Anno XXXIX, 1997, Numero 2, Pagina 75
FEDERALISMO, DEFICIT E NUOVO ORDINE MONDIALE
L’accordo bipartisan raggiunto negli USA dai democratici e dai repubblicani per riportare in pareggio il bilancio federale entro il 2002 — balanced-budget agreement — ha un significato che va al di là dell’orizzonte politico americano. Da un lato esso si inquadra nel più ampio dibattito sugli equilibri di potere in una federazione, che affonda le radici nella Convenzione di Filadelfia e nella successiva battaglia per la ratifica della nuova Costituzione. Dall’altro lato esso non è spiegabile al di fuori di una analisi dell’evoluzione dell’ordine mondiale all’indomani della fine della guerra fredda e nella prospettiva della creazione della moneta unica europea entro il 1999.
L’accordo rispecchia la consapevolezza, ormai condivisa da entrambi i grandi partiti americani, della necessità del risanamento finanziario ed ha fatto seguito ad un acceso dibattito sull’opportunità o meno di emendare la Costituzione. A prima vista non sembrerebbe un fatto nuovo: è dal 1936 che questo tema viene sollevato in ogni legislatura e non è la prima volta che viene annunciato un accordo bipartisan sul contenimento del bilancio federale. Ma è soprattutto negli ultimi tre anni che il Congresso ed il Senato hanno ripetutamente discusso il problema. Dal 1994 si è giunti per tre volte ad un voto su altrettante proposte di emendamento costituzionale per limitare i poteri federali in campo fiscale e di bilancio. Come in passato, il vincolo costituzionale dell’approvazione di almeno i due terzi dei membri del Congresso e del Senato per avviare il complesso procedimento di revisione della costituzione ha bloccato gli emendamenti. Ma in questa circostanza l’accordo che ne è seguito ha cercato di coniugare le esigenze del risanamento con un ambizioso «Piano Marshall» interno.
Vediamo brevemente come si è giunti a questo risultato prendendo spunto dai rapporti di maggioranza e di minoranza presentati dal Committee on the Judiciary del Senato,[1] che aveva esaminato e dato un primo parere favorevole al balanced-budget constitutional amendment.
I senatori favorevoli a emendare la Costituzione, che hanno proposto di fissare a tre quinti la maggioranza necessaria per approvare annualmente il deficit di bilancio solo in caso di emergenze particolari o di guerra imminente, hanno motivato la proposta rifacendosi alle osservazioni fatte a suo tempo dai Padri fondatori della Federazione (in particolare da Hamilton, Jefferson e Madison) sui poteri e sulla responsabilità morale del Congresso. Il rapporto di maggioranza è partito dalla constatazione che la spesa federale è ormai fuori controllo e nessun accordo bipartisan è riuscito finora a cambiare la situazione. In effetti le spese federali rappresentano ormai una percentuale elevata del Pil statunitense (il 23% nel 1993 contro il 3% nel 1929) e le spese annuali per pagare gli interessi sul debito hanno raggiunto quelle militari, mentre la percentuale dei creditori esteri sta aumentando. I senatori contrari hanno ribattuto, riferendosi anch’essi agli autori del Federalist, che un simile emendamento avrebbe stravolto gli equilibri della Federazione e, in particolare, avrebbe dato un potere eccessivo alle Corti, alle quali sarebbe stato de facto attribuito il potere di stabilire annualmente la correttezza costituzionale delle proposte di bilancio, della valutazione delle situazioni di emergenza, delle spese e degli investimenti proposti. In questo modo, hanno obiettato i senatori di minoranza, sarebbe venuto meno il principio stesso per cui è stata combattuta la guerra di indipendenza, cioè quello di mantenere il potere di tassazione ancorato alla rappresentanza popolare. L’approvazione di un simile emendamento, hanno insistito i relatori di minoranza Leahy, Kennedy e Feingold, avrebbe inoltre minato l’influenza internazionale degli Stati Uniti, in quanto avrebbe indebolito l’efficacia e la credibilità della politica estera e di sicurezza statunitense. A questo proposito è stato ricordato che, se fosse stato in vigore l’emendamento proposto, il presidente Jefferson non avrebbe potuto acquistare la Louisiana agli inizi del secolo scorso, per promuovere un allargamento pacifico dell’Unione, e per prevenire la formazione di Stati potenzialmente avversari ai suoi confini occidentali. A proposito della facilità, evocata dai relatori di maggioranza per aggirare la clausola del deficit in caso di emergenza, di costituire ampie maggioranze sufficienti a mettere in grado l’Unione di rispondere tempestivamente alle sfide interne ed esterne, il rapporto di minoranza ha ricordato che questa tesi non è suffragata dall’esperienza storica. Infatti il Congresso ed il Senato avevano deciso solo a strettissima maggioranza di prorogare la ferma militare alla vigilia della seconda guerra mondiale. Con una maggioranza risicata il Congresso aveva deciso la guerra contro la Gran Bretagna nel 1812 e, dopo la guerra civile, l’imposizione di una tassa, osteggiata dagli Stati del Nord, per finanziare gli aiuti agli Stati del Sud.
