Anno L, 2008, Numero 3, Pagina 199
Il futuro dello Stato nazionale nell’era della globalizzazione
Questo articolo indaga sul futuro del sistema degli Stati nazionali nell’era della globalizzazione utilizzando la tecnica gestionale della pianificazione di scenari. Saranno presi in considerazione quattro scenari alternativi: quello stazionario, quello dello Stato mondiale, quello dell’«Earth Inc.» (la Terra come una grande multinazionale) e quello selvaggio.
Quattro visoni della globalizzazione
Quale sarà il prossimo stadio del sistema degli Stati nazionali? Come sempre nel lavoro di pianificazione di scenari, l’obiettivo è di incoraggiare a pensare «fuori dagli schemi» anziché rifarsi ad un particolare punto di vista. Non si tratta di azzeccare la previsione vincente — ci penserà il futuro a determinarla — bensì di creare un insieme di visioni che in termini generali coprano tutte le eventualità che potrebbero emergere. E’ insito nella natura degli scenari globali sia il fatto che un dato elemento di informazione possa essere usato in due o più visioni, sia che la stessa informazione possa essere vista sotto più punti di vista e quindi essere utilizzata in più scenari.
I quattro possibili scenari globali sono delineati dall’intersezione di due assi cartesiani. Nell’individuare le forze responsabili del cambiamento ho scelto di riportare su di un asse la «forza o la debolezza dello Stato nazionale» e sull’altro la «forza o la debolezza della coesione sociale internazionale» (cioè il livello di cooperazione internazionale). Ne risultano quattro quadranti che diventano quattro possibili situazioni:
1. Forte Stato nazionale/debole coesione sociale internazionale (i governi nazionali conservano il controllo del proprio destino e rifiutano di collaborare sui problemi comuni): è questo lo «stato stazionario», che si basa sul fatto di considerare l’attuale ordine internazionale (con tutti i suoi problemi) come il migliore immaginabile.
2. Forte Stato nazionale/forte coesione sociale internazionale (i governi nazionali, pur conservando il controllo del proprio destino, accettano di collaborare sui problemi comuni e questa situazione evolve gradualmente verso una qualche forma di governance mondiale): è questa l’ipotesi dello «Stato mondiale», che si basa sul fatto che non esistono soluzioni puramente nazionali ai problemi internazionali, per cui i governi devono collaborare attraverso qualche forma di governance globale per risolverli.
3. Debole Stato nazionale/forte coesione sociale internazionale (i governi nazionali perdono il controllo dei propri paesi e le imprese multinazionali riempiono il vuoto): è quello che definisco l’«Earth Inc.». Con il declino dello Stato nazionale, le sole organizzazioni capaci prendere la guida del cambiamento sono le imprese multinazionali, che unificano il mondo in unico mercato riempiendo il vuoto di governo.
4. Debole Stato nazionale/debole coesione sociale internazionale (i governi nazionali perdono il controllo dei propri paesi e non c’è alcuna organizzazione capace di riempire il vuoto, per cui si crea un caos crescente): siamo all’anarchia, quella che chiamo lo «stato selvaggio». Questo è lo scenario «da incubo», nel quale lo Stato nazionale va in pezzi, aumenta il numero degli «Stati falliti», delle migrazioni in massa di popolazioni e crescono i problemi ambientali e di salute.
1. Lo «stato stazionario».
Questo scenario afferma che, nonostante tutti i discorsi sul cambiamento globale, la struttura di base dello Stato nazionale rimarrà tale: pur con i suoi problemi, si tratta della migliore delle opzioni.
Sovranità nazionale.
La sovranità nazionale non cesserà. I governi nazionali non intendono rinunciarvi. Ci sono stati pochi progressi nello stabilire standard condivisi di comportamento tra governi. Tutte le forme di cooperazione internazionale sono viste dai governi nella prospettiva di massimizzare i propri vantaggi.
La cosa può dispiacere, ma è un fatto della vita politica. Tutta la politica è locale — e gli stranieri non votano alle elezioni nazionali. Ad esempio, c’è grande preoccupazione nei paesi occidentali per il rischio di migrazioni di massa verso i loro territori; alcuni paesi sono più allarmati di altri, ma il timore è comune. Finché alcuni paesi saranno estremamente ricchi e altri estremamente poveri, i confini nazionali dovranno continuare ad esistere per limitare il movimento delle persone. Data la natura del sistema economico internazionale, è improbabile che questo fossato tra ricchi e poveri scompaia prima di parecchie decine di anni (se mai scomparirà) — e così il controllo dei confini continuerà a rivestire grande importanza.
Questa preoccupazione per la sovranità nazionale non riguarda solo gli occidentali. Anche i paesi in via di sviluppo sono fortemente determinati a mantenere la sovranità nazionale: hanno combattuto duramente per la propria indipendenza contro i padroni coloniali; adesso sono preoccupati dalle minacce del tribalismo, della frammentazione e dall’erosione della propria unità nazionale per colpa delle differenze culturali e delle influenze esterne. Questi paesi non rinunceranno alla propria sovranità per timore di essere investiti da una nuova ondata di imperialismo. Potranno avere dei problemi — ma almeno si tratterà dei loro problemi.
