IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XXXVI, 1994, Numero 2, Pagina 148

 

 

ISTITUZIONI FEDERALI E POLITICA URBANA
 
 
1. Premessa.
 
Negli ultimi anni la città è ritornata ad occupare un ruolo centrale nel dibattito politico a livello nazionale, europeo e mondiale. In Italia è stata rilanciata la discussione sulla proposta di creazione di nuove aggregazioni regionali,[1] sulla delocalizzazione di ministeri ed altri enti pubblici dalla capitale,[2] sull’esempio di quanto è avvenuto in Germania, dove, ad esempio, a Francoforte hanno la loro sede, accanto ad altre istituzioni di primaria importanza, la Bundesbank, l’Ente federale delle ferrovie e l’Ufficio federale per l’economia industriale; a Kassel il Tribunale federale del lavoro; a Karlsruhe la Corte suprema federale e la Corte costituzionale, ecc.[3] Alcuni comuni, infine, stanno costituendo le aree metropolitane previste da una recente legge sulle autonomie locali.[4] In Gran Bretagna ed in Francia i rispettivi governi hanno avviato un processo di delocalizzazione, a favore di altri poli urbani, di attività pubbliche concentrate nelle capitali, e recentemente il governo francese ha presentato una proposta di legge per dare vita alla costituzione di sette macro-regioni.[5] La Commissione delle Comunità europee ha promosso una serie di studi sui guasti prodotti dalla politica dello zoning e sui problemi delle aree urbane in declino industriale, anche al fine di avviare una politica attiva in questo settore.[6] Infine, la World Bank ha sostenuto che la città ha un ruolo decisivo nello sviluppo di un sistema economico,[7] e che quindi deve essere ripensata la politica di sostegno ai paesi più poveri.
Gli orientamenti che esprimono questi studi e i provvedimenti proposti o approvati presentano due limiti. Da un lato non affrontano — o lo fanno in modo parziale, come nel caso del Libro verde sull’ambiente urbano — il problema della rivitalizzazione della vita di quartiere e di come assicurare la sua compatibilità con l’obiettivo della crescita economica della città; d’altro lato, venendo pensati in un contesto locale o, al massimo, nazionale, sviluppano politiche concorrenziali rispetto ad altre aree urbane nazionali od europee, quando invece la crescente interrelazione tra i sistemi urbani europei e l’obiettivo dell’unificazione europea richiederebbero lo sviluppo di una politica di coordinamento. La stessa creazione di aree metropolitane prevista da una legge di recente approvazione, nella misura in cui non si inserisce nel contesto di un disegno globale di riforma dello Stato e della finanza pubblica in senso federale, sembra in realtà una parziale risposta che lo Stato burocratico ed accentrato intende dare alle esigenze ormai inderogabili di maggiore autonomia degli enti locali dal potere centrale.
Il rischio di tutte queste proposte è che le aree maggiormente dotate sul piano economico, più efficienti e meglio organizzate polarizzino crescenti risorse a scapito di aree urbane meno fortunate, senza che vi siano interventi compensativi a livello sovranazionale. In realtà, quindi, il problema vero che viene posto da queste iniziative è ormai quello dell’organizzazione di una programmazione del territorio che si articoli dal livello locale al livello europeo. L’obiettivo del presente contributo, che parte dai problemi della città a livello locale per arrivare a quello europeo, è quello di analizzare tre aspetti del problema urbano che rendono urgente dare al continente una programmazione del territorio alla cui formazione partecipino gli eletti ai vari livelli di governo, anche perché il dibattito che si è aperto su questi temi costituirà un elemento strutturale della vita politica ed economica europea dei prossimi anni. Quindi per i federalisti diventa necessario riprendere la discussione che era stata avviata qualche anno fa.[8]
 
