Anno LXIV, 2022, Numero 2-3, Pagina 134
RIFORMA DEL PATTO DI STABILITÀ E CRESCITA:
UNA PROPOSTA SENZA VISIONE
Introduzione.
Leggendo il documento della Commissione Europea sulla riforma del Patto di Stabilità e Crescita (PSC), reso noto il 9 novembre 2022,[1] viene a mente la celebre commedia di Shakespeare, Much Ado About Nothing (tanto rumore per nulla). Perché le carenze derivanti dall’affidare la governance economica europea ad un pilota automatico guidato esclusivamente da rigide regole fiscali, oltretutto ampiamente valutate come ormai irrealistiche dal mondo accademico e gran parte di quello politico, erano diventate così palesi che la Commissione si era decisa già all’inizio del 2020 a promuovere una consultazione pubblica per la riforma del Patto. Poi rimandata per l’arrivo dell’emergenza Covid.
La crisi pandemica ha portato, come è noto, alla sospensione del Patto, che avrebbe dovuto rientrare in vigore all’inizio del 2023. Per prepararsi a rimetterlo in funzione era stata lanciata a fine 2021 una consultazione pubblica per chiedere a cittadini e società civile (in realtà i protagonisti della consultazione sono stati Università e think-tank) come immaginano un nuovo PSC. I risultati della consultazione sono stati poi resi pubblici dalla Commissione stessa in un documento pubblicato il 28 marzo 2022.
La maggior parte di coloro che avevano preso parte alla consultazione avevano messo in evidenza come la riforma del Patto avrebbe dovuto avvenire tenendo conto di una generale riforma della gestione europea dell’economia, attrezzata a produrre beni pubblici europei, con un bilancio adeguato ed una autonoma capacità fiscale. E come solo in quel caso, dotati di uno strumento sovranazionale per la crescita, si potesse immaginare di ripristinare le regole fiscali. Anche il livello del 60% di indebitamento sul PIL era giudicato irrealistico e quindi da modificare (il rapporto medio debito/PIL nella Ue è oggi intorno al 100%).
Inoltre, veniva messo in evidenza come far precedere l’idea della stabilità finanziaria a quella della crescita fosse riduttivo e nella maggior parte dei casi inutile e sbagliato, come abbiamo potuto vedere con la crisi finanziaria del 2008-09 e dei debiti sovrani del 2010-12, quando l’austerità non è risultata affatto espansiva. Perché, come osservavano già nel 2005 Posen ed altri colleghi statunitensi,[2] se l’austerità aveva funzionato nei primi anni Novanta negli USA grazie ad uno spostamento di risorse da una allocazione inefficiente del settore pubblico verso mercati efficienti e grazie ad un’architettura costituzionale ed istituzionale federale (in grado di assorbire shock macroeconomici con pronte reflazioni congiunte monetarie e fiscali da parte del governo centrale), in Europa tutto questo non esiste. Lasciando all’austerità un aggiustamento che implica solo deflazione, diminuzione della domanda, depressione delle aspettative di crescita e conseguentemente degli investimenti. Una spirale che si avvita in sé stessa e che deve essere interrotta con una reflazione sistemica, da parte di un governo sovranazionale. Che però ancora non esiste.[3]
Nel frattempo, un’altra crisi si è abbattuta sul continente europeo e sugli equilibri geopolitici globali, rinviando ancora la sospensione del Patto e ritardandone il rientro in vigore al 2024. Ignorare le conseguenze economico-politiche del Covid e della guerra Russo-Ucraina, producendo un documento che riflette il dibattito pre-2020, significa rinunciare, da parte dell’Europa, a giocare un ruolo attivo negli equilibri di potere che si disegneranno nel prossimo futuro a livello internazionale.
Il più importante errore del documento sta quindi nel non inquadrare la riforma del PSC all’interno del più ampio dibattito su quale ruolo intende assumere la Ue nel mondo nel prossimo futuro. Perché, a seconda di dove intende andare la Ue, il documento della Commissione apparirà o inutile o, addirittura, dannoso.
Cercherò di illustrare questa tesi mettendo in evidenza i pochi passi avanti che vengono sommariamente delineati nel documento della Commissione (primo paragrafo), per poi passare ad illustrarne le carenze (secondo paragrafo), prima di proporre alcune considerazioni conclusive.
I meriti del documento della Commissione.
Uno dei punti nodali per costruire una genuina economia (e democrazia) sovranazionale, in altri termini per dare coerenza al disegno di un’Europa federale finalmente in grado di assumere decisioni reattive e pienamente legittimate, è costruire un sistema di monitoraggio della spesa pubblica sui vari livelli: locali, nazionali ed europeo. Sul modello di quanto accade in India, che non a caso ha una costituzione sostanzialmente di natura federale.
In Europa abbiamo lo European Fiscal Board, che è stato creato nel 2016, dopo che la sua formazione era stata annunciata nell’ottobre 2015 per assistere il Presidente della Commissione Europea nell’analizzare il quadro macroeconomico dell’economia europea e suggerire proposte per migliorarlo. Un ruolo meramente consultivo ed a budget-zero, senza una struttura ad-hoc di analisi dei dati, per i quali fa affidamento unicamente su quelli messi a disposizione dalla Commissione.
