IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XXXVI, 1994, Numero 3, Pagina 204

 

 

L’AGENDA FOR DEVELOPMENT DI BOUTROS BOUTROS-GHALI
 
 
Dalla fine della guerra fredda l’ONU è sempre più spesso chiamata in causa per risolvere conflitti locali, per coordinare missioni umanitarie o per cercare di trovare una risposta globale a problemi mondiali quali l’emergenza ecologica e lo sviluppo. E puntualmente essa manifesta i suoi limiti, rivelandosi impotente rispetto alla prepotenza dei signori locali della guerra, incapace di imporre il rispetto dei diritti umani, inadeguata per promuovere efficaci politiche di sviluppo. Le contraddizioni in cui si dibatte l’ONU non sono una novità. La novità è piuttosto rappresentata dalla frequenza con la quale queste contraddizioni si manifestano e dallo sdegno internazionale che ormai esse suscitano. All’indomani della creazione dell’Organizzazione, negli anni Cinquanta, queste contraddizioni erano già state messe in evidenza dal segretario generale dell’ONU Dag Hammarskjold. «E’difficile prevedere, diceva Hammarskjold, come si possa fare oggi un balzo in avanti verso la Federazione mondiale partendo da un mondo così caotico e diviso… Dobbiamo per il momento fare il nostro apprendistato e cercare di sviluppare delle forme di coesistenza internazionale» (1958). Oggi, in un clima internazionale profondamente mutato, l’attuale segretario generale dell’ONU Boutros Boutros-Ghali può indicare più apertamente le cause dell’impasse: «Il rispetto per la sovranità e l’integrità degli Stati è cruciale per qualsiasi forma di progresso internazionale. Tuttavia il tempo della sovranità assoluta ed esclusiva è finito… E’ compito dei leaders nazionali capire questa realtà e trovare un equilibrio tra le esigenze del buon governo interno e quelle di un mondo sempre più interdipendente» (1992). Ma questo equilibrio è ben lungi dall’essere realizzato. Sul piano finanziario l’ONU può disporre di risorse che sono addirittura inferiori a quelle che alcune grandi metropoli (per esempio New York) impiegano annualmente per il mantenimento dei servizi di polizia e dei vigili del fuoco, ed ha un numero di dipendenti appena pari a quello di una capitale media (per esempio Stoccolma).[1] Sul piano istituzionale il potere è ancora concentrato soprattutto a livello nazionale. Per questo non può stupire il fatto che Boutros-Ghali, per descrivere sinteticamente i limiti del suo potere, dica: «Non ho esercito, non ho terra, non ho polizia».
 
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Come dimostra il difficile processo di ratifica dei nuovi accordi GATT da parte degli Stati, a cui è legata anche la rinascita dell’Organizzazione mondiale per il commercio (OMC), lo scontro fra interessi nazionali e interessi internazionali domina sempre più la vita politica nazionale. Negli USA, per esempio, l’Amministrazione Clinton ha dovuto accettare un compromesso di facciata sulla salvaguardia della sovranità USA per ottenere la ratifica degli accordi GATT. In base a questo compromesso, ogni cinque anni una commissione di cinque giudici federali dovrà verificare se l’OMC ha agito correttamente. Se verranno trovati almeno tre casi sfavorevoli, il Congresso e il Senato, con una maggioranza dei due terzi, potranno chiedere il ritiro degli USA dall’OMC. Il compromesso, secondo gli stessi avversari della ratifica, sarebbe solo di facciata, in quanto il Congresso deteneva già il diritto, mai esercitato, di riesaminare il funzionamento del GATT ogni cinque anni per eventualmente denunciarlo. Sul fronte dei futuri rapporti fra ONU e OMC, pesa anche una diversa valutazione sul legame fra democrazia, rispetto dei diritti umani e sviluppo economico: USA ed Unione europea hanno sottolineato l’esistenza di questo legame, mentre paesi come la Cina o Singapore tendono a negarlo. Per esempio la commissione preparatoria dell’OMC ha respinto la richiesta di Boutros-Ghali di prevedere una supervisione dell’ONU sull’operato dell’OMC per quanto riguarda il rispetto dei diritti umani. Il presidente di turno della commissione istituzionale del GATT, l’ambasciatore di Singapore K. Kesavapany, ha motivato questa decisione negando la necessità di stabilire un accordo istituzionale tra ONU e OMC.
 