Riluttanza al cambiamento.
C’è riluttanza al cambiamento verso qualche forma di governance globale. Lo si può vedere a tutti i livelli delle società in cui la gente può liberamente esprimere le proprie opinioni. Anzitutto non vi è una spinta dell’opinione pubblica a favore di una governance mondiale. La maggioranza delle persone non si sente «cittadino del mondo». Quando si incontrano in occasione di eventi internazionali di massa, continuano a mantenere il senso della propria lealtà nazionale. Ciò non significa necessariamente che abbiano comportamenti violenti verso altre persone; semplicemente significa che hanno un senso del proprio orgoglio nazionale e che si sentono diversi dagli altri. Allo stesso tempo, pochissime organizzazioni non-governative di una certa importanza pongono la governance globale al centro delle loro campagne, ma riconoscono che questo progetto è troppo impegnativo e preferiscono perciò restare limitarsi al loro interesse principale (ambiente, disarmo nucleare, situazione della donna nei paesi in via di sviluppo, ecc.).
Parlare di «governance globale» o di «governo mondiale» serve solo a spaventare la maggior parte della gente. Hanno già abbastanza difficoltà nel tentare di influenzare i politici a livello nazionale e quindi temono di aver ben poche probabilità di influenzarli a livello internazionale. Tra l’altro, si vota più frequentemente, ma con scarso entusiasmo. La partecipazione elettorale nella maggioranza dei paesi occidentali è ora a livelli bassi. Perfino i paesi dell’Europa orientale, che hanno avuto più o meno una decina d’anni di libere elezioni, stanno sperimentano una scarsa affluenza alle urne. Il cinismo nei confronti dei politici è molto diffuso. Chiunque si voti, alla fine viene sempre eletto un politicante.
2. Lo «Stato mondiale».
Questo scenario afferma che, per la prima volta nella storia, i popoli devono confrontarsi con il bisogno di organizzare e gestire il mondo nella sua totalità. A partire dalla prima guerra mondiale, la storia del mondo potrebbe essere descritta come un unico, prolungato esperimento di governance globale. Alla radice di tutti i conflitti e dei sovvertimenti, c’è stato un problema fondamentale: come può autogovernarsi l’umanità? I problemi sono ben lungi dall’essere risolti, ma non c’è altra scelta che continuare nella ricerca. Il mondo è ormai troppo interdipendente — con le varie parti che si influenzano reciprocamente — per tentare di agire sulla base del pezzo-per-pezzo. Un disastro nucleare (come quello di Chernobyl dell’aprile 1986), per esempio, ha avuto conseguenze per altri paesi non solo al momento, ma per molti anni a venire.
Perciò c’è la necessità di qualche forma di governo del mondo. La tendenza tra i sostenitori delle ONG è ora di parlare piuttosto di «governance», perché è una definizione percepita come meno minacciosa dal pubblico rispetto a quella di «governo mondiale». Per di più, potrebbe benissimo darsi che il governo globale, nella sua forma finale, sia differente dalle forme di «governo» nazionale esistenti, per cui il termine di «governo mondiale» trae in inganno a causa della sua relazione con il «governo» a livello nazionale.
Strade diverse verso l’unità del Mondo.
Non è affatto chiaro come il mondo evolva verso una diversa forma di governance. Ci sono tre vie attraverso le quali si può tentare di unire paesi diversi:
— l’approccio federalista: la decisione deliberata da parte di governi nazionali di trasferire certi poteri (come quello di mantenere forze armate) ad un governo mondiale riservando per sé altri poteri (come quello di emanare leggi circa il possesso di proprietà);
— l’approccio funzionalista: la creazione un numero crescente di organizzazioni mondiali (come l’Organizzazione Mondiale della Sanità) deputate a gestire una particolare funzione (ad esempio la sanità), perché gli esperti possono operare in una ambiente meno politicizzato, per cui alla fine il mondo risulterebbe coperto da una rete di agenzie di questo tipo;
— l’approccio populista: la creazione di un movimento popolare di base per creare un governo mondiale democratico direttamente responsabile verso il popolo mondiale e per far nascere contemporaneamente l’idea di un governo mondiale e un movimento d’opinione pubblica in suo favore.