2. Il dilemma delle città: sviluppo della città e vitalità dei quartieri.
 
L’esperienza ci insegna che non c’è contraddizione tra crescita economica della città e diseguale distribuzione della vitalità tra i quartieri che la compongono, mentre la politica del risanamento urbano richiede di conciliare le due esigenze. Quindi occorre cercare di capire perché questo non avviene automaticamente.
Il punto di partenza dell’analisi sono le osservazioni di Jane Jacobs a proposito delle condizioni che rendono possibile la sicurezza e la vitalità delle strade e dei quartieri di una grande città. Secondo l’urbanista americana, vitalità e sicurezza del quartiere dipendono dalla sorveglianza e dalla frequentazione da parte dei cittadini. Perché si manifesti l’interesse di questi ultimi a sorvegliare e frequentare le strade urbane, occorre che sul territorio urbano si realizzi una mescolanza di usi e di attività sufficientemente complessa da alimentare questo interesse. In particolare, scrive la Jacobs, «per creare una ricca diversità nelle strade e nei quartieri di una città sono indispensabili quattro condizioni: 1) il quartiere — e, meglio ancora, il maggior numero possibile delle singole zone che lo compongono — deve servire a più funzioni primarie [ad esempio, residenze, piccole attività industriali, uffici, esercizi commerciali (N.d.A.)], possibilmente più di due. Queste funzioni debbono assicurare la presenza di persone che popolino le strade a ore diverse e che, pur frequentando la zona per motivi differenti, abbiano modo di utilizzare in comune molte delle sue attrezzature; 2) la maggior parte degli isolati debbono essere piccoli, il che significa che le strade e le occasioni di svoltare agli angoli debbono essere frequenti; 3) nel quartiere debbono coesistere edifici di diverse età e condizioni, compreso un buon numero di vecchie costruzioni, in modo che siano diversi i redditi che i vari edifici debbono fornire per essere remunerativi; questa mescolanza deve essere assortita in modo abbastanza minuto; 4) quale che sia il motivo per cui la gente si trova nella zona, la densità di popolazione deve essere sufficientemente elevata; ciò significa, tra l’altro, una forte densità di popolazione residente».[9] In effetti, se si riflette un attimo sui diversi quartieri che compongono le nostre città, non possiamo fare a meno di osservare che la «commistione di usi» del territorio urbano di cui parla la Jacobs è la caratteristica solo di alcuni di essi e, nel caso del centro storico della città e di qualche altra zona, solo in certe ore della giornata. Per capire perché la «commistione» non avviene spontaneamente, riprendiamo qui le tesi del geografo tedesco Christaller,[10] il quale ha sviluppato un modello per l’analisi della distribuzione degli insediamenti umani sul territorio. In particolare, sostenendo che questi ultimi, a parità di condizioni, si distribuiscono sul territorio secondo il principio dell’approvvigionamento (o del mercato), Christaller ha formulato una regola che ha una validità più generale, nel senso che spiega anche come si distribuiscono le attività economiche all’interno della città e di fatto chiarisce perché i quartieri di una città tendono spontaneamente ad avere diversi gradi di vitalità.
L’analisi della distribuzione delle funzioni centrali sul territorio, in base al principio dell’approvvigionamento, evidenzia che si stabilisce una gerarchia fra le diverse località centrali, determinata dal numero e dal tipo di funzioni che vi si installano. E quelle che Christaller chiama località centrali di ordine superiore sono tali perché in esse vi si trovano funzioni in numero superiore e più qualificate rispetto a quelle delle località di ordine inferiore. Però, nella misura in cui le prime comprendono anche le funzioni di queste ultime, ne discende che le località di ordine superiore sono anche tendenzialmente più vitali delle seconde. Se questo è vero anche per la distribuzione delle funzioni tra i quartieri di una città, il principio dell’approvvigionamento evidenzierebbe che alcuni quartieri sono strutturalmente più vitali di altri, e pertanto, in assenza di interventi discrezionali, verrebbe meno una delle condizioni che, secondo l’urbanista americana Jane Jacobs, rendono vivibile e sicura una grande città, perché verrebbe meno quella «commistione di usi» del territorio urbano che ne è la condizione primaria: se si vorrà quindi che questa condizione venga soddisfatta, la commistione di usi dovrà essere organizzata.