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E’ in questo clima che si inserisce la presentazione dell’Agenda for Development da parte di Boutros-Ghali.
In essa si propone che l’Assemblea generale delle Nazioni Unite convochi entro il 1996 una Conferenza mondiale su «Moneta e finanza per lo sviluppo». Rilevando che il problema cruciale per promuovere lo sviluppo è rappresentato dalla scarsità di risorse finanziarie a disposizione dell’ONU e dall’assenza di coordinamento fra l’ONU, le istituzioni di Bretton Woods (Banca mondiale e Fondo monetario internazionale) e la nascente OMC, Boutros-Ghali tocca alcuni punti cruciali del dibattito sul futuro dell’ONU. Dopo aver proposto la creazione di un comitato internazionale di consiglieri incaricato di formulare delle raccomandazioni sulla politica dell’ONU in materia di sviluppo, il Rapporto mette in guardia contro l’illusione di mantenere a lungo l’attuale ambiguità e assenza di coordinamento fra l’ONU e le istituzioni previste da Bretton Woods. Gli aiuti fomiti su base volontaria da parte degli Stati, infatti, non sono sufficienti né per svolgere le azioni di peace-keeping né per promuovere piani di sviluppo. Solo quattro paesi — Danimarca, Paesi Bassi, Norvegia e Svezia — destinano lo 0,7% del PNL per le politiche di sviluppo, come deciso nel 1970 dall’ONU. Per questo Boutros-Ghali propone l’introduzione di una serie di tasse internazionali: una tassa sui consumi di combustibili fossili — che potrebbe portare ad un gettito di almeno 500 miliardi di dollari all’anno secondo la United Nations Development Programme —, una tassa sulle transazioni finanziarie internazionali — che potrebbe produrre un gettito di 1500 miliardi di dollari all’anno —, una tassa su viaggi e documenti di viaggio internazionali. A queste tasse si potrebbe aggiungere, secondo Boutros-Ghali, il trasferimento di parte dei peace-dividends ottenuti dalla riduzione delle spese militari dei paesi sviluppati e non, che, tra il 1987 e il 1994, ammontano a circa 935 miliardi di dollari. A parte la tassa ecologica, di cui ormai si discute da tempo l’introduzione sia in Europa, che in USA e in Giappone, le altre tasse sembrano attualmente di difficile applicazione e la loro quantificazione sembra avere uno scopo più propagandistico che reale.
Ma il punto cruciale sollevato da Boutros-Ghali non è rappresentato tanto dalla scarsità delle risorse a disposizione dell’ONU, quanto piuttosto, come si è già accennato, dall’inadeguatezza istituzionale dell’attuale sistema di governo dell’economia mondiale. Toccando il punto della revisione dei rapporti fra ONU e istituzioni create a Bretton Woods, Boutros-Ghali pone il problema di riprendere il cammino intrapreso nel 1945 verso la creazione di quel sistema di governo mondiale. A questo proposito vale la pena di ricordare brevemente su quali presupposti si fondava quel progetto.
Il piano complessivo abbozzato nel dopoguerra si basava sulle riflessioni avviate da Americani e Inglesi, in particolare da Keynes, negli anni Trenta. L’idea di una Conferenza economica mondiale appoggiata dalla Società delle Nazioni risale infatti al 1930. La Conferenza avrebbe dovuto affrontare il problema del finanziamento dei programmi di sviluppo e quello della stabilizzazione monetaria all’indomani della crisi del ‘29.[2] Ma le preoccupazioni americane, e di Roosevelt in particolare, di veder sacrificate le politiche nazionali sull’altare della stabilizzazione del cambio del dollaro rispetto al franco e alla sterlina (con un margine di fluttuazione previsto del + 3%), il desiderio britannico di difendere il primato degli interessi dell’impero coloniale e l’aspirazione francese di rafforzare il blocco dell’oro (che comprendeva Francia, Belgio, Olanda, Svizzera e nominalmente l’Italia), fecero fallire la Conferenza.
