Anno LI, 2009, Numero 3, Pagina 163
RIFLESSIONI SULL’ ENCICLICA CARITAS IN VERITATE
Questo intervento si propone come spunto di riflessione, alla luce di alcune categorie elaborate nell’ambito del pensiero federalista, sulla concezione della politica così come viene formulata dalla Dottrina sociale della Chiesa cattolica, che l’enciclica papale Caritas in Veritate ha contribuito recentemente ad ampliare.
Una simile proposta di riflessione sembra doverosa per due considerazioni. Innanzitutto per l’ampiezza dell’attività esercitata dalla Chiesa cattolica, un’istituzione religiosa tanto antica, con i suoi venti secoli di storia, quanto presente in tutto il globo. Nel corso della sua esistenza la Chiesa di Roma ha sempre avuto una grande influenza sulla sfera politica, e il cristianesimo ha inciso profondamente nella realtà storica e sociale, e continua a farlo anche nel XXI secolo, pur così secolarizzato e sordo alla spiritualità.[1] La logica che guida la Chiesa è però differente da quella che domina la politica. La vita della Chiesa, infatti, è incentrata sulla pastorale, ossia sulla ricerca della possibilità di coniugare la vita religiosa e spirituale con il comportamento sociale e personale.[2] In quanto tale la «pastoralità» rappresenta il cuore dell’impegno della struttura ecclesiastica, rispetto al quale tutte le attività specifiche, compresa la politica, sono subordinate: il compito della Chiesa, attraverso la Dottrina sociale, è quello di rendere concreto l’insegnamento cristiano nella dimensione sociale, economica e politica, all’interno di una propria visione di quello che il Concilio Vaticano II ha chiamato il «mondo moderno».
In secondo luogo, una riflessione sulla Dottrina sociale della Chiesa è importante perché il messaggio evangelico è sempre stato un potente fattore di unità tra i popoli. Albertini lo ha richiamato nella sua definizione di «supernazionalità spontanea»: prima dell’avvento dello Stato nazionale l’ideale di res publica cristiana, per lo meno in Europa, aveva fatto sì che le relazioni fra uomini di diversa cultura, nazione e lingua fossero possibili grazie all’idea di appartenenza ad una «società» in cui gli elementi unitari prevalevano su quelli divergenti.
Nell’enciclica sociale Caritas in Veritate la visione che la Chiesa di Roma ha elaborato del «mondo moderno» in ambito economico, sociale e politico si delinea in modo molto chiaro: la lettera papale offre lo spunto per analizzare il livello di sensibilità nella gerarchia ecclesiastica sulle questioni legate al modello di sviluppo in atto nel mondo e per valutare quanto l’attività della Chiesa possa essere, nei giorni nostri, un fattore reale di promozione dell’unità del genere umano o, al contrario, di sostanziale acquiescenza allo stato di divisione cui ancora è condannato.
Innanzitutto la Caritas in Veritate sottolinea i gravi problemi legati al fatto che l’umanità subisce, invece di governare, il processo di globalizzazione dell’economia. All’interno del corpus della Dottrina sociale della Chiesa, essa si presenta quindi come la naturale prosecuzione della precedente enciclica sociale di papa Paolo VI, la Populorum progressio, che per prima aveva denunciato lo scandalo di uno sviluppo dell’umanità iniquo e distorto. Benedetto XVI, a distanza di quaranta anni, si propone di aggiornare, alla luce dell’attuale quadro storico-sociale, il pensiero della Chiesa nei suoi aspetti religiosi, culturali, economici, sociali e politici.