Sintetizzando quanto dice Christaller, la caratteristica più rilevante degli insediamenti umani, al fine di indagarne la distribuzione territoriale e lo sviluppo, è la loro «centralità», cioè la loro vocazione a costituire «il punto centrale di un territorio» circostante gli insediamenti stessi, in quanto luogo che ne soddisfa i bisogni. Un luogo cioè è centrale «quando gli abitanti svolgono attività economiche necessariamente legate ad una posizione centrale. Queste attività economiche devono essere denominate attività centrali, ed i beni e servizi che vengono prodotti nel luogo centrale, proprio perché esso è centrale, devono essere denominati beni e servizi centrali». Esistono poi località centrali di livello diverso, in funzione della estensione dell’area del territorio di cui soddisfano i bisogni. Vi sono quindi località centrali di ordine inferiore, quando queste esercitano la loro influenza sul territorio immediatamente circostante, e località centrali di ordine superiore, la cui funzione centrale si esercita su un territorio che comprende altre località centrali di minore importanza. La constatazione dell’esistenza di diversi tipi di località centrali evidenzia l’esistenza di una «gerarchia» tra le stesse che non è espressione di un fatto geometrico, ma piuttosto di una funzione da loro svolta. Questa funzione è rappresentata dall’approvvigionamento del territorio circostante di beni e servizi centrali. Sono questi ultimi infatti a definire la centralità di una località: i beni e servizi centrali di ordine superiore saranno offerti solo in una località di ordine superiore, ed i beni e servizi centrali di ordine inferiore saranno offerti nelle località di ordine inferiore oltre che, ovviamente, in quelle di ordine superiore. Occorre ricordare che secondo Christaller la caratteristica della centralità è soprattutto propria delle attività distributive — piuttosto che di quelle produttive in senso stretto — e in genere dei servizi, in quanto la localizzazione di queste funzioni avviene principalmente in vista della facilità di accesso dei potenziali consumatori e utenti.
I beni e servizi centrali possono essere classificati secondo la loro natura (servizi sanitari, culturali, amministrativi, ecc.) e secondo il loro livello di complessità e specializzazione (per esempio, nel settore della sanità, medico condotto, farmacia, specialisti delle varie branche, ospedali di diversa dimensione; nel settore dell’istruzione, scuola elementare, media inferiore, media superiore, università, istituti post-universitari). I vari beni e servizi centrali servono territori di diversa estensione, cioè hanno diversi ambiti territoriali di influenza, che sono tanto più ampi quanto più elevato è il loro grado di specializzazione e di complessità (per esempio, un medico generico serve al più un quartiere, un medico specializzato più quartieri, un ospedale serve la città). A parità di condizioni, la forma assunta dagli ambiti territoriali coperti dai beni e servizi centrali è un’area circolare. L’estensione di ognuno di questi ambiti territoriali è a sua volta determinata da due parametri: il limite superiore del raggio di influenza dei beni e servizi centrali di un determinato ordine delimita la distanza massima da un luogo centrale che i consumatori e gli utenti sono disposti a percorrere per procurarseli. Il limite inferiore delimita l’estensione territoriale minima (per una data densità di popolazione) indispensabile per sostenere economicamente le istituzioni che forniscono gli stessi beni e servizi.
Come già osservato, se quanto sostiene il geografo tedesco è vero, questo significa che le diverse parti del territorio non hanno la medesima vitalità delle località centrali di massimo ordine, cioè di quelle che oltre ad offrire i beni e servizi più elementari, sono dotate di unità economiche che offrono anche beni e servizi più sofisticati e complessi. Queste ultime località si trovano infatti a veder concentrata sul proprio territorio una quantità e varietà di beni e servizi offerti che non si riscontrano in nessuna o sono presenti in poche altre località. L’estensione delle osservazioni di Christaller alla distribuzione degli insediamenti all’interno di un’area urbana evidenzierebbe pertanto come il principio del mercato tenderebbe a sviluppare un sistema di località centrali a dimensione urbana, con quartieri più vitali di altri, quando invece la vitalità dovrebbe essere una caratteristica di tutti i quartieri. Pertanto, affinché si sviluppi una effettiva molteplicità di usi del territorio urbano, il sistema delle località centrali come descritto da Christaller a livello urbano dovrebbe tendenzialmente esaurirsi all’interno di ogni quartiere, nel senso che ognuno di questi dovrebbe avere almeno lo stesso numero di servizi il cui limite inferiore ha una portata pari e superiore all’estensione del quartiere.[11]
 
