Chirac e Zbigniew Brzezinski[7], che recentemente hanno proposto di estenderlo alla Cina popolare.
L’ultimo sviluppo ipotizzabile è legato ai precedenti, cioè alle implicazioni che comporta la presenza dell’Unione europea in quanto tale ed eventualmente di altre aree del mondo. Infatti, quello che è certo è che il G7, fino ad oggi, è sopravvissuto perché, nel bene o nel male, all’interno di questo organismo gli Stati Uniti hanno svolto un ruolo egemone e ciò gli ha consentito di assumere orientamenti comuni — ancorché fondati su obiettivi minimi — sulla maggior parte dei problemi di cui si è occupato. La presenza dell’Unione europea che, con l’euro, avrebbe un peso pari a quello degli USA, dovrebbe rafforzarne il ruolo, ma potrebbe anche portare a forti tensioni all’interno di questa istituzione, che potrebbero condurla alla paralisi. Lo sviluppo che consoliderebbe questo organismo potrebbe essere individuato nella proposta avanzata qualche tempo fa da Jacques Delors. L’ex-Presidente della Commissione europea, in risposta alla dimensione planetaria assunta dai problemi dell’economia, della popolazione, della finanza, dell’ambiente, ecc., ha infatti avanzato l’idea di affiancare all’attuale Consiglio di sicurezza dell’ONU un Consiglio di sicurezza economica[8]. Questo nuovo Consiglio in realtà esiste già ed è appunto il G7, che potrebbe pertanto essere trasformato nell’organismo proposto da Delors e inserito nel quadro delle istituzioni dell’ONU. Questa soluzione, rispetto ai problemi che il G7 deve affrontare, non è evidentemente soddisfacente, in quanto non supera i limiti di funzionamento di questa istituzione legati al fatto che essa si fonda sulla cooperazione intergovernativa e non mette quindi in discussione la sovranità esclusiva dei paesi partecipanti. Tuttavia, questa svolta sarebbe comunque un passo avanti in quanto rafforzerebbe il G7, dandogli una veste istituzionale definita. Valga per tutti l’esempio degli aspetti positivi di quella che in Europa è stata la «comunitarizzazione» dei Vertici europei dei Capi di Stato e di governo, trasformatisi nell’attuale Consiglio europeo, un organo dal quale sono state assunte iniziative che hanno progressivamente consolidato la Comunità europea e che hanno fornito ai federalisti un quadro d’azione sempre più avanzato.
In conclusione, questi sviluppi avrebbero il vantaggio di rendere ben visibile all’opinione pubblica mondiale, molto più di quanto non lo sia attualmente, che la globalizzazione ha provocato la nascita di una sorta di governo mondiale dell’economia il cui limite, che potrà però essere superato dall’iniziativa federalista, è quello dell’assenza di qualunque legittimità democratica.
Domenico Moro
[1] R. D. Putnam, N. Bayne, Sovrani ma interdipendenti (I Vertici dei sette principali paesi industrializzati), Bologna, Il Mulino, 1987.
[2] C. P. Kindleberger, The World in Depression. 1929-1939, Londra, Allen Lane The Penguin Press, 1973, p. 308 (trad. it. La grande depressione nel mondo. 1929-1939, Milano, Etas Libri, 1982).
[3] R. D. Putnam, N. Bayne, op. cit., p. 25.
[4] Reagan, ad esempio, ha sempre fortemente contestato la presenza della Commissione europea, in quanto non era un vero governo.
[5] D. Vernet, «Europe-États-Unis, nouvelle donne?», in Le Monde, 5-6 luglio 1998.
[6] F. Spoltore, «Federalismo, deficit e nuovo ordine mondiale», in Il Federalista, XXXIX (1997), pp. 75 e segg.
[7] Z. Brzezinski, La grande scacchiera, Milano, 1998, p. 273.
[8] J. Delors, L’unité d’un homme, Parigi, Editions Odile Jacobs, 1994. Nel libro, Delors, a proposito del Consiglio di sicurezza economica, sostiene quanto segue: «Questo Consiglio di sicurezza economica comprenderà cinque membri permanenti (Stati Uniti, Russia, Unione europea, Cina, Giappone) e un rappresentante di ciascuna grande area geografica (America centrale e del Sud, Africa, Asia, Medio-Oriente... ). Il Consiglio si riunirà una volta all’anno a livello dei Capi di Stati e di governo e a livello dei ministri responsabili nell’intervallo. Esso cercherà, a poco a poco, di delineare una visione globale dei grandi parametri dell’evoluzione del mondo (economia, moneta, finanze, problemi sociali, ambiente, popolazione, ecc.). A partire da ciò, gradualmente si formerà una coscienza reale dei rapporti fra questi problemi. Questa istituzione avrà inoltre il merito di abbracciare il mondo intero e dunque non apparirà come un chiuso club di ricchi. Certo potrebbero sorgere problemi di suscettibilità, ma la cosa importante è la creazione di un forum che diventi l’embrione, non tanto di un governo mondiale, ma di una istituzione capace di avere una visione più acuta ed esauriente dei problemi mondiali. Alle sue riunioni dovranno partecipare anche i rappresentanti delle grandi organizzazioni internazionali, quali il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale, la nuova Organizzazione mondiale per il commercio, l’Ufficio internazionale del lavoro, l’UNESCO, ecc.» (p. 185).