Per completare il quadro del dibattito, vale la pena di ricordare un altro contributo allegato ai rapporti, quello del senatore Torricelli, il quale, pur dichiarandosi a favore dell’emendamento, soprattutto per contribuire a suscitare un più ampio dibattito nel paese, ha messo l’accento sulla necessità di affrontare il problema di definire sul piano costituzionale e legislativo i criteri che consentono di distinguere fra investimenti a lungo termine dello Stato e spesa corrente.[2]
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Come si può constatare, il dibattito in America sul problema del risanamento finanziario è diventato un dibattito sui principi costituzionali federali e sulla loro adeguatezza di fronte alle sfide poste dalla globalizzazione dell’economia e dalla transizione verso un nuovo ordine mondiale.
Queste sfide non erano ancora presenti nell’orizzonte politico e storico dei Padri fondatori della Federazione americana, i quali avevano come obiettivo primario quello di proteggere il nascente potere federale continentale dalle rivendicazioni degli Stati membri e di renderlo sufficientemente indipendente e forte. Questo tipo di preoccupazione emerge per esempio anche dalle osservazioni di Hamilton a proposito della necessità di attribuire al livello federale un potere di tassazione illimitato (The Federalist N. 30) per far fronte, in modo indipendente dagli Stati membri della Federazione, alle esigenze che nel tempo si sarebbero manifestate. E, sulla questione più generale dei limiti dell’indebitamento dello Stato si potrebbe ricordare il passo del Federalist, sempre di Hamilton, in cui si spiega come «le voci eventualmente scoperte potranno essere soddisfatte da prestiti. La possibilità di costituire dei nuovi fondi con nuovi tributi imposti di propria autorità consentirebbe al governo nazionale di ricorrere a prestiti, per qualunque somma di cui esso potesse aver bisogno… Gli stranieri, come i cittadini americani, potrebbero ragionevolmente fidarsi di questi impegni».
Le osservazioni di Hamilton e il recente dibattito svoltosi negli USA sul terreno del risanamento finanziario offrono lo spunto per riflettere brevemente su tre ordini di problemi più generali: A) i vantaggi ed i limiti della costituzione americana; B) le opportunità ed i rischi connessi alla fine della guerra fredda e alla globalizzazione; C) la risposta americana alla sfida europea.
A — Il federalismo ha consentito agli Stati Uniti d’America di reperire le risorse necessarie per affrontare con successo, e comunque più efficacemente degli Stati nazionali europei e dei grandi Stati continentali come l’URSS, le sfide poste dall’evoluzione del modo di produrre e degli equilibri mondiali nel corso degli ultimi due secoli di storia. Ma anche sul piano interno, come aveva osservato Tocqueville,[3] il federalismo ha fatto sì che l’America diventasse «il solo paese nel quale si sia potuto assistere allo svolgimento naturale e tranquillo di una società», sottraendola al potere assoluto.