3. Verso un sistema europeo e mondiale di località centrali.
 
Le città europee sono oggi sottoposte a sollecitazioni diverse da quelle che hanno accompagnato il loro sviluppo nel corso dell’800 e della prima parte del nostro secolo. Esse derivano da un lato dal processo di unificazione europea, che sta provocando una forte ridistribuzione di ricchezza tra le diverse aree urbane, e dall’altro dal fatto che si sta consolidando un sistema europeo e mondiale di località centrali.
Gli effetti del processo di unificazione europea sulla ridistribuzione della ricchezza tra le città europee sono enormi. E si vuole qui sottolineare questo fatto perché, con riferimento a quanto sviluppato nel paragrafo precedente, un piano di sviluppo della città e dei suoi quartieri non può essere pensato al di fuori delle scelte europee. Per citare un esempio illuminante, basti ricordare che cosa è successo ad alcune città portuali della Gran Bretagna, un paese che nel 1965 esportava solo il 18,2% delle proprie merci verso la CEE, mentre nel 1983 questa percentuale raggiungeva il 44,7%. L’espansione dello sbocco europeo per le merci inglesi ha significato un totale capovolgimento nell’importanza relativa dei porti inglesi. Liverpool, che nel 1965 smistava il 18,5% delle esportazioni inglesi, nel 1983 ne smistava solamente il 2,8%. Nello stesso periodo di tempo, Dover, a poche decine di chilometri dal continente, vedeva la quota di esportazioni inglesi che utilizzavano le sue strutture portuali passare dall’1,7% al 12,1% del totale, e il porto di Felixtowe dal 3,2% al 9,1%.[12] Si potrebbero fare anche altri esempi, ma il fatto è che la risposta dell’Unione europea a questi problemi è assolutamente parziale, limitandosi a prevedere la concessione di contributi alle aree urbane in declino industriale. Il problema è invece molto più ampio, in quanto, accanto ad aree urbane in declino, si può notare che un crescente numero di città sta diventando parte di un sistema europeo di località centrali. Le città, o almeno quelle che oggi sono le maggiori, vengono investite di nuove funzioni, che non servono solo un territorio di estensione regionale o nazionale, bensì europea, se non addirittura mondiale. Pertanto il problema non può più essere quello di una politica assistenziale più o meno efficace, ma di promuovere una politica del territorio che assicuri una equilibrata vitalità del territorio su scala europea. Il modello elaborato da Christaller dimostra che il principio del mercato assicura una distribuzione equilibrata della fornitura di beni e servizi evitando di lasciare sguarnite parti significative del territorio. Guardando al territorio europeo, invece, si notano evidenti squilibri, e soprattutto si nota un trend verso il loro approfondimento, di cui bisogna indagare le cause per poter formulare dei rimedi adeguati.
In linea generale dobbiamo osservare che questa situazione si è sviluppata sulla base dell’eredità lasciata dalla rivoluzione industriale e dall’azione esercitata dal potere politico sul territorio nella fase della nascita degli Stati nazionali. In Europa, l’azione del potere politico per difendere e controllare il territorio ha teso a concentrare tutte le funzioni nella capitale — e, in subordine, nei capoluoghi delle suddivisioni amministrative dello Stato — e a lasciare nell’abbandono le zone di confine. Come sostiene Christaller, «l’idea fondamentale della struttura amministrativa è quella di creare dei territori più completi possibile, cioè dei distretti di uniforme superficie e, sempre per quanto possibile, con uniforme numero di abitanti, al cui centro sorga la località più importante ed i cui confini devono trovarsi in zone scarsamente popolate in modo da raccordarsi alle barriere ed ai confini naturali».[13] Questa politica contrasta la distribuzione degli insediamenti che avrebbe luogo in base al principio del mercato. Infatti, le località di ordine immediatamente inferiore che si venissero a trovare nei pressi di un confine politico verrebbero penalizzate dal comportamento del potere politico, portando le località interessate ad un livello di sviluppo decisamente inferiore a quello potenziale.
Un esito opposto spetta alle capitali. Una conferma di ciò la possiamo trarre da un Rapporto, redatto per conto della Délégation à l’Aménagement du territoire et à l’Action Régionale (DATAR), sulla dotazione delle città europee di un certo numero di funzioni scelte come indice della loro vocazione internazionale. Lo studio, benché di carattere molto empirico, evidenzia le conseguenze prodotte sul territorio dalla divisione dell’Europa in Stati nazionali sovrani e indipendenti e dal processo di centralizzazione verificatosi soprattutto negli Stati continentali. In particolare si può notare come in Spagna — con la sola eccezione di Barcellona, il cui forte sviluppo è però da ascriversi all’ingresso nell’Unione europea — il territorio che circonda Madrid manchi di città di un qualche rilievo europeo, e, in Francia, il territorio che si colloca a sud di Parigi risulti quasi completamente privo di città di una qualche importanza, almeno fino alla costa meridionale.
Le conseguenze dell’azione del potere politico sul territorio sono ancora più evidenti nel caso delle aree urbane delle regioni di confine. Ad esempio, nel caso dell’Italia nord-occidentale il sistema urbano si sta organizzando sempre di più attorno all’area milanese, privilegiata, oltre che da una favorevole posizione geografica, dalla politica economica seguita nel secondo dopoguerra e dalla politica di realizzazione di opere infrastrutturali di comunicazione che hanno favorito la convergenza dei traffici verso di essa, piuttosto che verso la Francia e la Spagna. Alcuni studi hanno messo in luce come questo processo di dipendenza economica sia molto avanzato, influenzando ormai il mercato del lavoro delle figure professionali più avanzate.[14]
Il Rapporto della DATAR ha il merito di attirare l’attenzione sul fatto che, a livello europeo, stanno emergendo delle importanti specializzazioni nella fornitura di servizi che hanno una portata europea. Ad esempio, nelle attività finanziarie, Londra occupa il primo posto in Europa come localizzazione privilegiata per le transazioni finanziarie, data la dimensione della borsa valori, la presenza di borse delle materie prime, dei mercati a termine, il numero di sedi di grandi banche, l’attività di merchant banking, ecc. Nel trasporto merci via mare e, in particolare, come luogo di interscambio delle merci tra il continente europeo, gli Stati Uniti e l’Estremo Oriente, Rotterdam si è imposta come il più importante porto d’Europa e del mondo. Sempre nel settore dei trasporti, ma per via aerea, il servizio di collegamento con le aree extra-comunitarie è svolto principalmente da Parigi, Londra e Francoforte. In altri importanti servizi alle imprese, quali l’organizzazione di fiere e saloni espositivi e di congressi, Parigi e Londra sono le principali città d’Europa. Infine, Parigi, Londra e Milano sono le città con la maggior quota di popolazione attiva occupata nel ruolo di quadri, ingegneri e tecnici in generale, a riprova del fatto che queste sono le sedi prevalenti delle attività a maggiore valore aggiunto.
