Anno XXVII, 1985, Numero 2, Pagina 143
KEYNES E IL FEDERALISMO*
Il celebre economista Keynes era veramente un difensore della sovranità assoluta degli Stati nazionali, pronto a scegliere il protezionismo e l’autarchia se il libero scambio si fosse rivelato incompatibile con il perseguimento dell’equilibrio? Questa è la tesi sostenuta in un articolo recente de Il Federalista che tenta di contrapporre un Keynes impastoiato in pregiudizi arcaici a un Robbins presentato come un partigiano coerente del libero scambio internazionale; vale a dire di un liberalismo organizzato grazie ad una serie di istituzioni sovrannazionali di tipo federale.[1]
Il giudizio su Robbins si fonda su alcuni testi che provano inconfutabilmente il suo impegno federalista. Per contro, la critica a Maynard Keynes si basa solamente su qualche frase tolta da un articolo occasionale. Orbene, un esame un po’ più approfondito dei suoi scritti porta a sfumare considerevolmente il punto di vista presentato da Il Federalista. Ci si può domandare se è opportuno ritornare su questo argomento. Il direttore di questa rivista risponderà pubblicando o meno questo commento. Per quanto ci riguarda, pensiamo che sia utile correggere l’impressione che i lettori de Il Federalista si sono potuti formare a proposito di Keynes, per la seguente ragione: è certamente interessante comprendere come un liberale come Robbins sia stato condotto dalla sola forza della sua ragione a preconizzare una organizzazione federale del mondo. Ma il caso di Keynes è ancora più interessante. In effetti, se l’opera di Robbins non ha lasciato una traccia incancellabile,[2] Keynes resta a tutt’oggi il più grande economista del nostro secolo, colui che ha più influenzato e che continua ad influenzare sia i teorici che i governanti. Non è importante, del resto, sapere se colui che tutti riconoscono unanimemente come un uomo geniale — e i cui interessi erano inoltre indissolubilmente economici e politici —fosse stato realmente un difensore dello Stato nazionale? Infatti, se si è federalisti, non si può concepire che un individuo geniale, specialista del settore, possa essere su posizioni radicalmente opposte. Salvo pensare che non sia un genio, oppure che i federalisti si sbaglino grossolanamente.
1. È certo inutile cercare nell’opera del maestro di Cambridge una professione di fede federalista. La parola stessa di federazione non gli piace, non la impiega per così dire quasi mai e in quel caso solo come un tipo di soluzione estrema e poco credibile fra gli Stati esistenti.[3] È vero, d’altronde, che egli ha sostenuto il protezionismo, ma come un male minore, non come una panacea. Tutto ciò avveniva nel corso della grande crisi, in particolare nel 1931, quando la Gran Bretagna incontrava difficoltà a causa della sopravvalutazione della sua moneta. Keynes ha immediatamente criticato, in quegli anni, il ritorno della lira sterlina alla parità-oro prebellica,[4] ma invano. Orbene, Keynes non era solo un grande teorico, ma anche un grande pragmatico, desideroso di proporre delle soluzioni immediatamente applicabili tenendo in considerazione tutti i vincoli esistenti. Nel 1931, con una lira sterlina sopravvalutata ed una crisi dilagante, non era evidentemente possibile rilanciare l’economia britannica al di fuori della protezione di una «seria tariffa doganale».[5] Due anni più tardi, quando Keynes scrisse l’articolo citato nel precedente numero de Il Federalista, il suo paese aveva ricondotto il valore della sua moneta ad un livello più ragionevole, ma l’economia mondiale era divenuta talmente instabile che la libertà degli scambi non poteva più avere altro risultato che quello di aumentare le divergenze. Nella tempesta, è preferibile stare al sicuro in casa propria.