Abbiamo inoltre delle agenzie nazionali indipendenti di monitoraggio della spesa, nate in gran parte negli anni della riforma della governance europea. Un’idea semplice ma efficace per dare maggiore coerenza al sistema di formazione della spesa in Europa sarebbe mettere queste istituzioni a sistema, trasformandole in articolazioni di un’agenza multilivello di monitoraggio e consulenza sulla ripartizione dei carichi di debito fra i vari livelli di governo.
Ebbene, il documento della Commissione non accenna a tutto ciò, ma parla della necessità di “riconsiderare il mandato e il ruolo dello European Fiscal Board” (p. 10), anche alla luce di quello delle autorità nazionali. Sembra essere un’indicazione che si possa sperare di muoversi in tal senso. Non sarebbe una cosa da poco, anche se (in assenza di una proposta più dettagliata) diventa concreto il rischio che indipedenza e autorevolezza degli organismi nazionali (che finora hanno funzionato egregiamente) risultino indebolite.
Un altro merito importante del documento è che, pur non essendovi alcun riferimento ad una golden rule per lo scorporo degli investimenti strategici dal conteggio del deficit dei paesi membri (chiesta a gran voce nella consultazione pubblica), la valutazione sul grado di sostenibilità del debito, che si propone di effettuare su base pluriennale, lascia immaginare che verranno privilegiati, come sembra ovvio, gl’investimenti produttivi rispetto alla spesa improduttiva. Anche questo risultato sarebbe importante, perché agevolerebbe lo spostamento della spesa nazionale dalla parte corrente a quella che consente di muovere l’economia dei singoli paesi verso la frontiera delle possibilità produttive, investendo nei settori che accrescano la produttività globale dei fattori.
Un ultimo elemento positivo da sottolineare mi pare sia il crescente grado di discrezionalità che si riserva la Commissione nella valutazione dei piani di spesa e rientro dal debito, da negoziare coi singoli governi nazionali. L’indebolimento de facto della rigidità di regole prefissate e l’aumento del grado di discrezionalità politica (anche se spacciata per puramente tecnica: l’analisi stocastica dei dati macroeconomici) mi pare sia un modesto ma significativo passo avanti nella direzione di dare un governo sovranazionale all’economia europea. Perché starà alla Commissione fissare gli indicatori rilevanti per la valutazione della sostenibilità dei debiti nel medio periodo (da quattro o sette anni, se necessario).
Questo, tuttavia, richiede che la novità sia ben spiegata e giustificata, per evitare che qualcuno approfitti della ghiotta opportunità offerta dal trasferimento a livello sovranazionale di un potere politico affidato però ad organismi sostanzialmente tecnici. Il che rende sempre più urgente affrontare il tema della riforma dei Trattati o del processo di costituzionalizzazione della loro revisione nell’ottica della fondazione di una effettiva democrazia sovranazionale.
I limiti della proposta della Commissione.
Veniamo adesso agli aspetti carenti del documento col quale la Commissione ha inteso aprire il dibattito sulla riforma del PSC.
Il primo, macroscopico, è che il mondo è profondamente cambiato rispetto ai temi della semplice riforma del Patto. Se un qualche tipo di sorveglianza macroeconomica e stabilità finanziaria sono necessari per assicurare resilienza all’euro ed in ultima istanza all’intera economia europea, oggi la priorità è far assumere alla Ue quei caratteri di sovranità economica che le consentano di minimizzare gli effetti negativi della dipendenza da paesi esterni.
Se è vero che l’interdipendenza è globale e interessa tutte le aree del mondo, altrettanto vero è che l’Europa, in quanto economia di trasformazione, non può permettersi di isolarsi, in caso di crisi come l’attuale, dagli effetti negativi di tali interdipendenze. Il che implica da un lato ricostruire alleanze strategiche, che necessitano di investimenti colossali per la crescita (in Africa, America Latina, per la ricostruzione dell’Ucraina, per la stabilizzazione dello scacchiere mediorientale, ecc). Inoltre, la serrata competizione internazionale per le risorse e per i mercati di sbocco impone investimenti altrettanto colossali in innovazione (in senso lato: tecnologica, di prodotto, processo, organizzazione, mercati, ecc).
Tutto questo richiede ingenti risorse economiche. Non importa se a debito. Considerando che viviamo in un’era di saving glut, ossia di un (crescente) eccesso di risparmio a livello globale in cerca di opportunità d’investimento stabile e profittevole, dovrebbe essere una priorità della UE creare uno strumento di debito, un safe asset, alternativo al Bond del Tesoro Usa che non serva (come quello) a finanziare spesa corrente ma orientato agl’investimenti in innovazione.