Gran parte degli squilibri appena descritti nella distribuzione delle funzioni sul territorio europeo, ed in particolare l’eccessiva concentrazione di funzioni in città come Madrid, Milano, Parigi e Londra sono anche il frutto di una politica dei trasporti radiocentrica rispetto a queste aree urbane, che ha indebolito le aree urbane circostanti. In effetti, come ancora una volta ci ricorda Christaller, il sistema dei trasporti spiega la distribuzione dei luoghi centrali per quelle regioni che sono attraversate da vie di comunicazione di lunga distanza e di intensa utilizzazione. L’esistenza di migliori condizioni di trasporto comporta una diminuzione della distanza economica, una diminuzione cioè non solo dei costi effettivi, ma anche della perdita di tempo e di altri ostacoli che pongono un freno all’acquisto più frequente di beni centrali. Pertanto, a parità di ogni altra condizione, in un territorio con migliori condizioni di trasporto la località centrale è più grande, e quindi si verifica una accentuazione della sua importanza rispetto a località centrali di un territorio con peggiori condizioni di trasporto.[15] Per quanto riguarda invece la distribuzione delle località centrali, nel caso della realizzazione di vie di comunicazione tutto dipende dal tipo di collegamenti che verranno avviati. Se prevale la tendenza a creare collegamenti a grande distanza, si collegheranno tra di loro solo le località centrali di massimo ordine. In questo caso, in un territorio organizzato secondo il principio dell’approvvigionamento, come dimostra Christaller, le località di ordine immediatamente inferiore resteranno tagliate fuori, a meno che non si realizzino specifiche linee di collegamento locale che colleghino alla località di massimo ordine le località di ordine immediatamente inferiore.[16] Inoltre, ferma restando la tipologia di collegamenti che si vogliono realizzare, è anche molto importante il lasso di tempo che intercorre tra la fase dei collegamenti tra i grandi centri e quella della loro estensione a tutte le località che ruotano attorno alle località di massimo ordine. Se lo sviluppo del sistema di trasporti si attua lentamente e se si costruiscono di preferenza linee a grande distanza, il sistema di località centrali può modellarsi secondo il principio del traffico: in questo caso gli insediamenti tendono ad allinearsi lungo l’asse di traffico e a sguarnire il resto del territorio. Se invece lo sviluppo del sistema di trasporto è rapido e si costruiscono anche linee locali, la distribuzione degli insediamenti centrali continua a svilupparsi secondo lo schema del mercato.[17]
Il fatto è che a livello europeo, per iniziativa dei singoli Stati nazionali, vengono prese decisioni in materia di politica dei trasporti che avranno rilevanti conseguenze sulla distribuzione delle località centrali sul territorio europeo e sulla loro importanza relativa. E quello che è paradossale è che questi investimenti vengono sostenuti dalle autorità comunitarie con la «dichiarazione di interesse europeo» — che serve a sbloccare finanziamenti ad hoc nazionali ed europei — senza peraltro che sia chiaro qual è veramente l’interesse di lungo periodo dei cittadini europei.
Si potrebbe ricordare, come esempio, la politica di investimento nelle infrastrutture di trasporto innovative come l’alta velocità ferroviaria, che ha conosciuto un forte impulso inizialmente da parte del governo francese, ma che poi è stata fatta propria anche dagli altri governi europei.[18]
L’alta velocità avrà conseguenze rivoluzionarie sul territorio europeo, sui rapporti tra le città europee, sulla distribuzione della ricchezza tra le città europee ed il territorio circostante. Basti pensare alla riduzione dei tempi di collegamento tra le città che faranno parte di questa nuova rete ferroviaria. Per citare le riduzioni di tempo più significative, a partire da alcune città europee, si può ricordare che i tempi di percorrenza in partenza da Bruxelles con destinazione Barcellona, Bordeaux e Milano si ridurranno fino a un terzo dei tempi attuali, con significative riduzioni in termini assoluti; i tempi di percorrenza in partenza da Parigi con destinazione Barcellona, Berlino e Monaco si ridurranno alla metà dei tempi attuali. Ma un altro effetto importante lo avrà il collegamento tra Parigi e Londra attraverso il tunnel sotto la Manica: anche in questo caso i tempi di percorrenza, in partenza dalla città inglese con destinazione Parigi, Bruxelles, Barcellona e Berlino, si ridurranno fino a un terzo dei tempi attuali. Ma quello che importa qui sottolineare è che il tunnel, se da un lato rappresenta l’esempio più concreto della crescente — ed irreversibile — interrelazione del sistema urbano europeo, dall’altro unisce, come si è visto sopra, le città europee che già hanno la leadership in molte funzioni di livello europeo. E’ inoltre ipotizzabile che la città di Lilla, ad una distanza di mezz’ora da Bruxelles ed a circa un’ora e quaranta da Londra, assumerà a sua volta un’importanza crescente nel contesto urbano europeo.
Un recente studio ha cercato di capire che cosa succederà al territorio europeo con la realizzazione della rete ad alta velocità, così come previsto dai programmi dell’Unione europea da oggi al 2010.[19] L’obiettivo del lavoro è quello di vedere come si modifica la carta geografica dell’Europa continentale ricostruendo le distanze tra le città europee non sulla base della distanza chilometrica, bensì della distanza-tempo. I mutamenti che si producono sono rilevantissimi: innanzitutto, in linea generale, l’Italia nord-occidentale risulterà più vicina alla Spagna settentrionale che non alla Germania meridionale, mentre la distanza che separerà la Germania settentrionale da quella meridionale sarà più elevata della distanza-tempo tra Milano e Barcellona; in secondo luogo, il fatto che l’alta velocità escluderà dai suoi collegamenti le principali città del Portogallo, dell’Italia meridionale e della Grecia contribuirà ad allontanare ulteriormente i mercati dell’Europa centrale dalle aree urbane del Sud dell’Europa.
Quello che è importante notare, in assenza di una programmazione europea, è che generalmente le linee ad alta velocità, che richiedono stanziamenti consistenti, vengono attivate per collegare città ad alta densità abitativa, ad alti redditi pro-capite e tra le quali c’è già un importante traffico.[20] Queste scelte cercano di rispondere ad esigenze di maggiore economicità o comunque di minore diseconomicità rispetto ad altri collegamenti. Se le decisioni di investimento dovessero dipendere solo da queste considerazioni, sarebbe inevitabile una ulteriore concentrazione dello sviluppo attorno alle aree urbane già sviluppate, con una più accentuata polarizzazione delle principali funzioni di portata europea in poche città.
 