L’analisi contenuta nell’enciclica si concentra sui principali effetti distortivi provocati dal processo di globalizzazione in campo economico e sociale. La crisi finanziaria del settembre 2008 ha messo in luce tutte le carenze di un modello che, pur avendo permesso «la crescita della ricchezza mondiale in termini assoluti, ha, al tempo stesso, aumentato le disparità sia tra paesi ricchi e paesi poveri sia all’interno dei singoli Stati. Continua ‘lo scandalo di disuguaglianze clamorose’. La corruzione e l’illegalità sono purtroppo presenti sia nel comportamento di soggetti economici e politici dei paesi ricchi, vecchi e nuovi, sia negli stessi paesi poveri».[3] In molti paesi poveri permane, e rischia di accentuarsi, l’estrema insicurezza di vita dovuta alla fame e alla sete.[4]
Dal punto di vista sociale, «i sistemi di protezione e previdenza, faticano e potrebbero faticare ancor più in futuro a perseguire i loro obiettivi di vera giustizia sociale entro un quadro di forze profondamente mutato. Il mercato diventato globale ha stimolato anzitutto, da parte dei paesi ricchi, la ricerca di aree dove delocalizzare le produzioni a basso costo al fine di ridurre i prezzi di molti beni. Questi processi hanno comportato la riduzione delle reti di sicurezza sociale in cambio della ricerca di maggiori vantaggi competitivi nel mercato globale, con grave pericolo per i diritti dei lavoratori e per i diritti dell’uomo».[5] Anche il fenomeno delle crescenti migrazioni è una conseguenza di tali processi: si tratta di un fenomeno che impressiona per le dimensioni che sta assumendo e per le problematiche che solleva.[6] Altro problema, entrato nel novero delle emergenze planetarie, è il rischio della catastrofe ecologica: «il tema dello sviluppo è oggi fortemente collegato anche ai doveri che nascono dal rapporto dell’uomo con l’ambiente naturale».[7]
Nell’enciclica si segnala anche l’attenzione per la crisi della Stato nazionale: «esso si trova nella situazione di dover far fronte alle limitazioni che alla sua sovranità frappone il nuovo contesto economico-commerciale e finanziario internazionale».[8] Anche se «oggi, facendo tesoro della lezione che ci viene dalla crisi economica in atto che vede i pubblici poteri dello stato impegnati direttamente a correggere errori e disfunzioni, sembra più realistica una rinnovata valutazione del loro ruolo e del loro potere, che vanno saggiamente riconsiderati e rivalutati in modo che siano in grado, anche attraverso nuove modalità di esercizio, di far fronte alle sfide del mondo odierno. Con un meglio calibrato ruolo dei pubblici poteri, è prevedibile che si rafforzino quelle nuove forme di partecipazione alla politica nazionale e internazionale che si realizzano attraverso l’azione delle Organizzazioni operanti nella società civile».[9]
La visione della Chiesa del«mondo moderno» e delle sue problematiche si ferma però a questi dati empirici: «La Chiesa non ha soluzioni tecniche da offrire e non pretende minimamente d’intromettersi nella politica degli Stati. Ha però una missione di verità da compiere, in ogni tempo ed evenienza, per una società a misura d’uomo».[10]
E’ tuttavia evidente che la Caritas in Veritate affronta questioni che rientrano, di fatto, nella sfera dell’azione politica, la cui natura è effettivamente diversa da quella della sfera pastorale propria dell’azione della Chiesa. Pertanto è fondamentale cercare di chiarire la distinzione tra il senso dell’impegno politico e quello religioso, che invece nella Dottrina sociale della Chiesa spesso si sovrappongono.
Il problema principale della Chiesa, in questo ambito, è la profonda difficoltà a misurarsi con la natura della politica così come si è sviluppata a partire dalla Rivoluzione francese e dalla graduale affermazione dello Stato democratico fondato sul principio della sovranità popolare. Nei secoli in cui la forma di potere dominante in Europa era la monarchia, la Chiesa esercitava una profonda influenza sulle modalità di esercizio del potere: il punto di vista in base al quale valutare la legittimità delle scelte politiche del monarca si fondava sul principio della Carità cristiana, che indicava il criterio dell’attenzione ai bisogni del popolo. Il contrappeso al potere assoluto esercitato dai regnanti nel corso della loro vita terrena, secondo la filosofia cristiana, sarebbe stato il Divino giudizio nell’Aldilà.
Con la Rivoluzione francese il cambiamento del quadro è radicale e la legittimazione religiosa del potere politico cade, sostituita dal principio della sovranità popolare. Inoltre, da questo momento la Chiesa vede progressivamente restringersi la sua influenza sulla società e subisce sia l’espropriazione dei propri beni sia l’esclusione da quegli ambiti sociali, come l’educazione e la sanità, che per secoli erano stati gestiti dal clero e dagli ordini religiosi. La frattura con il mondo laico fu così grave, profonda e duratura, che solo nel XX secolo, con il Concilio Vaticano II, ci fu una presa d’atto della necessità di dialogare con il mondo moderno per rimodellare l’azione pastorale nei confronti di una società sempre più complessa e interconnessa; ma l’elaborazione del modello politico di riferimento per quel dialogo rimase ancorata ad una visione ancora impregnata di logiche che vedono i singoli individui come i detentori reali del potere decisionale e non riescono a valutare la logica specifica delle istituzioni in cui essi operano.