Qui c’è un problema che ricorda quello dell’uovo e della gallina. Non possiamo infatti discutere di governo mondiale perché non c’è una comunità mondiale che lo sostiene. Anzi, la discussione sul governo mondiale può perfino ritardare lo sviluppo di una comunità mondiale (a causa del parallelo negativo tra «governo mondiale» e «Grande Fratello») e quindi ritardare il progresso verso il governo mondiale. D’altra parte, un approccio più cauto può porre un’eccessiva enfasi sul grado di perfezione che la comunità mondiale deve raggiungere prima di poter prendere in considerazione il governo mondiale. Il mezzo per promuovere la comunità mondiale è di avere il governo mondiale. Ma poiché i privati cittadini non possono creare un governo mondiale, la seconda scelta per promuovere la comunità mondiale è di parlare di governance globale. La discussione a livello mondiale sul governo del mondo potrebbe avere qualche probabilità di unificarlo. La considerazione di quanto è necessario per unire il mondo e la discussione di un problema comune di straordinaria importanza potrebbero condurre ad un crescente senso di comunità tra tutti i popoli.
Un importante motivo per parlare di governo mondiale è quello di chiarire in che cosa dovrebbe consistere. Un governo mondiale dovrebbe puntare a limitate misure mirate al mantenimento di ciò che viene chiamato sicurezza, oppure la stessa sicurezza è dipendente dal perseguimento di obiettivi più ampi? Uno Stato mondiale dovrebbe essere unitario o federale, o forse dovrebbe presentare le migliori caratteristiche di entrambi? Quale potere impositivo dovrebbe avere lo Stato mondiale, e quale ordine di forze militari, se mai ne deve avere? Questa lista di domande può essere prolungata all’infinito e c’è un infinito numero di risposte a ciascuna di esse. Di conseguenza molti militanti della governance globale preferiscono impostare le proprie campagne secondo tutti e tre questi approcci contemporaneamente. Ad esempio, si occupano della necessità per i governi di collaborare sul piano politico (federale) e di collaborare su problemi comuni (approccio funzionalistico) e dell’importanza del coinvolgimento del popolo nella campagna per il governo mondiale.
La visione di lungo termine.
E’ indispensabile considerare la ricerca di una governance globale come un progetto di lunghissimo termine, rispetto al quale sono comunque stati fatti alcuni progressi. Ciò che può sembrare impossibile ad un dato momento può divenire possibile in un momento successivo. Quindi il progresso è possibile — potrebbe solo richiedere tempo. Gli affari umani non sono statici. E’ possibile migliorare il comportamento umano: ad esempio, il duello oggi è raro, mentre un tempo in Europa e negli USA era un modo normale tra gli uomini per regolare le liti. Analogamente la guerra non è necessariamente la norma negli affari umani; alcune società non ne hanno la tradizione. La bellicosità è un comportamento acquisito; gli uomini devono venir istruiti a combattere. Come ha sostenuto la dichiarazione di Siviglia dell’UNESCO,[1] non è un comportamento ereditato dai nostri progenitori animali, non è programmato geneticamente nella natura umana; la vita non è necessariamente la lotta dei più violenti (ma piuttosto vede la prevalenza dei più collaborativi); gli uomini non hanno un «cervello violento», e la guerra non è causata dall’«istinto» o da qualsiasi singola motivazione.
C’è stato qualche progresso nella riduzione dell’uso della guerra come strumento di politica nazionale. Guerre tra paesi sono attualmente molto rare. Tra Francia e Germania, per esempio, non vi sono state guerre ormai per più mezzo secolo e sembra molto improbabile che questi due tradizionali nemici possano ancora farsi la guerra. Questo non significa che siano diventati amici per sempre, solo hanno sviluppato modi meno violenti per sistemare le loro liti (ad esempio attraverso l’Unione europea e la Corte Internazionale di Giustizia).
Infine c’è la lezione del lungo processo di unificazione dell’Italia dal 1815 al 1870 e ci sono due affermazioni fondamentali di Massimo D’Azeglio. Nel 1861, egli fece notare che «Fatta l’Italia bisogna fare gli italiani»;[2] vale a dire che prima si creano le istituzioni, e poi cambia l’atteggiamento pubblico. Ma egli ammonì anche che «per fare l’Italia con gli italiani, non bisogna avere fretta».[3] Lo stesso si potrebbe dire degli abitanti della Terra.
3. L’«Earth Inc.»
Questo scenario prevede che lo Stato nazionale continui nella sua decadenza e che le imprese multinazionali abbiano una crescente influenza nel modo con cui viene gestito il mondo, fino a riempire il vuoto di governance globale. I governi nazionali non scompariranno necessariamente (soprattutto perché la nascita dei governi nazionali ha comportato la scomparsa di tutte le forme di governo locale), ma essi dovranno abituarsi al fatto che il sistema degli Stati nazionali è finito e che le imprese multinazionali sono i protagonisti degli affari del mondo.
Il denaro è la misura di tutto.