4. Le condizioni economiche e istituzionali di una efficace politica urbana.
 
Fino a quando la crescita economica era prevalentemente sostenuta dal processo di industrializzazione di massa, che ha richiesto una enorme accumulazione di capitale fisico, necessario a conseguire livelli di produttività ed un miglioramento nei livelli di vita mai conosciuti in passato, non era pensabile un modo diverso di organizzare il territorio. L’avvio ed il consolidamento del processo di industrializzazione ha richiesto la costruzione di grandi unità produttive vicine alle fonti di approvvigionamento di materie prime, oppure vicine ai mercati di sbocco delle merci, così come ha richiesto l’impiego di grandi masse di lavoratori concentrate in poche grandi unità produttive. Questo processo, se da un lato ha influenzato la distribuzione sul territorio delle aree urbane che hanno mantenuto fino ai nostri giorni una forte vitalità economica ed ha favorito la coincidenza tra una gerarchia urbana fondata sulla distribuzione della ricchezza e una gerarchia urbana fondata sulla dotazione di beni e servizi centrali, dall’altro ha anche condizionato la pianta urbana in quanto le unità produttive, inizialmente costruite alla periferia del nucleo originario delle città, con il processo di urbanizzazione che ha accompagnato lo sviluppo industriale si sono trovate ad essere localizzate nella zona centrale delle attuali città.
Oggi assistiamo al passaggio dal modo di produzione industriale al modo di produzione post-industriale. Quest’ultimo, rispetto al primo, che si fondava sull’importanza prevalente dell’accumulazione del capitale fisico e di lavoro poco qualificato, su una rigida organizzazione del lavoro e su una forte divisione della società in classi antagoniste, è caratterizzato invece dalla maggiore importanza data alla ricerca come fattore di produzione,[21] dalla progressiva eliminazione del lavoro ripetitivo resa possibile dall’automazione dei processi produttivi e, di fatto, dal progressivo superamento della divisione della società in classi contrapposte. Lo sviluppo tecnologico rende inoltre possibile decentrare all’esterno della città le unità produttive e in molti casi consente anche un loro ridimensionamento in termini di spazio fisico occupato a parità di ricchezza prodotta. Quindi la crescita economica della città non si accompagna più necessariamente allo sviluppo di grandi concentrazioni industriali in ambito urbano, ma si appoggia tendenzialmente a unità produttive di minori dimensioni. Le città che hanno guidato lo sviluppo industriale sono sempre meno il luogo dove avviene la produzione fisica delle merci, ma piuttosto il luogo della loro concezione, della sperimentazione e della commercializzazione, ed aumenta il peso dei servizi alla produzione, vale a dire i servizi finanziari, amministrativi, la formazione professionale, l’elaborazione dei dati, ecc., anche per effetto della deverticalizzazione di servizi prima accentrati all’interno dell’impresa. Cambiano quindi i fattori che concorrono a determinare il successo delle città e delle aree economiche a cui queste appartengono: qualità della vita, livello di formazione professionale, incentivi alla ricerca e allo sviluppo stanno sostituendo i fattori di localizzazione urbana caratteristici del periodo dell’industrializzazione, mettendo in competizione diretta tutte le città europee.
Il sistema economico europeo è oggi, infatti, profondamente modificato: gli occupati nel settore dei servizi sono pari a circa il 60% dell’occupazione totale, contro il 33% di occupati nel settore industriale (dei quali circa il 20% è costituito da dirigenti e impiegati). In Italia, ad esempio, il numero di coloro che svolge un lavoro nel quale è richiesta ampia autonomia e capacità professionale (imprenditori e liberi professionisti, dirigenti e impiegati, lavoratori in proprio) è passato dal 37%, degli occupati nel 1960 al 57% nel 1990: quindi l’occupazione dove ciò che conta è la «materia grigia» rappresenta ben più della metà della popolazione attiva, mentre l’occupazione legata alla «catena di montaggio», e alla quale è richiesta una maggiore rigidità di comportamento, nel 1960 era pari al 49% della popolazione attiva e nel 1990 è scesa al 39%. Ciò significa che il capitale intellettuale (il capitale investito in «materia grigia») sta diventando, se non è lo già, più importante del capitale fisico. Pertanto, anche ai fini dell’indirizzo da dare ad una politica discrezionale di sostegno ad uno sviluppo equilibrato dei quartieri che compongono la città, è utile tener conto di questo dato strutturale.
Accanto a queste trasformazioni di fondo che rendono pensabile una distribuzione più equilibrata, in ambito urbano, delle attività produttive, come si è visto, la razionalizzazione in corso dell’attività industriale, nella sua continua ricerca di crescenti livelli di efficienza, sta portando all’abbandono delle localizzazioni industriali in ambito urbano. Queste, nella fase dello sviluppo industriale, avevano trovato collocazione a ridosso del centro storico della città, e sono state successivamente inglobate dallo sviluppo urbano di questa seconda metà del secolo. Ora si trovano in una posizione strategica ai fini della riqualificazione e della vitalità e sicurezza dei quartieri e il loro recupero e inserimento in un piano di sviluppo che ne privilegi la molteplicità di destinazioni d’uso è il primo passo in questa direzione. Questo processo consente di sviluppare una politica volta all’eliminazione della compartimentalizzazione delle aree urbane prodotta dalla destinazione monofunzionale — industriale, terziaria, quartieri residenziali per soli redditi elevati, quartieri residenziali per soli redditi bassi — di molte parti delle città.