I vizi di fondo della Dottrina sociale della Chiesa che impediscono di confrontarsi in modo costruttivo con la questione della politica (vizi che si ritrovano anche in questa ultima enciclica papale) sembrano in particolare due. Il primo riguarda l’erroneo postulato che esista una differenza marcata tra corpo politico (o popolo) e Stato e che tra i due sussista un rapporto di anteriorità del primo nei confronti del secondo.[11] Il secondo errore riguarda il concetto moderno di sovranità, che la Chiesa interpreta come un processo di «pervertimento che fa credere allo Stato di essere un tutto, il tutto della società politica che di conseguenza assume sopra di sé l’esercizio delle funzioni e l’esecuzione dei compiti di solito pertinenti al corpo politico».[12] In questo modo vengono a mancare le categorie per comprendere le specificità della politica, che si chiarisce solo a partire dal concetto di Stato, il quale a sua volta si fonda proprio su questi due principi.
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La politica è quell’attività — come ricorda Albertini — incentrata, più che sul fare le cose, «sul potere di farle». Il suo fondamento è sempre la ricerca del consenso che, traducendosi in potere, permette di realizzare i progetti che si vogliono perseguire.[13] Porsi l’obiettivo di prendere decisioni che avvicinino la realizzazione del bene comune, quindi, non è ancora politica; quest’ultima è piuttosto l’arte di trasformare sia le virtù sia i vizi degli uomini in consenso (cioè in voto elettorale e in maggioranze parlamentari). Sia il concetto di bene comune, così come il relativo consenso che l’attua, non hanno però un’estensione universale ma dipendono sempre dal quadro in cui è organizzato il potere effettivo in grado di realizzare tale bene: questo quadro è lo Stato. Ciò implica il fatto che, nella misura in cui l’umanità è divisa in Stati chiusi entro confini che delimitano il territorio in cui è possibile imporre il diritto, la politica intesa come ricerca del consenso per realizzare il bene comune resta limitata nell’ambito nazionale. Nel quadro internazionale, invece, non esistendo nessun potere superiore ai singoli Stati, ciascun paese è impegnato esclusivamente a tutelare il proprio interesse, perseguendolo con ogni mezzo utile, inclusa la forza. Per questo, ciascun partito politico, da quello più conservatore a quello più progressista, nel corso della propria campagna elettorale e programma di governo cercherà sempre di porsi come il miglior interprete dell’interesse della nazione, e non di quello dell’umanità nel suo complesso. Quando poi sorge l’esigenza di risolvere problemi comuni a più Stati, o di promuovere diritti universali, diventa ancora più evidente che non esistono vere sedi internazionali di decisione, né strumenti per la formazione di una volontà comune.
La Dottrina sociale della Chiesa ha presente questa contraddizione tra i limiti strutturali dello Stato nazionale e l’esigenza di realizzare il bene comune universale. Per questo motivo fin dall’enciclica Pacem in terris di Papa Giovanni XXIII e dal Concilio Vaticano II, il Magistero della Chiesa propone la costituzione di una società politica mondiale sorretta da un Autorità politica mondiale. Anche nella Caritas in Veritate si legge: «Una simile Autorità dovrà essere regolata dal diritto, attenersi in modo coerente ai principi di sussidiarietà e di solidarietà, essere ordinata alla realizzazione del bene comune, impegnarsi nella realizzazione di un autentico sviluppo umano integrale ispirato ai valori della carità nella verità. Ovviamente, essa deve godere della facoltà di far rispettare dalle parti le proprie decisioni, come pure le misure coordinate adottate nei vari fori internazionali.[…]. Lo sviluppo integrale dei popoli e la collaborazione internazionale esigono che venga istituito un grado superiore di ordinamento internazionale di tipo sussidiario per il governo della globalizzazione».[14]
Ora, il fatto di non riuscire a pensare in termini di Stato e di rifiutare la specificità del potere politico, usando in alternativa i principi di Autorità, di sussidiarietà e di riconoscimento di diritti, impedisce alla Chiesa di offrire un’analisi in grado sia di comprendere realmente i rapporti di potere responsabili degli attuali squilibri (e su cui quindi bisogna intervenire), sia di proporre soluzioni effettive, che non possono non andare nel senso della creazione di un potere statuale universale. Infatti l’enciclica precisa anche: «è importante evitare fraintendimenti: non si vuol qui alludere alla costituzione di un super-Stato mondiale».[15]
Questo rifiuto, come già si diceva, nasce innanzitutto dall’incapacità della Chiesa di accettare e quindi di confrontarsi con i principi di sovranità e di popolo.