Il denaro, oggi, è la misura di ogni cosa. Si può prendere come inizio di questa era il 1776, con la pubblicazione di The Wealth of Nations[4] di Adam Smith, che ha mostrato la nascita del capitalismo moderno. Il mercato — anziché l’impegno del governo o le prescrizioni religiose — ha iniziato a guidare sempre più lo sviluppo delle attività economiche. Smith ha sottolineato l’importanza del fatto che l’individuo fosse lasciato libero di perseguire i propri interessi. La ricerca del proprio interesse spinge la gente, come se esistesse una «mano invisibile», ad utilizzare l’intelligenza che massimizza lo sforzo produttivo e quindi il bene pubblico. Perciò il libero mercato — non il governo — è ciò che meglio alloca le risorse e meglio promuove il bene pubblico. Il governo dovrebbe essere il più piccolo possibile, con responsabilità limitate. Così l’individuo sarebbe lasciato libero di massimizzare i propri introiti e di determinare come spenderli. Questa è oggi la filosofia economica più diffusa.
Contemporaneamente, con il denaro come misura di ogni cosa, l’identità nazionale cessa di essere così importante — eccetto nei casi in cui può essere mercificata, come nel caso delle imprese che traggono vantaggio dal sostegno di squadre sportive locali o nazionali. Le persone sono soprattutto consumatori o aspiranti consumatori. La politica ed il patriottismo non sono altrettanto allettanti quanto i vestiti, la musica o la tecnologia all’ultima moda. Sono consumatori, piuttosto che cittadini. E’ la loro scelta. Hanno la libertà di scegliere.
La decadenza del potere dei governi nazionali.
I governi occidentali hanno ridotto per diversi anni il loro ruolo nella vita economica dei loro paesi — ed il vuoto è stato riempito dalle imprese multinazionali. Il XX secolo ha visto l’ascesa e la caduta del governo. Il secolo è iniziato con un limitato coinvolgimento del governo nell’economia. La grande depressione degli anni ‘30 e poi la seconda guerra mondiale hanno portato ad un intervento molto maggiore del governo nell’economia come parte della «rivoluzione keynesiana».
Il processo di ritiro dalla rivoluzione keynesiana ebbe inizio nella seconda parte degli anni ’70. La biografia di John Maynard Keynes in tre volumi di Robert Skidelsky registra l’ascesa dell’economia keynesiana e quindi nota, alla fine del terzo volume, l’inizio del ritiro dal pensiero keynesiano. Nel 1976 il Primo Ministro laburista inglese, James Callaghan, annunciò la fine di questa era: «L’opzione di spendere per uscire dalla recessione non esiste più».[5] Il processo fu molto accelerato dal leader conservatore Margaret Thatcher, eletta per la prima volta nel 1979, ed è stato proseguito da tutti i suoi successori. Tanto per sottolineare l’irrilevanza dell’etichetta partitica, queste politiche sono state introdotte soprattutto da governi conservatori negli USA (Reagan) e nel Regno Unito (Thatcher) e da governi laburisti in Australia e Nuova Zelanda.
Le imprese multinazionali hanno eroso la nozione di economia nazionale; ormai c’è solo un’economia globale. Kenichi Ohmae, consulente d’affari giapponese, ha coniato un nuovo termine: l’Economia Inter-Connessa (Inter-Linked Economy, ILE) della Triade (Stati Uniti, Europa e Giappone), alla quale si sono aggiunte le «tigri» asiatiche (come Taiwan, Hong Kong, e Singapore).[6] L’emergere dell’ILE ha creato molta confusione, soprattutto tra coloro che sono abituati ad avere a che fare con politiche economiche basate su statistiche economiche convenzionali che confrontano un paese con l’altro. Le loro teorie non funzionano più. Per esempio se un governo riduce la disponibilità di denaro aumentando il tasso di sconto, possono arrivare prestiti dall’estero che rendono la politica monetaria del paese praticamente priva di senso, perché fondi più a buon mercato arrivano da qualche altra parte dell’ILE. A tutti gli effetti, l’ILE ha reso obsoleti i tradizionali strumenti dei banchieri centrali — il tasso di sconto e la disponibilità di denaro.
Queste tendenze aiutano a spiegare la scarsa partecipazione elettorale nelle elezioni dei paesi occidentali: i votanti pensano che le elezioni diventino progressivamente irrilevanti. Un partito può entrare in carica — ma non necessariamente conquistare il potere. Questo potere è posseduto altrove.
Le multinazionali governano il mondo.
C’è un ampio accordo tra autori di diversi orientamenti sull’esistenza di un crescente potere delle multinazionali. Il disaccordo sta nella valutazione se questa tendenza debba essere la benvenuta. Da una parte, il titolo di questo paragrafo viene dal best-seller di David Korten When Corporations Rule the World.[7] Egli vede le multinazionali come una forza sinistra, che erode le culture locali, incoraggia il materialismo, e si preoccupa solo di chi ha denaro. Un altro critico di lunga data del potere delle multinazionali è Richard Carnet del Washington DC Institute of Policy Studies,[8] che è preoccupato del potere delle multinazionali di influenzare le decisioni dei governi a proprio beneficio anziché a beneficio dei cittadini.