Tuttavia, con il progressivo inserimento dell’America nel sistema mondiale degli Stati, è stato necessario adattare i principi federali della Costituzione alle esigenze della ragion di Stato. Si sono così progressivamente esauriti i margini di una riforma autonoma dall’interno della Costituzione degli USA, come precedentemente si erano esauriti i margini di autonomia della politica interna dei singoli Stati nazionali europei rispetto alle esigenze della politica internazionale. Si tratta pertanto di constatare, in America come in Europa, che in entrambi i continenti nessuno Stato può ragionevolmente perseguire in modo autonomo l’elaborazione e l’adozione di una Costituzione perfetta. Per avanzare su questo terreno Europei ed Americani si trovano ormai nella condizione di dover sciogliere il nodo messo in evidenza da Kant nella Tesi settima dell’Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico: «Il problema di instaurare una costituzione civile perfetta dipende dal problema di creare un rapporto esterno tra gli Stati regolato da leggi, e non si può risolvere il primo senza risolvere il secondo». Alla luce di questa difficoltà si può forse meglio cogliere la contraddizione, emersa anche nel corso del dibattito sull’emendamento costituzionale per limitare il debito, fra l’aspirazione ad introdurre dei vincoli costituzionali per rendere più virtuose le politiche dello Stato e la necessità di lasciare aperta la possibilità di abrogarle — evocando la prospettiva della guerra imminente — per consentire allo Stato di garantire la propria sopravvivenza in un mondo di Stati sovrani ed indipendenti. Il superamento di questa contraddizione va dunque al di là della buona o cattiva volontà dei legislatori americani, ma dipende innanzitutto dalla verifica dell’esistenza o meno delle condizioni storiche indispensabili per avviare una lotta politica che si ponga l’obiettivo di affermare un ordine mondiale compatibile con la condizione indicata da Kant.
B — La fine della guerra fredda e il processo di globalizzazione hanno posto le premesse per affrontare questo problema. Infatti, in un’epoca in cui la globalizzazione dell’economia e la fine dei blocchi militari costringono ciascuno Stato a competere sui mercati internazionali per attrarre verso di sé investimenti e capitali, non è più possibile conquistarsi la fiducia degli investitori, a cui faceva riferimento Hamilton, senza offrire in cambio delle garanzie sulla solidità di ciascuna economia nazionale. Inoltre, venuta meno la rete protettiva dei poteri di riferimento dell’equilibrio bipolare, gli Stati devono dimostrare di meritare individualmente la fiducia dei mercati perseguendo delle politiche di bilancio ed economiche virtuose. L’interesse degli Stati a perseguire delle sane politiche di bilancio coincide dunque sempre più con la necessità di perseguirle, pena l’emarginazione dall’economia mondiale.
Il Trattato di Maastricht in Europa, e il dibattito che si è sviluppato in America sono la conseguenza di questa situazione. Tuttavia l’Europa, trovandosi ancora senza una costituzione e senza un governo, ha finora sviluppato questo dibattito sul terreno intergovernativo e non su quello della normale dialettica fra forze politiche e sociali e governo. Da parte loro gli USA cercano di conciliare la politica di risanamento finanziario interno con il mantenimento dello status di unica superpotenza globale sopravvissuta alla fine della guerra fredda.
C — Ma perché, nonostante l’attuale superiorità americana, gli USA si stanno prefiggendo obiettivi che vanno al di là degli stessi criteri di Maastricht? E ancora, perché gli USA, con un tasso di disoccupazione al di sotto del 5% per la prima volta dopo il 1973, un rapporto dell’1% fra il disavanzo pubblico e il prodotto interno lordo, ben al di sotto quindi del parametro di Maastricht, con una previsione di aumento delle entrate fiscali per il buon andamento dell’economia, si orientano verso un ulteriore sforzo di risanamento finanziario che dovrebbe riportarli al pareggio entro il 2002? A queste domanda il Presidente Clinton ha risposto agli Americani: «Per prepararci al futuro». L’attuale vantaggio americano non è dunque considerato tale da mettere gli USA al riparo da ogni pericolo e l’incertezza sul futuro dell’ordine mondiale costringe gli USA a condurre una politica estera capace di adattarsi il più possibile ad ogni evoluzione dei rapporti internazionali.
L’accordo bipartisan che ha fatto seguito alla bocciatura da parte del Congresso e del Senato degli emendamenti sul balanced-budget e sulle tax limitations è stato possibile, come ha ammesso il gruppo di consiglieri di Clinton che ha lavorato su questo progetto, sulla base della condivisione da parte dei leaders del partito democratico e repubblicano della comune preoccupazione sul futuro della politica di sicurezza e della politica estera americana.