Il problema della riorganizzazione dell’ordine economico internazionale si riaffacciò però prepotentemente sul finire della seconda guerra mondiale, quando apparve chiaro che sarebbe stato necessario ricostruire le economie distrutte dalla guerra basandosi su criteri diversi rispetto a quelli seguiti nel primo dopoguerra, pena un nuovo disastro. Il criterio adottato nella conferenza di Bretton Woods (1944), in seguito recepito anche dall’ONU, fu quello di abbandonare l’idea di imporre il risarcimento di pesanti debiti di guerra ai paesi che sarebbero usciti sconfitti dal conflitto, e di passare dalle politiche di assistenza alle politiche di ricostituzione degli stock di materie prime e poi alla ricostruzione vera e propria. Questo approccio imponeva però dei compiti e delle istituzioni nuovi. Era infatti evidente che non sarebbe stato possibile elaborare un codice per il commercio, fornire le finanze necessarie alla copertura degli squilibri commerciali, rimettere in moto il flusso dei capitali dai paesi sviluppati ai paesi più poveri basandosi su organismi nazionali. Per svolgere questi compiti vennero allora concepite quattro istituzioni: la Banca mondiale, con il compito di sovrintendere alla ricostruzione, il Fondo monetario internazionale, con il compito di determinare e gestire la struttura dei tassi di cambio mondiali, la United Nations Relief and Rehabilitation Administration (UNRRA) — l’agenzia operativa finanziata da USA (per il 72%), Gran Bretagna (12%), Canada (6%), URSS (2%) — e l’OMC.
La gestione dell’UNRRA provocò subito dei contrasti fra gli USA, il maggior contribuente, e gli altri membri. La Gran Bretagna incominciò ad avanzare richieste di riduzione del suo contributo, ammettendo nell’UNRRA anche l’Italia, gli altri membri volevano mantenere il controllo dell’agenzia attraverso la regola di «un paese - un voto» senza assumersi maggiori oneri finanziari. Nel giro di tre anni gli USA giunsero alla conclusione che non sarebbero stati in grado di finanziare un impegno globale in un clima di crescente confronto militare con l’URSS e di enorme frammentazione del quadro mondiale. In questo contesto venne concepito il Piano Marshall per l’Europa, un piano che privilegiava degli obiettivi regionali rispetto a quelli mondiali, che affermava la piena leadership americana nel controllo delle risorse e dei piani, e che imponeva ai paesi beneficiari dell’Europa di coordinare in un quadro internazionale le loro richieste. A sua volta l’OMC, nel momento in cui gli obiettivi economici globali venivano messi in secondo piano rispetto a quelli di carattere regionale, fu rimpiazzata da un accordo meno vincolante, il General Agreement on Tariffs and Trade (GATT). In base all’articolo 57 della Carta dell’ONU, tutte queste istituzioni sarebbero progressivamente entrate «in relazione» con l’ONU stessa. Ma le istituzioni nate da Bretton Woods lo fecero beneficiando di accordi particolari: la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale mantennero un sistema di rappresentanza ponderata dei paesi sulla base di criteri economici e finanziari, e non, come l’ONU, sulla base della regola «un paese - un voto». Essi proclamarono la loro completa indipendenza dall’ONU, si riservarono di fornire informazioni alle altre agenzie dell’ONU, limitarono la presenza di rappresentanti dell’ONU nei rispettivi organismi di controllo, mantenendo però il diritto di essere permanentemente informati di tutto quanto veniva deciso dalle altre agenzie internazionali.
Il carattere antidemocratico e fortemente sbilanciato a favore della leadership americana di questi accordi era evidente, ma difficilmente contestabile nella misura in cui il maggior contribuente restava un solo paese, gli USA. Del resto né l’opposizione dell’URSS e della Norvegia a questi accordi, manifestata già nel 1947, né quella dei paesi del Terzo mondo, emersa nella conferenza di Arusha nel 1980, offrivano una alternativa credibile a questo sistema di governo dell’economia e del commercio internazionale incentrato sugli USA.
 