Dall’altra parte, alcuni autori hanno sostenuto che il processo nel suo insieme è positivo. Una marea montante solleva tutte le imbarcazioni. Kenichi Ohmae vede il mondo senza confini, con i confini nazionali semplicemente come «illusioni cartografiche» e con molte opportunità per chi vuol coglierle.[9] Contemporaneamente, il giornalista Thomas Friedman del New York Times ha scritto di un mondo sul modello dell’efficiente fabbrica di automobili Lexus, che incarna il prototipo dei fiorenti mercati globali, con le sue istituzioni finanziarie e le tecnologie informatiche grazie alle quali le persone perseguono standard di vita superiori; mentre l’«ulivo» rappresenta le radici tradizionali e la casa natale di una persona.[10] Friedman auspica un’era in cui il mondo possa garantire al tempo stesso le multinazionali, i consumatori e il fiorire della democrazia. E’ sicuro che gli interessi dell’«ulivo» possano essere preservati in un’epoca di rapida modernizzazione.
L’economia capitalista moderna crea più opportunità per un maggior numero di persone rispetto a qualsiasi altro sistema economico. Questo sistema si autoalimenta, in modo che più ricchezza crea a sua volta maggior ricchezza. La disponibilità di un bene crea la sua stessa domanda, nella misura in cui ai consumatori vengono presentati beni e servizi che prima non immaginavano neppure ma senza i quali oggi non potrebbero vivere.[11] Questa ricchezza trabocca poi verso altre aree, dove la crescita economica può così cominciare. A differenza dei nostri antenati, ci aspettiamo che le cose cambino e ci aspettiamo un miglior standard di vita (la «rivoluzione delle aspettative crescenti»). Questo atteggiamento mentale sta ora prendendo piede in paesi al di fuori dal mondo occidentale e quindi possiamo aspettarci che il XXI secolo sia il secolo della più alta crescita economica per il più gran numero di persone. E questo sarà ottenuto attraverso imprese multinazionali anziché sulla base di indicazioni di ministeri.
Non solo la globalizzazione è positiva per la gente, ma riduce anche il rischio di conflitti internazionali. Perché mai combattere contro persone che potrebbero essere vostri clienti? Al giorno d’oggi i conflitti internazionali tra paesi con libero mercato sono molto rari. In modo più colorito, i paesi che hanno i fast-food di McDonald’s non si combattono fra di loro: «la teoria degli archi dorati nella prevenzione dei conflitti».[12] Non c’è niente di speciale nel fast-food in quanto tale. Ma la sua vendita in un paese indica che il governo di questo paese crede nel libero commercio e che i cittadini sono troppo impegnati a godersi la vita per mantenere vecchi feudi. Così, Earth Inc. si basa su di una crescente coesione sociale globale e contemporaneamente contribuisce ad essa. Crea una spirale virtuosa.
4. Lo stato selvaggio.
I precedenti scenari sono tutti troppo ottimistici. Hanno puntato troppo l’attenzione sull’ordine, anziché sul disordine. Ci sono nel mondo molte fonti di disordine. Questo scenario si basa sia sul continuo declino dello Stato nazionale sia sul declino della coesione sociale internazionale, per cui ogni Stato nazionale dovrà fare del suo meglio con ciò che ha, perché non potrà contare sull’assistenza di nessun altro.
Il denaro innanzi tutto.
Le imprese multinazionali non sono una forza rivolta al bene. Sono motivate esclusivamente dal denaro. Sono sul campo per far soldi per i loro proprietari/azionisti, non per migliorare il mondo. Di fatto, non devono rendere conto a nessuno (nemmeno ai loro azionisti, molti dei quali sono fondi pensione interessati esclusivamente al tasso di rendimento e non a come viene ottenuto). Le imprese non hanno né lealismi né lealtà. Così possono spostare la produzione o i centri di servizi da un paese all’altro alla ricerca della miglior resa. Possono anche mettere un governo contro l’altro in una gara d’asta per riuscire ad attrarre una multinazionale ad insediarsi nel proprio paese. Così ottengono «zone di esportazione» speciali, esenzioni dalle regole sul lavoro e sull’ambiente e trattamenti fiscali favorevoli. Intanto la Cina sta andando incontro alla più grande rivoluzione industriale della storia mondiale. I suoi lavoratori sottopagati producono beni a buon mercato che inondano i mercati esteri, minando il costo della produzione di beni in questi paesi sviluppati.
Siccome le multinazionali sono mobili, hanno creato una gara al ribasso. I fabbricanti esplorano il mondo — la singola economia senza confini — alla ricerca di maggiori guadagni sugli investimenti spostando le loro catene di montaggio in paesi a bassi salari. La globalizzazione della produzione industriale ha come risultato un eccesso di offerta di beni e di lavoro, che a sua volta esercita una pressione verso il basso sui prezzi e sui salari.