La sovranità è il potere di decidere in ultima istanza (vale a dire un potere cui nessun altro potere può impedire di prendere e di mettere in atto le proprie decisioni). Essa è la prerogativa fondamentale dello Stato che in questo modo può attenuare profondamente le differenze di potere tra i cittadini e tra i gruppi che esistono al suo interno e creare le condizioni perché la logica del diritto prevalga su quella della forza, realizzando quella condizione di uguale necessità che è presupposto della giustizia. Lo Stato, assicurando la realizzazione del valore della pace sociale, è il quadro all’interno del quale la politica può promuovere il bene comune e tutti gli altri valori sociali.
«L’idea di sovranità nacque nella storia politica europea con le monarchie assolute dell’inizio dell’età moderna. La monarchia assoluta, superando l’anarchia feudale, con i disordini e le violenze che l’avevano caratterizzata, ha infatti creato un legame nuovo tra il potere e i sudditi, e quindi dei sudditi tra di loro.[…]. Della caotica moltitudine medievale, composta da soggetti appartenenti a sfere diverse e intersecantisi, vincolati da lealismi contrastanti e in preda all’arbitrio di rapporti di potere incerti e mutevoli, essa ha fatto un popolo, dal quale ha ricevuto un sostegno consapevole».[16]
Le monarchie dell’Europa occidentale avevano giustificato l’uso di questo potere supremo e irresistibile sulla base dell’investitura divina delle loro persone. Con la Rivoluzione francese il titolare della sovranità diventa invece il popolo, che è il soggetto che non solo si dà le regole che definiscono la sua stessa identità, ma che fonda al tempo stesso sia la legittimità del potere (nella misura in cui il popolo presta il consenso alle istituzioni che esso stesso crea) sia lo Stato in quanto tale. Popolo e Stato sono infatti due entità inscindibili nella democrazia moderna, che si costituiscono vicendevolmente: «Uno Stato nasce quando un popolo lo vuole, così come un popolo nasce quando vuole uno Stato. In ultima analisi Stato e popolo sono la stessa cosa»: si tratta di «due polarità dello stesso fenomeno, anche se la polarità ‘popolo’ si manifesta con maggior evidenza nei momenti costituenti, mentre la polarità ‘Stato’ si manifesta con maggiore evidenza nei momenti normali».[17]
Detto in altri termini, la convivenza civile si fonda sulla condivisione, da parte degli ideali contraenti del patto sociale, di determinati valori che si incarnano nel quadro del potere statuale; in questo modo i valori prendono la forma innanzitutto di doveri (piuttosto che di diritti) in base ai quali ciascuno consente a sacrificare parte della propria libertà e a osservare imperativamente le regole (e le istituzioni).
Per questo motivo l’Autorità politica mondiale, se mai sorgerà, potrà realizzare gli obiettivi che papa Benedetto XVI ha indicato solo se sarà dotata dell’attributo della sovranità, ovvero del potere di decidere in ultima istanza, e quindi dovrà avere i caratteri di uno Stato. La verità è che dove non c’è sovranità non c’è Stato, dove non c’è Stato non c’è diritto, dove non c’è diritto c’è anarchia e nell’anarchia l’unica regola valida è quella del più forte, che è la negazione di tutti i valori della convivenza civile. A livello mondiale un tale potere sovrano potrà sorgere solo dal superamento della sovranità degli Stati nazionali che si uniranno per diventare poteri autonomi all’interno di uno Stato sovrano federale mondiale. E ciò accadrà quando il popolo federale con un atto di volontà costituente fonderà il nuovo Stato.