2. Keynes non è mai stato, neanche lontanamente, un militante federalista, tuttavia faceva del federalismo senza saperlo. In nessun luogo vi è qualche riferimento alla dottrina federalista e nonostante ciò, in un certo senso, tutta la sua opera tende verso la realizzazione di questa dottrina. Si sa, tuttavia, che egli ha fatto parte della delegazione britannica alla Conferenza di Parigi alla fine della prima guerra mondiale. In disaccordo totale con le condizioni imposte ai vinti, poiché previde che avrebbero portato in se stesse il germe di una futura guerra, diede le sue dimissioni prima della firma del Trattato di pace ed espresse le sue opinioni in un libro che ebbe un enorme successo, intitolato Le conseguenze economiche della pace. Ecco come, alla fine dell’opera, egli critica il patto istitutivo della Società delle nazioni: «Ma, purtroppo, l’articolo V dispone che ‘salvo che non sia altrimenti disposto in modo esplicito in questo Statuto o nelle clausole del presente Trattato, le decisioni dell’Assemblea o del Consiglio richiedono l’approvazione di tutti i membri della Lega rappresentati nell’adunanza’. Questa disposizione non riduce la Lega, per quanto si riferisce alla revisione del Trattato di pace, ad un consesso creato solamente per perdere tempo?».[6] Non ci si potrebbe esprimere meglio di così ed è almeno curioso constatare che, su questo punto, la situazione in Europa non è migliorata dal 1919!
Qualche pagina oltre, egli protesta contro la «balcanizzazione» provocata dai Trattati del 1919 e del 1920 in termini che non hanno nulla a che vedere con quelli di un inno nazionale. È in questa occasione che egli propone la creazione di una zona europea di libero scambio alla quale si fa allusione nell’articolo paragonando Robbins a Keynes. «Con la proposta Unione commerciale potrebbe essere evitata, in una certa misura, la perdita di organizzazione e di efficienza economica che altrimenti risulterebbe dalle innumerevoli frontiere politiche ora create fra nuovi Stati nazionali ingordi, gelosi, immaturi ed economicamente incompleti».[7]
3. La prima importante opera economica di Keynes è il Trattato della moneta del 1930. È molto più di un trattato nel senso tradizionale del termine (una trattazione esauriente della questione) perché contiene alcuni importanti avanzamenti teorici, in particolare sulla domanda di moneta. Esso include inoltre — cosa che ci interessa maggiormente — un progetto di riforma del Sistema monetario internazionale che merita qualche attenta considerazione.
Nel 1930, le principali potenze economiche (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Italia, ecc.) erano ancora in regime di gold-standard, ma Keynes, da parte sua, considerava la moneta-oro come un «barbaro retaggio». In effetti, il valore della moneta metallica dipendeva dalla quantità di metallo prezioso disponibile in rapporto agli altri beni; la scoperta di nuovi giacimenti creava inflazione e, inversamente, una crescita economica rapida senza aumenti paralleli dello stock di metallo causavano deflazione. Keynes considerava come maggiormente probabile la seconda eventualità; ma la deflazione non è auspicabile a causa dei trasferimenti di ricchezza che opera a vantaggio dei creditori. Di fronte a questa situazione, il Trattato ha due tipi di risposta. Secondo la prima — che si può definire «confederale» — le banche centrali devono accordarsi per modificare i coefficienti di riserva fra le monete non-metalliche e l’oro, affinché la massa monetaria possa accrescersi ad un ritmo sufficiente. La seconda risposta va molto più lontano; essa mira a niente di meno che alla creazione di una «Moneta bancaria sovrannazionale» emessa particolarmente in occasione dei prestiti delle banche centrali nazionali presso una «banca sovrannazionale». «L’accordo ideale consisterebbe senza dubbio alcuno in una banca sovrannazionale verso la quale le banche centrali si troverebbero nella medesima situazione, in ogni paese, delle banche periferiche nei confronti della banca centrale».[8]
4. Una simile soluzione, che in pratica consiste nell’aggiungere un livello sovrannazionale senza sopprimere il livello nazionale, è di natura federalista. Essa sarà ripresa, nelle sue grandi linee, nel piano del 1943, che propone un modello di organizzazione monetaria internazionale per il dopoguerra.[9] Una banca sovrannazionale, battezzata Clearing Union, aveva in questo schema la responsabilità di emettere una moneta di credito, denominata allora bancor, da usarsi fra banche centrali. Esiste tuttavia una differenza essenziale fra i due progetti: nel 1930, con la lira sterlina nel gold standard, le idee di Keynes in materia non potevano avere nessuna influenza pratica; per contro, nel 1943, quando Keynes aveva ripreso servizio presso il Tesoro britannico, il suo piano costituì la proposta ufficiale del suo paese, che fu discussa in particolare con gli Americani.