Le multinazionali si muovono anche alla ricerca di regimi a bassa pressione fiscale e così ai governi vengono a mancare i fondi per erogare servizi. Non c’è solamente la semplice «rivolta di chi paga le tasse» da parte degli individui, c’è anche una resistenza delle imprese a pagare le tasse. Tutto questo eccesso di denaro nelle mani di individui e di imprese ha contribuito a finanziare, nel corso degli ultimi tre decenni o giù di lì, una vasta espansione dei consumatori, ma ciò significa che vi è carenza di servizi essenziali e di infrastrutture.
«L’anarchia prossima ventura».
Questa frase viene da un articolo del 1994 di Robert Kaplan, che aveva visitato alcuni Stati in via di fallimento, come la Sierra Leone. Kaplan parla di «evanescenza del governo centrale, crescita di poteri tribali e regionali, diffusione incontrollata di malattie e di crescente penetrazione della guerra».[13] Il sistema dello Stato nazionale non necessariamente riesce a fronteggiare bene i problemi. Quanti di noi vivono nei paesi occidentali sviluppati non dovrebbero dare per scontato che quanto si vede qui sia quanto si può vedere nel resto del mondo. Un mondo costruito sull’immagine dei McDonald’s e della Coca Cola non è necessariamente un mondo sicuro per la democrazia e per la protezione dei diritti umani. Non dobbiamo presumere che il fatto di consumare prodotti occidentali porti inevitabilmente alla crescita della democrazia.
Mentre si parla molto bene dei paesi di nuova industrializzazione (Newly Industrialized Countries, NICs) soprattutto dell’Asia orientale, molti paesi in via di sviluppo non hanno raggiunto gli obiettivi indicati nei Development Decades dell’ONU, iniziati più di quarant’anni fa. Anzi, in alcuni paesi africani la gente stava economicamente meglio sotto i governanti coloniali europei. Tutte queste situazioni sconsiglieranno le imprese multinazionali dal mettere a rischio in questi paesi i loro investimenti e il loro personale straniero. Di conseguenza, alcuni dei paesi attualmente poveri cadranno in una povertà ancora maggiore e nell’oscurità.
Per di più c’è un aumento degli «Stati falliti». La Somalia è andata avanti per circa vent’anni senza un governo; l’Afghanistan ha avuto un governo solo grazie ad un intervento internazionale alla fine del 2001 (e non è chiaro quanto durerà, anzi, la prospettiva è più quella di signori della guerra e di banditi che controllano dei feudi). Il mondo sta scivolando indietro verso un’era pre-westphaliana. Il sistema degli Stati nazionali ha meno di 500 anni. Non c’è legge dell’universo che dica che debba esistere per sempre. Il XXI secolo potrebbe benissimo vederlo scivolare nel caos.
Aumentata riluttanza ad intervenire.
Una minore coesione internazionale significa che gli Stati sono riluttanti ad intervenire negli affari di altri paesi. Ciò può essere visto in tre modi: come il fallimento dell’ONU nell’organizzare operazioni, come la mancanza di volontà politica da parte dei governi nel farsi coinvolgere oppure come la mancanza di sostegno verso queste operazioni da parte dell’opinione pubblica nei paesi sviluppati.
Le Nazioni Unite erano nate per impedire che ricomparisse Hitler: una gravissima minaccia alla pace e alla sicurezza internazionali contro cui si erano mobilitati molti altri paesi. Non sono state concepite per precipitarsi da un focolaio di disordine all’altro. Non riescono a far fronte a tutti i conflitti attualmente in corso — per non parlare di quelli che probabilmente scoppieranno in futuro. Per esempio, il generale Sir Michael Rose, uno degli ufficiali dell’esercito inglese con maggior esperienza in guerre di bassa intensità, ha scritto un resoconto del caos delle operazioni delle Nazioni Unite in Bosnia a metà degli anni Novanta.[14] Perfino il nome della forza delle Nazioni Unite era ingannevole: «UNPROFOR: Forza di protezione delle Nazioni Unite». Essa ha creato nell’opinione pubblica aspettative ben al di sopra delle effettive capacità di qualsiasi missione di pace. Questo è solo il sintomo dell’incapacità dell’ONU di stare al passo del cambiamento di natura dello stato di guerra (anche se non si può dire che ci siano governi che stanno facendo meglio). Le operazioni delle Nazioni Unite nei Balcani, che continuano, non hanno fatto crescere nei paesi occidentali la voglia di essere coinvolti in missioni di pace: semmai, l’hanno fatta diminuire perché sembra di aver ottenuto ben pochi risultati di lungo periodo. Come ha sostenuto lo scrittore inglese William Shawcross nella sua rassegna delle operazioni durante gli anni Novanta, non c’è alcuna chiara formula per determinare quando le Nazioni Unite debbano intervenire in una crisi e come.[15]
C’è il problema di fondo che, se un paese crolla e l’ONU manda una forza di pace e personale umanitario, si pone il quesito se queste sono in grado di ricostruire un sistema di governance. Tale sistema sarebbe basato sullo Stato nazionale che, soprattutto in Africa, ha, a dir poco, radici superficiali. Perciò, anche se le Nazioni Unite creassero un’operazione militare e civile perfetta (e finora non l’hanno mai fatto), non potrebbero imporre un sistema di Stato nazionale stabile in un paese con tradizioni praticamente inesistenti sotto questo profilo. Sarà interessante vedere come il governo creato in Afghanistan nel dicembre 2001 riuscirà ad andare avanti. Gli auspici non sono buoni. Forse l’Africa sarà il primo «continente fallito».[16] Il fallimento della comunità internazionale in Ruanda è sintomatico di come essa stia complessivamente trascurando l’Africa di fronte ai suoi problemi, apparentemente immutabili.