Invece, anche nell’enciclica Caritas in Veritate si crede che dall’interdipendenza globale possa nascere direttamente, anche se gradualmente, una comunità politica mondiale (o meglio, che possano nascere «poteri pubblici mondiali»). In tutta l’enciclica infatti traspare una visione meramente economica del processo di globalizzazione, che si accompagna all’idea che il mercato possa essere corretto («civilizzato») dalle perversioni del capitalismo disumano e dalla finanza speculativa grazie all’affermazione del principio di reciprocità, tramite l’ingresso nel mercato di imprese sociali, l’instaurazione di economie di comunione, il ruolo delle associazioni di cooperazione e di quelle no profit. Secondo i principali consulenti di papa Benedetto XVI, questo processo sarà reso possibile dall’istituzionalizzazione di «una nuova governance globale dell’economia, una sorta di seconda assemblea delle Nazioni Unite che dovrà essere poliarchica (in modo che il potere sia diviso e non monopolistico) e sussidiaria. In secondo luogo, è improrogabile la nascita di un Consiglio che si occupi non più di solo sicurezza militare, ma anche di sicurezza socio-economica».[18]
In questo modo la Dottrina sociale della Chiesa non coglie il fatto che il processo di globalizzazione non è meramente economico, ma riflette gli equilibri politici in atto nel mondo, e che quindi un mercato regolato in modo universalmente giusto esisterà quando verrà fondato un potere democratico universale, ossia uno Stato federale mondiale. Nel frattempo, sono i rapporti di forza tra gli Stati che determinano l’assetto di potere che, per quanto illegittimo e iniquo, garantisce l’ordine necessario al funzionamento del mercato.
Nell’ultimo ventennio gli Usa sono stati la potenza dominante: grazie all’indiscusso primato militare hanno garantito il quadro di ordine e sicurezza per la creazione di un mercato di dimensioni globali; hanno fornito la moneta di riferimento per gli scambi; hanno promosso la stipulazione di trattati multilaterali che facessero aprire le frontiere di tutti gli Stati ai movimenti di capitali finanziari, di manodopera e di merci creando le condizioni per la delocalizzazione dei centri di produzione; hanno guidato lo sviluppo tecnologico grazie al quale sono nate le forme di comunicazioni che hanno reso possibili gli scambi globali. Oggi, come dimostra la crisi finanziaria ed economica ancora in atto, il loro sistema di potere egemonico è messo in difficoltà dall’emergere di nuove potenze: la Cina, in particolare, ma anche la Russia, l’India e il Brasile; mentre la mancata realizzazione della Federazione europea continua a determinare un vuoto di potere e di responsabilità nella regione più ricca di risorse economiche, produttive e commerciali del mondo che aggrava ulteriormente le difficoltà legate alla nascita di un nuovo equilibrio multipolare.
Dal processo di globalizzazione, dunque, non potranno mai nascere spontaneamente una comunità politica internazionale o dei poteri pubblici. La questione è piuttosto quella di identificare che tipo di rapporti di potere a livello globale possono oggi favorire la stabilità e la cooperazione e soprattutto sostenere l’avvio di quel processo di superamento delle sovranità nazionali che è il solo che possa portare l’umanità alla pace e alla giustizia sociale. Invece, bisogna dire con dolore, malgrado la generosità degli scopi di Papa Benedetto XVI, la Caritas in Veritate orienta piuttosto gli uomini verso quei principi e quelle istituzioni — soprattutto organizzazioni internazionali e associazioni di volontariato — che hanno solo una funzione palliativa rispetto al vero problema, che è quello di un’umanità che subisce, invece di governarlo, il processo di globalizzazione.
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A fianco delle ragioni teoriche che ancora oggi mantengono la Chiesa legata ad una visione politica ed economica del «mondo moderno» che maschera i profondi squilibri di potere nel mondo e la via per sanarli, vi sono anche molteplici ragioni pratiche.