Cosi, le negoziazioni che precedettero la conferenza di Bretton Woods misero a confronto i due principali interlocutori: Keynes da una parte e, dall’altra, Harry White, per gli Stati Uniti. Il piano White inizialmente celava una certa dose di sovrannazionalità, ma non accadde la medesima cosa per il progetto ufficiale degli Stati Uniti, che era solamente internazionalista. Tenuto conto dei rapporti di forza esistenti alla fine della guerra, il progetto americano non poteva non imporsi. Ne uscì il Fondo monetario internazionale, così giustamente denominato perché è veramente internazionale, vale a dire governato dalla legge del più forte. Da questo punto di vista, le relazioni monetarie dal 1945 si sono evolute in una direzione perfettamente prevedibile e, più esattamente, il passaggio dal gold-standard al dollar-standard è conforme alla logica profonda dell’organizzazione creata a Bretton Woods.
Per concludere, si sottolineerà solamente il ruolo considerevole svolto da Keynes in questa occasione: quello di un federalista in azione, che non si accontenta di concepire un sistema istituzionale, per quanto perfetto sia, che si pone in condizione non solo di far conoscere a tutti le sue idee, ma anche di tradurle in fatti. Certamente ha fallito, almeno a breve termine, ma non è una colpa essere sconfitti, e d’altro canto la creazione dei Diritti speciali di prelievo nel 1970, ed in seguito l’ampliamento progressivo del loro ruolo, dimostrano che la riforma del Sistema monetario internazionale si inoltra nella direzione indicata dal piano di Keynes.[10]
5. Il federalismo non si limita obbligatoriamente al superamento dello Stato nazionale verso l’alto. Può essere anche un movimento verso il basso allo scopo di ottenere la massima autonomia possibile delle collettività pubbliche infra-statali. Keynes si è pronunciato molto presto in favore di questa evoluzione, e sosteneva che essa era divenuta necessaria a causa della prevedibile crescita delle funzioni assicurate dal potere pubblico.[11] Poco tempo dopo, completerà il suo pensiero su questo punto in un passo in cui traspare chiaramente l’idea dell’autogestione, nel senso che degli individui, o delle imprese, che hanno degli interessi comuni si incaricano di difenderli collettivamente. «Penso che, in molti casi, la più opportuna unità di controllo e di organizzazione si situi ad eguale distanza fra l’individuo e lo Stato moderno. Inoltre, io penso che il progresso consista nello sviluppo e nel riconoscimento di organismi semiautonomi all’interno dello Stato. Questi organismi avrebbero come orientamento della loro attività l’interesse pubblico, così come sono in grado di concepirlo, le loro decisioni sarebbero esenti da ogni considerazione di carattere privato, sebbene occorra ancora per un certo tempo — prima che l’altruismo degli uomini abbia raggiunto un livello un po’ più elevato — lasciar posto ai differenti interessi di alcuni gruppi, di certe classi o di certe associazioni; infine, sarebbero degli organismi che, nei limiti loro assegnati, godrebbero di un’ampia autonomia per condurre i loro affari, ma si troverebbero in ultima istanza sottomessi alla sovranità della democrazia, personificata dal Parlamento».[12]
Nella continuazione del paragrafo citato, Keynes fa riferimento alle corporazioni del Medioevo. Press’a poco nella medesima epoca, in Francia, un movimento apertamente federalista come Ordre Nouveau valorizzerà allo stesso modo la parola «corporazione».[13] Nei due casi, si tratta di evocare una forma di organizzazione economica più cooperativa, meno individualista dell’impresa capitalistica.
In conclusione, il profilo di Keynes presentato ne Il Federalista rischia di dare di questo autore una immagine per lo meno ingannevole. È vero che non è mai stato dichiaratamente federalista, è inoltre vero che in circostanze ben precise egli ha cercato delle soluzioni puramente nazionali alle difficoltà del suo paese. Ma resta il fatto che quando si è posto il problema dell’organizzazione economica del mondo — particolarmente in materia monetaria — ha proposto delle istituzioni di tipo federale; resta, infine, che i suoi tentativi di definire un decentramento dei rapporti economici adeguato alla società del suo tempo lo pongono su posizioni molto vicine a quelle dei suoi contemporanei federalisti.