Il futuro dell’Europa, per la quale gli Americani hanno combattuto tre guerre in questo secolo — la guerra fredda ha infatti avuto dei costi non inferiori a quelli sostenuti nelle due precedenti guerre mondiali continua ad occupare un posto di primo piano in queste preoccupazioni. Nella prospettiva, che viene ormai considerata irreversibile dall’amministrazione USA, della nascita di un polo monetario europeo, l’economia americana non potrà infatti più contare né su di un incontrastato potere del dollaro nel commercio internazionale — la Commissione europea prevede che almeno un terzo del commercio internazionale verrà effettuato in Euro dopo il 1° gennaio 1999 —, né tantomeno sul mantenimento di un consistente afflusso di risorse finanziarie verso l’America. Gli USA si devono quindi preparare ad una maggiore competizione o cooperazione in campo finanziario a livello globale. E il grado di asprezza della competizione o di intensità nella cooperazione dipenderanno presumibilmente dall’evoluzione dagli equilibri che si affermeranno in Europa. Tutto ciò è sufficiente per spiegare la determinazione con la quale gli USA stanno conducendo una politica di unità nazionale sul terreno della politica di bilancio.
La svolta annunciata nella politica di bilancio americana è di enorme portata se si pensa che fino alla fine degli anni Ottanta la tendenza è stata quella di fare affidamento sul finanziamento in disavanzo delle spese federali per sostenere i crescenti costi della difesa e dei programmi sociali, piuttosto che su ulteriori tasse. Nella prima metà degli anni Ottanta il deficit era quadruplicato in cinque anni e il debito raddoppiato. E’ la fine della guerra fredda che ha reso possibile l’inversione di questo trend. Il fatto che tutto ciò avvenga, per il momento, senza intaccare la posizione di leadership degli USA nel mondo, offre all’Amministrazione Clinton un’opportunità unica per inaugurare una politica di unità nazionale altrimenti impossibile. Infatti, i recenti accordi russo-americani sulla riduzione degli arsenali nucleari, che non indeboliscono la supremazia russo-americana su questo terreno, e la decisione di allargare la NATO, che consente agli USA di mantenere un ruolo di leadership nell’Alleanza con la prospettiva di ripartire maggiormente gli oneri finanziari, hanno reso possibile l’accordo sul bilancio e il varo di un piano di sviluppo senza precedenti. E’ grazie a questo quadro distensivo che quasi un terzo sul totale dei tagli da effettuare entro il 2002 potrà essere effettuato sul bilancio del Pentagono, per un ammontare paragonabile agli investimenti effettuati in Europa con il Piano Marshall nei cinque anni a cavallo tra gli anni Quaranta e Cinquanta.
Ma se la fine della guerra fredda ha reso possibile il risanamento dell’economia americana, la prospettiva della nascita del polo monetario europeo ne ha accelerato il varo.
Raccogliendo la sfida europea, gli USA hanno annunciato di voler andare oltre gli impegni assunti dagli Europei con il Trattato di Maastricht. Il punto di partenza del piano americano per lo sviluppo è lo stesso del piano europeo di Delors: l’adeguamento della società alla nuova fase dello sviluppo della rivoluzione scientifica e tecnologica, a partire dall’educazione.[4] Ma il parallelo si ferma qui. Il piano presentato da Clinton è infatti un piano di governo appoggiato da un accordo politico di unità nazionale. I piani europei sono degli accordi intergovernativi sui quali continuamente si deve ricercare l’approvazione dei singoli governi nazionali.
Gli USA non possono tuttavia sottovalutare il fatto che, in questa fase, essi possono conciliare il rafforzamento delle loro politiche di Welfare (che peraltro sono al di sotto dei livelli di protezione sociale garantiti in Europa), con il pareggio del bilancio, sfruttando i peace dividends della fine della guerra fredda.
Per gli USA è quindi di vitale importanza mantenere un quadro mondiale stabile e sicuro, al di fuori del quale non sarà certamente possibile portare a compimento il piano annunciato. L’allargamento della NATO, il rilancio delle relazioni transatlantiche fra USA e Unione europea, il rafforzamento del NAFTA nel Nord-America e la proposta di un Hemisferic Free Trade Area con l’America latina testimoniano di una politica estera USA tesa a consolidare questo momento favorevole all’America estendendo la propria area di influenza economico-militare.