La principale tra esse risiede nella struttura stessa della Chiesa di Roma. «Il cattolicesimo è, per sua natura, una globalizzazione religiosa, articolata di fatto in Chiese nazionali, ma con una forte dimensione universalistica e unitaria a livello mondiale. Il papa è la figura che esprime la sopranazionalità del cattolicesimo, non suddito di nessuno Stato, non sottoposto a nessuna logica nazionale (…). La Chiesa non controlla una terra, se si eccettua la simbolica sovranità sul piccolissimo territorio dello Stato della Città del Vaticano (che le consente di essere Stato tra gli Stati)».[19] La dimensione sopranazionale e la sovranità sulla Città del Vaticano permette alla Chiesa di Roma di avere un orizzonte culturale universale, di essere la voce degli ultimi in innumerevoli occasioni, di elevarsi al di sopra di tutti i poteri politici del mondo e di rivolgere la parola «pace», «carità» e «fraternità» all’intera umanità senza escludere nessuno. Tuttavia la Chiesa «in ogni terra, anche la più cattolica, deve cooperare — o lottare — con gli altri poteri civili, forze sociali e culturali. In ogni terra (anche la più cattolica), la Chiesa non accetta di essere controllata dallo Stato».[20]
Al tempo stesso, anche se lo Stato non controlla la Chiesa, esso costituisce il quadro all’interno del quale la Chiesa di fatto opera e questo ha fatto sì che, nella pratica, l’orizzonte delle autorità ecclesiastiche fosse delimitato dalle frontiere nazionali. Troppo spesso la Chiesa e lo Stato si sono ritrovati legati l’uno all’altro. La Chiesa stessa ha coltivato i rapporti con i poteri pubblici allo scopo di recuperare quelle aree d’influenza (nell’educazione e nella sanità) che tradizionalmente le erano proprie. Anche se il compito della Chiesa è la pastoralità, che si fonda sulla capacità di influenzare le coscienze attraverso l’autorità religiosa e morale, essa si è spesso servita del «braccio secolare», ossia della forza del potere politico, per realizzare il proprio compito. La Chiesa cattolica non ha mai rinunciato a cercare, all’interno del quadro del potere statuale, il sostegno per esercitare la propria attività, e ha sempre appoggiato le forze politiche che le garantivano spazi ed influenza negli ambiti per lei più sensibili. In questo modo la Chiesa cattolica, negli Stati in cui il cattolicesimo è più influente, ha saputo con pragmatismo inserirsi nell’arena politica e incidere sugli ordinamenti di questi paesi attraverso lo strumento del concordato.[21] Allo stesso tempo gli Stati (ovviamente anche quelli in cui il cattolicesimo non costituisce la religione più diffusa), riconoscendo il valore sociale significativo esercitato dalle chiese, hanno affidato alle confessioni «politicamente influenti» specifici compiti, e i relativi finanziamenti, nella consapevolezza che in molti casi l’intervento statale diretto sarebbe stato più costoso e meno efficace. Inoltre le entità politiche che si sentono più deboli hanno avuto spesso la tentazione di appoggiarsi alla religione per legittimare se stesse sulla base di un presunto legame tra popolo e confessione.
Tutto ciò ha fatto sì, per quanto riguarda specificamente la Chiesa cattolica, che essa assumesse, di fatto, quello che Mario Albertini definiva il comportamento politico nazionale, adeguandosi al quadro di potere esistente; questo perché la sua attività pastorale (soprattutto laddove il cattolicesimo è più radicato), all’atto pratico non si è voluta fondare esclusivamente sull’autorità morale e religiosa della Chiesa, ma si è basata anche su una rendita di posizione garantita dallo Stato.
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In conclusione, la Chiesa cattolica — e con essa il cristianesimo — potranno tornare ad essere un potente fattore di unità del genere umano solo se la Chiesa saprà innanzitutto liberarsi della zavorra della commistione con il potere politico nazionale che la costringe ad una visione distorta della politica e dello Stato e le impedisce di cogliere appieno il dramma di una umanità condannata per ora a subire lo sviluppo piuttosto che a governarlo.
Solo libera dai pesi che mistificano la sua visione della realtà, la Chiesa potrà farsi promotrice di un messaggio di scandalo e testimonianza orientato al futuro e non limitarsi ad un messaggio onorato e lodato ma di fatto sterile.
Davide Negri
[1] Andrea Riccardi, La potenza profonda, tratto da i Classici di Limes, Roma, Gruppo Editoriale L’Espresso, 2009.