Infine, c’è il ruolo dell’opinione pubblica nei paesi sviluppati. Forse l’idea di «villaggio globale» (coniata da Marshall McLuhan più di trent’anni fa) aveva un’incrinatura. Egli aveva ragione ad affermare che l’attuale rivoluzione delle comunicazioni, che stava allora prendendo l’avvio, avrebbe permesso alla gente di essere più informata sul resto del mondo, cosicché avrebbe avuto l’impressione di vivere tutti in un unico grande villaggio. Ma la ventata di notizie — soprattutto di cattive notizie — è così travolgente che la gente non se la sente di aiutare i propri «vicini». Dando per scontato che il mondo si avvii verso maggiori problemi (come una crisi economica globale) le popolazioni occidentali sosterranno che «la carità va fatta a casa». Non vorranno che il loro denaro venga speso all’estero quando ci sono tanti problemi da affrontare in patria (come disoccupazione, criminalità e crisi della famiglia). Non saranno d’accordo che i loro governi diano asilo a tanta gente in fuga dai propri paesi in cerca di una vita migliore.
Conclusione
Per concludere, il futuro del pianeta, in termini di futuro dello Stato nazionale, verrà a trovarsi entro una di queste visioni. La sfida è di stimolare un maggior dibattito sul «grande quadro» della governance mondiale.
Keith Suter
***
L’articolo di Keith Suter su «Il futuro dello Stato nazionale nell’era della globalizzazione» è la descrizione obiettiva, il più asettica possibile, di quattro possibili scenari che potrebbero svilupparsi in un prossimo futuro come risultato della somma algebrica delle relative spinte di due opposte forze che agiscono nel mondo in questo periodo di transizione: da un lato la persistenza della divisione dell’umanità in stati nazionali sovrani e dall’altro la tendenza verso una crescente interdipendenza delle relazioni umane. I problemi sollevati da Suter stanno al centro del dibattito federalista e ci aspettiamo che rappresentino uno stimolo per i nostri lettori.
Tuttavia, sebbene una valutazione di questo tipo rappresenti un passo preliminare necessario per ogni azione, essa solleva diversi problemi per chi ha scelto di agire politicamente al fine di contribuire all’affermazione in tutto il mondo dei valori della pace, della democrazia, della libertà e della giustizia sociale (e probabilmente per ogni essere umano, poiché anche il rifiuto dell’azione politica è in realtà una scelta politica, cioè l’accettazione di essere un oggetto e non un attore — secondario fin che si vuole, ma un attore — dell’evoluzione umana).
In questa prospettiva, il primo problema è un problema di scelta: i quattro scenari che ci sono proposti non sono equivalenti rispetto a questi valori. E non è difficile immaginare che la scelta cadrebbe sullo scenario «Stato mondiale» di Suter. Ma preferire uno scenario ad un altro non lo rende più probabile.
Perciò dobbiamo chiederci: questi scenari sono egualmente probabili? In prospettiva storica, gli effetti del modo scientifico di produzione stanno spingendo irreversibilmente verso una interdipendenza crescente delle attività umane e finiranno, nel lungo periodo, col creare le condizioni per un governo mondiale (lo scenario «Stato mondiale»). Per di più, negli ultimi decenni del secolo scorso e all’inizio di questo, abbiamo vissuto in una situazione molto simile allo scenario «Earth Inc.» di Suter. Ma l’attuale crisi finanziaria ed economica che è drammaticamente dilagata sul mondo intero offre una chiara misura dell’ampiezza dell’aumento dell’interdipendenza umana e al tempo stesso della necessità di regole condivise a livello mondiale che garantiscano il quadro entro cui il mercato mondiale (e le imprese multinazionali) possa funzionare correttamente. Sebbene le reazioni alla crisi siano finora limitate ai singoli Stati, la spinta verso una cooperazione internazionale per limitare i danni si manifesta fortemente sia tra i governi sia nell’opinione pubblica. Indubbiamente le misure finora proposte non vanno al di là della cooperazione intergovernativa e non intaccano perciò la sovranità degli Stati, tuttavia l’idea della necessità di qualche tipo di governo mondiale si sta facendo strada nell’opinione pubblica e si riflette nei mezzi di comunicazione di massa (l’esempio più recente è probabilmente l’articolo di Gideon Rachman «E adesso, un governo mondiale» sul New York Times dell’8 dicembre 2008). Tuttavia, come sottolinea Suter, questa tendenza si scontra contro l’eredità del vecchio modo di produrre — la sovranità dello Stato — e il processo del suo superamento sarà lungo.