Oggi, inoltre, occorre pensare anche alle infrastrutture del futuro — le cosiddette autostrade dell’informazione — che possono dare un contributo decisivo alla vivibilità della città. Infatti, lo sviluppo di una efficiente rete di telecomunicazioni rende possibile, almeno in gran parte, il superamento della separazione, tipica delle aree urbane europee, tra luoghi di residenza, produzione e consumo, sviluppando diffusamente, sul territorio e nei settori produttivi, forme di telelavoro.[22] In questo modo è pensabile che possa venire attenuata, se non eliminata, la tendenza spontanea alla coincidenza tra gerarchia dei quartieri urbani e gerarchia dei beni e servizi centrali, organizzando la vitalità dei quartieri senza penalizzare l’efficienza nella fornitura di beni e servizi che è implicita nello schema di Christaller della distribuzione di questi secondo il principio del mercato.
Questi sviluppi potranno essere ulteriormente rafforzati se troveranno attuazione le indicazioni contenute nel Libro Bianco di Delors a proposito delle reti transeuropee e delle reti di informazione.[23] Gli investimenti nelle reti transeuropee, riducendo i tempi e i costi di trasporto, renderanno possibile un ulteriore passo avanti nella difesa dell’efficienza del sistema industriale europeo e nella distribuzione più equilibrata sul territorio degli insediamenti industriali. Essi saranno insieme un’occasione di crescita economica e di sviluppo della società europea, se inserite nel contesto di una politica policentrica di collegamenti tra le città medie e di queste con le altre grandi città, e non solo con le capitali.
Le potenzialità maggiori per il recupero e la vitalità dei quartieri urbani e per il superamento della contrapposizione tra città e campagna verranno però dall’attuazione del programma relativo alle reti di informazione. Il Piano Delors prevede quattro applicazioni possibili: telelavoro, teleformazione, telemedicina e teleamministrazione. Gli investimenti nella tecnologia dell’informazione e della comunicazione renderanno possibile, oltre alla ricomposizione del luogo di residenza e del luogo di lavoro, la riduzione della portata di una serie rilevante di servizi centrali che fino ad oggi hanno caratterizzato le località centrali di ordine superiore. In particolare, nel settore della formazione superiore, universitaria e post-universitaria saranno possibili sedi più piccole e decentrate nei diversi quartieri della città così come in diverse città di una medesima regione. Lo stesso si può dire dei servizi prestati dalla pubblica amministrazione, oggi responsabile di gran parte dell’accentramento di funzioni nel centro storico della città a scapito della periferia.
Tutto ciò significa però solo che vi sono le condizioni economiche e tecnologiche per impostare una politica urbana che miri alla rivitalizzazione di tutti i quartieri, superi il contrasto tra centro storico e periferia della città e tra città e campagna, ma non dice ancora che queste saranno effettivamente realizzate. Perché lo siano occorre introdurre a livello locale, regionale, nazionale ed europeo innovazioni istituzionali che costituiscano il presupposto dell’elaborazione di una programmazione territoriale europea, in quanto i problemi che abbiamo visto sopra pongono l’esigenza di un coordinamento tra i diversi livelli di governo.
La prima innovazione da introdurre è quella del sistema elettorale. Se si vuole che le esigenze che si manifestano al livello più basso, quello del quartiere, vengano recepite al livello più alto, quello federale, al momento della formulazione della politica territoriale europea, occorre immaginare un sistema di elezioni a cascata.[24] Queste dovrebbero svolgersi secondo un ordine di successione che vada dal livello più basso a quello più elevato, ed in un lasso di tempo che consenta al livello immediatamente superiore di non disperdere il contributo del livello più basso e di operare una sintesi con i livelli omologhi da trasmettere a quello immediatamente superiore. Questo processo sarà ancora più efficace se si introdurrà il bicameralismo a tutti i livelli, dal più basso al più alto. Così, a livello di area urbana, il Consiglio comunale dovrà essere composto da due Camere: la Camera dei quartieri e la Camera dei cittadini dell’area urbana; a livello provinciale vi sarà la Camera delle città e quella dei cittadini della provincia, e così di seguito fino al livello federale europeo, prevedendo, se opportuno, nuove aggregazioni intermedie tra il livello regionale e nazionale. Tuttavia, alla luce di quanto detto sulle funzioni urbane delle città di ordine superiore, molte di queste hanno una portata che supera i confini della città e della regione e quindi influenzano la vita di altre città e di altre regioni. Occorre pertanto che si dia vita ad innovazioni istituzionali che tengano conto di queste interrelazioni. Per fare l’esempio dell’Italia nord-occidentale, dati i forti legami economici tra l’economia piemontese e quella lombarda, nel Parlamento regionale piemontese dovrebbero essere presenti anche rappresentanti della regione Lombardia e delle regioni limitrofe francesi e svizzere, così come i rappresentanti del Piemonte dovrebbero sedere presso il Parlamento di queste ultime.
Va da sé che questo disegno richiede però la trasformazione dell’attuale Parlamento europeo in una vera e propria Assemblea legislativa e del Consiglio dei Ministri in una Camera degli Stati. La scadenza della revisione del Trattato istitutivo dell’Unione europea, fissata per il 1996, costituisce pertanto una favorevole occasione anche per rilanciare il dibattito su questi problemi e il Comitato di rappresentanza delle regioni, introdotto dal Trattato di Maastricht, può consentire di dare il sostegno della voce degli enti locali alla richiesta di una programmazione democratica europea del territorio.
 