[2] Pio XII scrisse: «La Chiesa (…) non è un Impero, massime nel senso imperialistico che si suol dare ora a questa parola. Essa segna nel suo progresso e nella sua espansione un cammino inverso a quello dell’imperialismo moderno. Essa progredisce innanzitutto in profondità, poi in estensione e in ampiezza. Essa cerca primariamente l’uomo stesso; si studia di formare l’uomo, di modellare e perfezionare in lui la somiglianza divina. Il suo lavoro si compie nel fondo del cuore di ognuno, ma ha la sua ripercussione su tutta la durata della vita, su tutti i campi dell’attività di ciascuno. Con uomini così formati la Chiesa prepara alla società umana una base, sulla quale può riposare con sicurezza», in Potenza della Chiesa per la restaurazione del mondo, Discorso di Sua Santità Pio XII ai nuovi Cardinali, 20 febbraio 1946.
[3] Enciclica Caritas in Veritate, Roma, Libreria Editrice Vaticana, 2009, Par. 22.
[11] «Lo Stato è solo l’organo particolare che si dedica a problemi che riguardano il bene comune del corpo politico, ed è perciò l’organo politico più elevato, ma lo Stato è una parte non il tutto, e le sue funzioni sono solamente strumentali: è a cagione del corpo politico e del popolo che lo Stato cura l’ordine pubblico, mette in vigore le leggi e possiede il potere». J. Maritain, L’uomo e lo Stato,Milano, Marietti,2003.
[12] J. Maritain, op. cit. Secondo il filosofo francese (che fu tra i principali consulenti per la stesura della visione sulla politica del «mondo moderno» nel Concilio Vaticano II), il concetto di sovranità avrebbe inquinato la democrazia conducendola sulla via dell’assolutizzazione dello Stato che ebbe il suo acme nello Stato totalitario.
[13] In politica, «si può dichiarare la guerra, fare una legge, una politica estera, una politica economica soltanto se si dispone della maggioranza parlamentare, o della dittatura (…). In ogni situazione data ci saranno molti giuristi, molti militari e molti economisti capaci di formulare la soluzione di certi problemi, ma una sola maggioranza, o un solo dittatore in grado di imporla. Il carattere tipico della politica è pertanto il potere come attività autonoma», Mario Albertini, «La politica», in La politica e altri saggi, Milano, Giuffré, 1963.
[15] Anche secondo la filosofia politica di Maritain il problema dell’unificazione del genere umano non si deve porre nella prospettiva dello Stato e del governo mondiali perché ciò esclude la dimensione del corpo politico. Il super-Stato mondiale sarebbe uno Stato senza comunità politica (o popolo) che potrebbe convertirsi in dispotismo e semplicemente sovrapposto alla vita degli stati particolari.
[16] La citazione è tratta da «Appunti sulla Sovranità» di Francesco Rossolillo, in Il Federalista, XLII, 2001, n. 3, ora ripubblicato anche nella opera omnia di F. Rossolillo, Senso della storia e Azione politica, voll. 2, Bologna, Il Mulino, 2009.
[17] Ibidem.
[18] Dall’intervista della rivista mensile Club 3 (agosto 2009) a Stefano Zamagni, ritenuto tra i più ascoltati consulenti di Benedetto XVI nell’elaborazione dell’enciclica Caritas in Veritate.
[19] Sotto questo profilo la struttura della Chiesa di Roma è differente da quella delle altre chiese cristiane. «Queste spesso vivono sotto il controllo statale o integrate con lo Stato, come la Chiesa anglicana o quelle nordeuropee di tradizione luterana. Le Chiese ortodosse, secondo la tradizione bizantina, praticano la sintonia con lo Stato, sono autocefale, quindi in genere modellate sui confini nazionali. Tuttavia l’autocefalia ortodossa è stata criticata dal patriarcato ortodosso di Costantinopoli come filetismo, cioè nazionalismo eccessivo in spregio del carattere universale della Chiesa», Andrea Riccardi, op. cit.
[20] Andrea Riccardi, op.cit.
[21] Come la Chiesa cattolica, anche le Chiesa protestante, luterana, anglicana e ortodossa hanno agito in maniera simile, però utilizzando strumenti giuridici diversi.