Nel frattempo, incombono sul nostro pianeta drammatiche minacce alla sopravvivenza stessa del genere umano, derivate dallo stesso progresso scientifico e tecnologico che spinge verso l’interdipendenza umana: l’enorme potere delle armi di distruzione di massa, l’approfondirsi delle divario nella ricchezza tra il Nord e il Sud del mondo (la cui esistenza è esasperata dalla rete mondiale di telecomunicazioni) e l’inquinamento dell’aria e delle acque della Terra, con i cambiamenti climatici che ne derivano. Queste minacce non possono riguardare solo una parte del genere umano, perché di isole «felici» protette da esse non ne esistono più, né possono essere create (come alcuni politici si illudono di poter fare). La coscienza di questi pericoli rappresenta una forza aggiuntiva che spinge verso un governo mondiale e rinforza la necessità di un impegno politico per creare le condizioni del loro controllo al solo livello a cui può essere efficace, cioè al livello del pianeta.
D’altra parte, a breve e medio termine, la previsione dell’evoluzione della situazione mondiale è molto più incerta, perchè il processo dell’emancipazione umana non procede in linea retta, ma può subire arresti improvvisi, deviazioni o perfino regredire per lunghi periodi in conseguenza del caso e della volontà umana.
Per quanti hanno deciso di agire politicamente con l’obiettivo di affermare i valori della pace, della democrazia, della libertà e della giustizia sociale, l’esistenza della tendenza di fondo verso l’interdipendenza umana significa che esistono le condizioni storiche per una battaglia in questa direzione e che è possibile identificare una strategia per contribuire al progresso verso questi obiettivi. In questa prospettiva, l’esperienza dell’unificazione europea è indubbiamente l’esperimento più avanzato nella direzione di cercare di superare le sovranità nazionali e di stabilire la democrazia internazionale. Probabilmente, è a livello europeo che si giocherà la partita finale tra la persistenza della sovranità nazionale assoluta e la creazione della democrazia internazionale (in altre parole, la creazione di uno Stato federale). L’attuale Unione europea rimane entro lo scenario dello «stato stazionario» o della «Earth Inc.» (sia pure al loro limite superiore) e le condizioni socio-politiche complessive presenti nei suoi 27 membri non sono mature per il salto finale verso un’organizzazione federale. Pur tuttavia è possibile che la spinta verso un governo sovrannazionale riesca a farsi strada in una più ristretta avanguardia di Stati (in ipotesi quelli che hanno dato inizio al processo di integrazione più di cinquant’anni fa), creando un primo nucleo federale che indubbiamente eserciterebbe una potente attrazione sui paesi vicini e costituirebbe uno straordinario esempio per il mondo intero. Se questo esperimento avesse successo, lo «Stato mondiale» di Suter diventerebbe una prospettiva molto più vicina.
Il Federalista
[1] David Adams (Editor), The Seville Statement on Violence: Preparing the Ground for the Construction of Peace, Parigi, UNESCO, 1989.
[2] Citato da: Andrina Stiles, The Unification of Italy, Londra, Hodder & Stoughton, 2001, p. 91.
[4] Adam Smith, The Wealth of Nations, Londra, Penguin, 1983 (1776).
[5] Citato da: Robert Skidelsky, John Maynard Keynes: Fighting for Britain, Londra, Macmillan, 2000, p. 508.
[6] Kenichi Ohmae, The Borderless World, London, Collins, 1990, p. xi.
[7] David Korten, When Corporations Rule the World, Londra, Earthscan, 1996.
[8] Per esempio, Richard Carnet and John Cavanagh, Global Dreams, New York, Simon & Schuster, 1994.
[9] Kenichi Ohmae, The Invisibile Continent, Londra, Nicholas Brealey, 2001.
[10] Thomas Freidman, The Lexus and the Olive Tree, New York, Farrar, Straus, Giroux, 1999, pp. 26-8.
[11] Si veda: Paul Zane Pilzer, Unlimited Wealth, New York, Crown, 1994.
[13] Robert Kaplan, «The coming Anarchy», The Atlantic Monthly, febbraio 1994, p. 46.
[14] Sir Michael Rose, Fighting Peace, Londra, Harvill, 1998.
[15] William Shawcross, Deliver Us From Evil: Peacekeepers, Warlords and a World of Endless Conflict, New York, Simon & Schuster, 2000.
[16] Si veda: Keith Suter, «The Lost Continent: Has Africa Run Out of Hope?» The Age (Melburne), 27 gennaio 2001, p. 11.