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Come hanno mostrato il vertice di Denver del G7, quello di New York sull’ambiente e quello di Madrid sulla NATO, la politica di rafforzamento della leadership americana non può essere a lungo tollerata e subita dagli altri Stati. Si tratta di una politica che può dunque cogliere dei successi limitati nel breve periodo, ma non nel medio e lungo periodo, quando inevitabilmente si manifesterà l’impossibilità per gli USA di garantire una pax americana mondiale. Se in quel momento non dovesse essere ancora maturata sulla scena mondiale un’alternativa alla via seguita dagli USA, il mondo rischierebbe di essere inghiottito per un tempo indefinito in una pericolosa fase di disordine ed instabilità internazionali. In una simile situazione i problemi del risanamento e del rilancio dei piani di sviluppo su entrambe le sponde dell’Atlantico cederebbero inevitabilmente il passo alle politiche del giorno per giorno tese a garantire le istituzioni essenziali per la sopravvivenza degli Stati.
Una alternativa difficilmente potrà maturare a partire dagli USA. E’ vero che per due volte in questo secolo, all’indomani della prima e della seconda guerra mondiale, i Presidenti Wilson prima e Roosevelt poi, posero le basi per la riorganizzazione dell’ordine internazionale a partire da istituzioni mondiali che si proponevano di rafforzare la cooperazione fra gli Stati, ma non è stata messa in discussione la sovranità degli Stati. Il problema di fronte al quale ci troviamo invece oggi consiste proprio nell’andare al di là della cooperazione e della sovranità nazionale. Un impulso in questa direzione altrettanto difficilmente potrà venire dalla Russia, alle prese con un difficile processo di trasformazione economica e politica che privilegia gli obiettivi interni rispetto a quelli internazionali, o dalle potenze emergenti cinese ed indiana, non ancora pienamente inserite nel processo di globalizzazione dell’economia e del commercio.
L’alternativa al disordine mondiale va dunque costruita a partire dall’Europa e dal modello di Stato internazionale che gli Europei sapranno proporre.
Quando si manifesteranno i limiti della politica americana nel tentativo di garantire la sicurezza e la stabilità in alcune regioni chiave del mondo o di affrontare con qualche probabilità di successo alcuni gravi problemi globali, a che punto sarà giunto il processo di trasformazione dell’Unione europea in uno Stato federale capace d’agire? Dalla risposta che gli Europei daranno a questa domanda dipende probabilmente non solo il futuro del dibattito sui rapporti fra federalismo, risanamento finanziario e piani di sviluppo, ma anche il futuro dell’ordine mondiale.
Franco Spoltore
[1] The Balanced-Budget Constitutional Amendment, Report from the Committee on the Judiciary, together with Additional and Minority Views, Filed under the authority of the order of the Senate of January 30, 1997, 105th Congress.
[2] Questo problema, lungi dall’essere una questione meramente tecnica, si è posto anche nel Trattato di Maastricht, che però ha rinviato ad un protocollo esplicativo — quello sui criteri di convergenza — il problema di tenere conto della differenza fra disavanzo pubblico e spesa pubblica per investimenti (art. 104C).
[3] Alexis de Tocqueville, La Démocratie en Amérique, I, parte prima, capitolo secondo, consultata nell’Antologia di scritti politici a cura di V. de Capraris e N. Matteucci, Bologna, Il Mulino, 1978, pp. 53 e 63.
[4] L’accordo bipartisan si propone di rilanciare la politica dell’educazione. Si vogliono diffondere ed elevare gli standards educativi: si tratta del maggiore investimento nell’educazione effettuato negli USA negli ultimi trent’anni. Nel complesso, fra sostegni diretti e deduzioni fiscali, i trasferimenti nel settore dell’educazione nei prossimi cinque anni saranno pari ai tagli previsti per la difesa. Sul fronte dell’assistenza sanitaria vengono previsti sia dei risparmi che una maggiore copertura assistenziale dei più bisognosi. Sul terreno della tutela ambientale vengono previsti nuovi investimenti per la bonifica di aree contaminate (500 zone entro il 2000) e per la salvaguardia della salute dei cittadini. Come si vede gli USA non rinunciano a riaffermare il ruolo dello Stato nel promuovere la crescita dei fattori primari dello sviluppo — come l’educazione — e nel garantire dei servizi di assistenza e prevenzione minimi per tutti i cittadini.