Anno XXVI, 1984, Numero 3, Pagina 283
PACE E POLITICA: PER UN LORO NUOVO RAPPORTO
Il saggio di Mario Albertini su « Cultura della guerra e cultura della pace » (in Il Federalista, 1984, n. 1) mi sembra che fornisca, per la sua struttura interna e per il suo livello analitico, il quadro teorico adeguato ad una corretta impostazione del problema della pace nel dibattito politico-culturale attuale.
Il tentativo di saldare in un unico processo storico e teorico i valori tipici delle ideologie classiche (la libertà, la democrazia, la giustizia sociale) con il valore del federalismo (la pace) può dirsi sostanzialmente riuscito, presentando un livello di organicità e di logica interna indubbiamente superiore a quello di precedenti riflessioni.[1]
Questo saggio può diventare, proprio per il suo carattere di saggio d’inquadramento della questione della pace in maniera del tutto nuova rispetto al modo usuale, un’occasione proficua di confronto con i diversi filoni della cultura contemporanea che, proprio su questo problema, mostrano un ritardo francamente preoccupante. Saggio-base, saggio-cornice, anche nel senso che stimola la riflessione per approfondire alcune tematiche solo abbozzate, per andare avanti lungo un tracciato teorico già individuato. Un saggio che può far storia, dunque.
Ecco, io vorrei porre due questioni. La prima è, forse, solo una richiesta di precisazione che, però, credo sia importante perché è troppo importante la questione che vi è sottesa. La seconda, invece, è una riflessione che, partendo dall’analisi albertiniana della famosa frase di Clausewitz (« la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi ») e proprio adottandone la stessa categoria interpretativa (cioè, il comportamento politico nazionale come anello di congiunzione tra la politica e la guerra), sfocia su uno dei problemi cruciali della cultura politica contemporanea: la cosiddetta crisi della politica.
I – Giustizia sociale e pace. Socialismo e federalismo.
A. « ... c’est une donnée de fait que la division des sociétés evoluées en classes antagonistes a déjà été depassée ou est sur le point de l’être. Bien entendu, si l’on désigne par le terme de classe ce que Marx désignait par le même terme: une catégorie d’individus condamnés par l’état des rapports matériels de la production à une espèce d’ésclavage, à un status économique, social et politique qui les excluait de la sphère du bien-être, de la culture et de la liberté... ».[2]
A quell’epoca si diceva: nelle società industriali avanzate non c’è più l’antagonismo tra le classi (tra la classe operaia e la classe capitalista), perché la classe operaia, un tempo esclusa, è ormai ‘riconosciuta’ legalmente in quanto tale, è pienamente legittimata a giocare il proprio ruolo nel conflitto sociale unanimemente accettato, ha pieno accesso alla sfera del benessere, della cultura e della libertà.[3]
Se l’antagonismo storico tra capitale e lavoro era allora finito, potevamo dire (con Marx) che il rapporto di produzione, attorno al quale le classi sociali si costruiscono, si fosse ormai modificato nella direzione del superamento della scissione tra chi detiene i mezzi della produzione e chi non li detiene? Potevamo dire, già allora, che c’era già il socialismo? Francamente, anche oggi, mi sembra difficile che si potesse allora sostenerlo, anche perché non si sarebbe più saputo come interpretare i conflitti sociali (operai) che proprio in quel periodo stavano riprendendo quota a Detroit, a Francoforte, a Torino, se non come ‘imperfezioni’ nella distribuzione del reddito prodotto, cosa chiaramente discutibile.
Al contrario, il decennio che va dalla seconda metà degli anni ‘60 alla prima metà degli anni ‘70, mostrò che la lotta della classe operaia dei paesi avanzati, probabilmente per l’ultima volta nella propria storia,[4] tornava ad essere antagonista al capitale: il salario non accettava più di seguire l’andamento degli aumenti di produttività (era la critica pratica della teoria marginalista),[5] come pure metteva in crisi la funzione dello Stato come supremo regolatore del ciclo economico (era la fine del keynesismo).
B. « Un risultato sta nella possibilità di distinguere – per ciascuna delle ideologie in questione – la sua ‘affermazione storica’ (già ottenuta) dalla sua ‘realizzazione completa’ (non ancora iniziata), e nella conseguente possibilità di chiedersi se l’intero sviluppo di queste ideologie passa attraverso fasi identificabili. Il secondo risultato consente di rispondere in modo affermativo a questa domanda. Esso deriva dalla relazione (già stabilita) tra piano internazionale liberale e/o socialista (‘realizzazione completa’) e governo mondiale (pace) cioè tra la pace e l’ultima fase di sviluppo di queste ideologie ».[6]
Questa nuova formulazione del concetto mi sembra, oltre che più analitica e più idonea ad interpretare la realtà, anche abbastanza diversa da quella del ‘63.
La prima fase, quella dell’affermazione storica dei valori, è quella in cui la classe deve lottare contro la forzata e legale esclusione dalla sfera del benessere, della cultura e della libertà, deve lottare per essere ‘riconosciuta’ come classe, legittimata nella sua azione politica e sociale ed essere accettata nella legalità. Bene, questa fase è già compiuta.