Michel Herland
* Il tentativo di M. Herland di difendere l’immagine di un Keynes federalista non è convincente. In tutti i casi discussi — quello dell’Unione doganale, dell’ordine monetario internazionale e delle autonomie locali — le proposte di Keynes o vanno in una direzione puramente confederale, per quanto riguarda il livello sovrannazionale, oppure di decentramento amministrativo, ma non certo nel senso della costruzione di uno Stato federale. Keynes si è sempre ben guardato dal mettere in discussione la sovranità degli Stati e in particolare la sovranità della Gran Bretagna. È vero che a Bretton Woods Keynes ha difeso delle posizioni liberoscambiste, ma poteva realisticamente assumere un atteggiamento differente di fronte alla manifesta volontà degli USA di realizzare un vasto mercato mondiale aperto? Una difesa ad oltranza dell’Impero britannico, con tutti i suoi privilegi, non era più possibile a causa del declino irreversibile come potenza mondiale della Gran Bretagna. In effetti, Keynes ha sempre agito ed elaborato proposte in funzione della ricostruzione del ruolo egemonico inglese — dunque, ha operato nel contesto internazionale contro il corso della storia, come dovrebbe oggi essere evidente.
Per dirla in breve, un internazionalista intelligente e realista difende l’autarchia od il liberoscambio a seconda che l’ordine internazionale sia sospinto verso l’anarchia o verso la stabilità dalle vicende della bilancia mondiale del potere, ma non sa contrapporre un ordine sovrannazionale alternativo. Keynes non ha mai saputo o voluto indicare le istituzioni indispensabili per un governo razionale e democratico del mercato mondiale (perché, ad esempio, non ha mai appoggiato apertamente la proposta degli Stati Uniti d’Europa?). E gli economisti keynesiani contemporanei non riescono in verità a liberarsi degli stessi paraocchi nazionalistici (il mercato nazionale chiuso, o il mercato mondiale come semplice somma aritmetica di mercati nazionali) entro i quali è stata concepita la Teoria generale. Per questo oggi, in un mondo profondamente interdipendente, si assiste ad una crisi crescente dell’economia keynesiana, che rischia di diventare un polveroso pezzo da museo se non saprà rinnovarsi radicalmente. Per la medesima ragione, Il Federalista ha ritenuto opportuno richiamare l’attenzione del mondo della cultura e della politica sull’importanza del pensiero di un economista federalista come L. Robbins, che ha saputo spingere il suo sguardo ben al di là del ristretto orizzonte keynesiano.
[1] «Il federalismo nella storia del pensiero: Lionel Robbins», Il Federalista, ottobre 1984.
[2] È soprattutto conosciuto dagli economisti per la sua definizione della scienza economica, diventata classica, ma non per questo meno criticabile e criticata. Cfr. An Essay on the Nature and Significance of Economic Science, Macmillan, London, 1932; e per la critica, ad esempio, M. Godelier, Rationalité et irrationalité en économie, Paris, Maspero, 1968.
[3] Cfr. The Collected Writings of John Maynard Keynes, Macmillan, London, vol. XXVI, p. 249. Come d’uso, citeremo ormai le opere di questa collana facendo seguire alle iniziali di Keynes, in maiuscolo, il numero in romano del volume (qui: JMK XXVI).
[4] Si veda Le conseguenze economiche di Winston Churchill, 1925; ripubblicato in Essays in Persuasion (1931); trad. it. Esortazioni e profezie, Il Saggiatore, Milano, 1968.
[5] «Proposte per l’applicazione di un dazio», 1931, in Esortazioni e profezie, cit., p. 208.
[6] Economic Consequences of the Peace, 1919; trad. it. Le conseguenze economiche della pace, Rosenberg & Sellier, Torino, 1983, p. 179.
[8] A Treatise on Money, 1930; JMK VI, p. 358.
[10] Si troverà una più ampia discussione nel nostro lavoro Keynes, UGE 10/18, Paris, 1981, cap. 6.
[11] «Credo che in futuro il governo dovrà assumersi molte responsabilità che in passato ha evitato. E per assolverle non serviranno né i ministri né il Parlamento. Nostri compiti devono essere il decentramento e la devoluzione di responsabilità ovunque possibile…», in Sono un liberale?, 1926; trad. it. in Esortazioni e profezie, cit., pp. 253-4.
[13] Si veda in particolare il manifesto del Movimento nel numero 9 di L’Ordre Nouveau (marzo 1934).