Domenico Moro


[1] AA.VV., Nuove regioni e riforma dello Stato, a cura della Fondazione Giovanni Agnelli, Torino, 1993.
[2] M. Demarie e P. Gastaldo, «Capitale reticolare e riforma dello Stato», in XXI Secolo, n. 1, gennaio 1994.
[3] AA.VV., La capitale reticolare, a cura della Fondazione Giovanni Agnelli, Torino, 1993.
[4] La legge è la 142/90 sulle autonomie locali. Per quanto riguarda i progetti di creazione delle aree metropolitane previste da essa, cfr. AA.VV., Progetto città metropolitana, a cura del Comune e della Provincia di Bologna, Bologna, 1993.
[5] F. Grosrichard, «Le gouvernement détermine sept ‘espaces d’amenagement’ à l’échelle européenne», in Le Monde, 19 maggio 1994.
[6] Commissione delle Comunità europee, Urban Problems and Regional Policy in the European Community, Bruxelles, 1988; Libro verde sull’ambiente urbano, Bruxelles, 1990; Urbanization and the Functions of Cities in the European Community, Bruxelles, 1992.
[7] E’ significativo ricordare al riguardo uno studio della World Bank sul ruolo che può svolgere una politica specifica per le aree urbane nello sviluppo dei paesi del Terzo mondo: World Bank, Urban Policy and Economic Development (An Agenda for the 1990s), Washington, 1991.
[8] F. Rossolillo, Città, territorio, istituzioni, Napoli, Guida, 1983.
[9] J. Jacobs, Vita e morte delle grandi città, Torino, Einaudi, 1969, p. 140.
[10] W. Christaller, Le località centrali della Germania meridionale, Milano, Franco Angeli, 1980.
[11] Secondo un lavoro sul numero e sulla distribuzione delle località centrali all’interno della città di Torino, risulta esserci un forte squilibrio nella distribuzione delle attività terziarie, e dei servizi in generale, tra i quartieri della città. L’indagine ha consentito di individuare un sistema di località centrali urbane articolate su quattro livelli: una località di massimo ordine, che è quella che annovera i servizi più specializzati, e che è costituita dal centro storico, sette località centrali di secondo ordine, 38 di terzo ordine e 66 di quarto ordine (cfr. G. Dematteis, Le località centrali nella geografia urbana di Torino, Torino, 1966).
[12] Commissione delle Comunità europee, Urban Problems and Regional Policy in the European Community, cit., p. 210.
[13] W. Christaller, op. cit., p. 113.
[14] C.S. Bertuglia, T. Ganino, G.A. Rabino, «Le aree di pendolarità in Piemonte al Censimento 1981. Un’analisi disaggregata per settori e figure professionali», in Quaderni di ricerca Ires, n. 38, luglio 1986; degli stessi autori cfr. «L’organizzazione gerarchica del territorio piemontese. Stato, trasformazioni in atto e scenari in evoluzione», in Quaderni di ricerca Ires, n. 40, novembre 1986.
[15] W. Christaner, op. cit., pp. 77-8.
[16] W. Christaller, ibidem, p. 107.
[17] W. Christaller, ibidem, p. 151.
[18] Commissione delle Comunità europee, Report of the High Level Committee on the Development of a European High-Speed Train Network, Bruxelles, 1990.
[19] C. Cauvin, H. Reymond, Du ferroviaire au TGV, simulations et anamorphose, apport de la cartographie transformationnelle, presentato al Colloque «Villes et TGV», organizzato dal Centre Jacques Cartier di Lione, dicembre 1993.
[20] Oltre al caso della rete europea ad alta velocità, vedasi anche: D. Brand, Forecasting High Speed Rail Rideship in the Canadian Corridor: Quebec-Montreal-Toronto-Windsor, e F. Martin, L’allocation interrégionale des effets d’intégration économique d’un TGV dans l’espace canadien, memorie presentate al Colloque «Villeset TGV» del Centre Jacques Cartier di Lione, dicembre 1993.
[21] L. Thurow, Testa a testa, Milano, Mondadori, 1992.
[22] G. Scarpitti, D. Zingarelli, Il telelavoro, Milano, Franco Angeli, 1993.
[23] Commissione delle Comunità europee, Crescita, competitività, occupazione, Milano, Il Saggiatore, 1994.
[24] M. Albertini, «Discorso ai giovani federalisti», in Il Federalista, XX (1978), pp. 51-67.

 

 

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