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Solo con la fine della guerra fredda, e cioè con il crollo dell’impero sovietico e con l’indebolimento della supremazia militare ed economica della superpotenza americana, il dibattito sul nuovo ordine mondiale è potuto tornare nel solco tracciato alla fine della seconda guerra mondiale. Lo scenario, a distanza di cinquant’anni, è profondamente mutato: i paesi membri dell’Unione europea sono diventati la prima potenza commerciale mondiale, e la Russia non si contrappone più alla potenza americana, ma chiede ormai di rientrare negli organismi di controllo finanziario mondiale. In Asia gli scambi interregionali superano ormai il commercio con gli USA e la Cina è nella posizione di chiedere il suo ingresso nell’OMC.
Ma di fronte a questi fenomeni, sembra farsi strada l’illusione che, per fondare un ordine mondiale più giusto e democratico basti coordinare le istituzioni internazionali esistenti. Questa è senz’altro una condizione necessaria, ma non sufficiente per far fronte alle sfide mondiali di fronte alle quali si trova oggi l’umanità.
Occorre infatti sciogliere il nodo di una profonda riforma dell’ONU che consenta di legare il problema della promozione di uno sviluppo sostenibile su tutto il pianeta con l’estensione dei principi democratici al governo del mondo. Un problema, questo, non nuovo se il Ministro degli Esteri britannico Ernest Bevin poteva affermare già nel 1945 che «abbiamo bisogno di un nuovo approccio allo scopo di creare un’assemblea mondiale eletta direttamente dal popolo mondiale, nei confronti della quale siano responsabili i governi che aderiscono alle Nazioni Unite».
Da questo punto di vista gli Europei hanno una responsabilità immediata. L’Unione europea potrebbe infatti giocare un ruolo cruciale per la riforma delle istituzioni di Bretton Woods e per la revisione dei rapporti fra queste e l’ONU. La creazione di una moneta europea, possibile già a partire dal 1997 per un nucleo ristretto di paesi nell’ambito dell’Unione, porrebbe di per sé il problema di una profonda revisione dei meccanismi di gestione e funzionamento del FMI, della Banca mondiale e della stessa OMC. In questo quadro diventerebbe inevitabile porre la questione di un diverso rapporto fra queste istituzioni e l’ONU. Analogamente, l’attuazione di una politica estera e di difesa europea davvero comune, come previsto dal Trattato di Maastricht, porrebbe il problema della rappresentanza dell’Unione europea in quanto tale in seno al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, come è stato del resto richiesto in una risoluzione adottata dal Parlamento europeo. E questo processo dovrebbe andare di pari passo con una più generale riforma delle istituzioni dell’ONU, ripartendo dalle riflessioni di Bevin.
Tutto ciò non fa che confermare come la politica estera dei vari paesi non abbia più senso se non è concepita in chiave mondiale. In questa ottica l’azione dei federalisti attivi nei diversi paesi a favore della creazione di un’Assemblea parlamentare da affiancare all’Assemblea Generale, deve porsi l’obiettivo di influenzare in senso mondiale le politiche estere dei rispettivi paesi. In Europa questo significa battersi affinché nasca un nucleo federale europeo capace di esercitare una buona politica estera europea. In questo senso la scadenza della riforma in senso federale dell’Unione europea entro il 1996 rappresenta una tappa importante anche per la riforma dell’ONU.
 
Franco Spoltore


[1] E. Childers, B. Urquhart, Renewing the United Nations System, Uppsala,Dag Hammarskjold Foundation, 1994.
[2] Charles P. Kindleberger, Storia della finanza nell’Europa occidentale, Bari, Laterza, 1987.

 

 

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