Inoltre, esiste una crescente domanda di beni pubblici senza i quali la UE rischia nuovamente di frammentarsi: un’unione dell’energia, della sicurezza e difesa, di un rinnovato sistema di infrastrutture di comunicazione e trasporto al passo con la proiezione futura della Ue, infrastrutture culturali e sociali in grado di soddisfare i (mutevoli ma crescenti) bisogni dei cittadini. Che non è più possibile affidare alle capienze fiscali dei singoli paesi, molto diversi fra loro quanto a spazio di manovra ed esigenze di sostegno al welfare, pena l’implosione della labile coesione sovranazionale e la perdita di consenso verso l’identità e l’integrazione europea.
Dov’è tutto ciò nel documento della Commissione? Dov’è la battaglia, inevitabile e per noi perdente, contro l’espansione fiscale che gli USA (per controbilanciare la restrizione monetaria) stanno portando avanti con l’Inflation Reduction Act? Dove sono gli strumenti di assistenza finanziaria per favorire l’emergere del multilateralismo globale rafforzando le dinamiche regionali in Africa ed America Latina? Qual è il ruolo delle finanze pubbliche rispetto alla proposta di von der Leyen e Breton per un “fondo per la sovranità europea”?
Aggiungo un’ulteriore criticità. Non rimettere mano ai parametri del 3% e del 60% rischia di avere due conseguenze dannose. La prima è che questi indicatori prescindono dal modo in cui i target sono raggiunti: ossia se tramite riduzioni di spesa o aumento delle imposte. Ma sappiamo bene che i moltiplicatori fiscali sono asimmetrici rispetto a queste due modalità (il loro impatto sulle variazioni del reddito è cioè diverso); inoltre, gli aspetti distributivi di una o dell’altra scelta causano effetti potenzialmente distorsivi. Persistere nel fissare i target senza aggiungere nulla su come si preferisce che vengano raggiunti aumenta forse l’ownership nazionale delle scelte, ma indebolisce le prospettive macroeconomiche.
La seconda è che rinunciare a metterli in discussione rischia di avere un impatto devastante in termini di comunicazione e consenso. Perché sarà facile affermare che la Commissione europea è ferma a dogmi irrealistici. Se il tetto del 3% avrebbe anche potuto essere diminuito (e al limite da azzerato), nell’ottica di scorporare gl’investimenti produttivi e strategici dal calcolo del deficit, il tetto del 60% del debito rispetto al PIL rischia di essere non solo stantio, ma anche pericolosissimo. Va bene che il sentiero di rientro sarà da oggi, secondo la proposta, su base pluriennale e con un sentiero non automatico, ma sempre implica un rientro verso quel target. Nel caso dell’Italia, significa recuperare il 90% del PIL (…) un obiettivo che solo nelle stanze ovattate del Berlaymont possono ritenere realistico. Con un’austerità che implica diminuzione della qualità e quantità dei beni e servizi pubblici erogati ed il pericolo di dar vita a nuove narrazioni antieuropee; delle quali ci sembrerebbe, soprattutto in questo momento in cui è necessario rafforzare la sovranità europea, di dover sinceramente fare a meno.
Considerazioni conclusive.
Abbiamo visto che, rispetto alle aspettative di riforma richieste dalla società civile e prospettate dal dibattito accademico, il documento della Commissione offre poche luci e molte ombre. In particolare, non chiarisce come sia possibile rafforzare la crescita, stagnante in gran parte del continente, rispetto alla (indubbia) necessità di garantire stabilità. Sembra di essere tornati ai dibattiti che precedettero la nascita dell’euro, invece che di parlare dall’alto di una serie impressionante di crisi che si sono succedute sul continente europeo e dalle quali riusciamo sistematicamente ad uscire in ritardo rispetto a tutti gli altri grandi aggregati economici e politici globali.
Naturalmente, si può sempre affermare che la Commissione ha prodotto solo un primo documento col quale avviare un dibattito; e che sta adesso ai governi ed a Parlamento e Consiglio prendere le redini dei cambiamenti, anche costituzionali, necessari per portare avanti il disegno sopra delineato. Cambiamenti che non possono vedere come unica protagonista la Commissione. Una tesi plausibile, se non fosse che la Commissione ha potere d’iniziativa legislativa e, rispetto all’esigenza di rivedere una policy chiave come quella della gestione dell’economia in un sistema complesso, aperto ed interdipendente come la UE, ci si sarebbe potuti legittimamente aspettare che uscisse con le idee più chiare. E soprattutto rivolte al futuro, invece che al passato.
Fabio Masini
[1] European Commission, Communication on orientations for a reform of the EU economic governance framework, COM(2022) 583 final, https://economy-finance.ec.europa.eu/system/files/2022-11/com_2022_583_1_en.pdf.
[2] A.S. Posen, Can Rubinomics Work in the Eurozone? In Id. (cur.) The Euro at Five: Ready for a Global Role? Special Report n. 18, Washington (DC), Institute for International Economics, 2005, pp. 123-150.
[3] Il NGEU, che somiglia molto ad un intervento reflattivo asimmetrico e solidale, è unanimemente considerato un evento eccezionale e non ripetibile.