C’è, poi, una fase intermedia, nella quale il valore della giustizia sociale (come pure della libertà e della democrazia) tenta di avanzare in ambito legale verso livelli sempre più elevati, sia pure con forti rischi di ricaduta nella precedente illegalità, a causa delle possibili involuzioni autoritarie degli Stati. Bene, questa è la fase attuale ed il socialismo, evidentemente, non è ancora realizzato.
C’è, infine, una fase futura, quella della completa realizzazione del valore della giustizia sociale (della libertà e della democrazia), che può essere ottenuta solo a partire dal raggiungimento del nuovo valore della pace (governo mondiale). La libertà, la democrazia e la giustizia sociale sono premesse per la pace e questa, a sua volta, è la premessa per la completa realizzazione di quei valori.
È importante che Albertini abbia tenuto ferma la distinzione tra premesse e mezzi. Infatti, così come la libertà, la democrazia e la giustizia sociale non sono mezzi (ma solo premesse) per raggiungere la pace, cosi questa non è un mezzo (ma solo una premessa) per raggiungere quelli. Ne deriva che, a partire da una situazione di pace (governo mondiale), rimane aperto il discorso sui mezzi da impiegare per sviluppare interamente i valori della libertà, della democrazia, della giustizia sociale. [7]
Mi sembra, dunque, provato che ci sia una differenza importante tra le due formulazioni e che la seconda sia più aderente all’evoluzione del corso storico (e condividibile).
II – Comportamento politico nazionale e crisi della politica.
Lavorando sulla famosa frase di Clausewitz, Albertini dimostra chiaramente che la coincidenza della politica con la guerra si gioca solo su un punto specifico, il ‘comportamento politico nazionale’, quel comportamento, cioè, che nella prassi salda il mondo della politica con il mondo della guerra.
Infatti, non si può dire che la politica è sempre, in tutti i suoi aspetti, collegata alla guerra: lo diventa solo quando essa ha come punto di riferimento, come quadro della sua azione, il potere nazionale che, come si sa, è la condizione sufficiente per alimentare continuamente il mondo della guerra. Questa impostazione permette anche di comprendere immediatamente quale deve essere il punto a partire dal quale ci può essere l’inversione del trend politico che può finalmente spezzare il legame che unisce la politica alla guerra: questo punto consiste nel superamento del comportamento politico nazionale.
Ebbene, penso che questa impostazione, con la quale concordo, sia assai feconda perché permette di spingere avanti l’analisi in diverse direzioni e permette di acquisire nuovi ed importanti risultati. Mi permetto di evidenziarne uno solo, dei tanti possibili: il concetto di ‘crisi della politica’ alla luce del legame concettuale ‘comportamento politico nazionale/mondo della guerra’. Cerco di spiegarmi.
Negli ultimi sei o sette anni diversi filoni culturali italiani ed europei (francesi, soprattutto) hanno scoperto la cosiddetta crisi della politica,[8] espressione ambigua quanto mai, che nasce, probabilmente, dalla mancata definizione o ridefinizione del concetto di politica. Se, infatti, per politica intendiamo quell’attività umana specifica orientata verso il potere, nel senso della sua acquisizione o del suo mantenimento,[9] ne deriva che, finché ci sarà il potere politico (cioè fino a che la società umana sarà organizzata in modo da presentare un potere che trascende quello dei singoli individui e che regola coercitivamente la distribuzione dei valori, dei ruoli, della ricchezza, dei micropoteri, ecc.), ci sarà sempre un’attività umana specifica diretta verso di esso, cioè ci sarà sempre ‘politica’ in senso specifico. Quindi, per definizione, non ci può essere crisi della politica.
In realtà, però, coloro che usano impropriamente questa espressione intendono un’altra cosa, anzi due.
a) La crisi della politica è la crisi del ‘politico’, cioè di quel modello generale di interpretazione di tutti i fatti umani socialmente rilevanti che vede, appunto, nella politica la chiave di ogni realtà sociale: basti ricordare le affermazioni-verità di qualche tempo fa del tipo « tutto è politico », « il personale è politico » o, per altri versi, « l’autonomia del politico ». Da questo punto di vista la crisi del ‘politico’ può essere una crisi salutare[10] perché lo ridimensiona alla sfera dei comportamenti politici veri e propri, sottraendolo alla sfera dei comportamenti pre-politici.[11]
b) La crisi della politica è la crisi del ‘valore’ politica, cioè di tutto quell’universo di idee, di credenze, di sentimenti, di comportamenti, ecc. che, tra la fine degli anni ‘60 e la fine degli anni ‘70, aveva forgiato un’intera generazione di giovani sulla convinzione che la politica fosse il mezzo per mutare le condizioni individuali e collettive dell’umanità. La politica era improvvisamente diventata uno dei valori più importanti (come l’amore o il benessere materiale), in certi frangenti anche il più importante.
Oggi non è più così, indubbiamente. La crisi della politica, in quanto valore, non è evidenziata soltanto dalla ricerca in massa di soluzioni ‘non politiche’ ai problemi individuali e collettivi (il gioco, la fortuna, l’arrivismo, la droga, ecc.), ma anche da una caduta verticale della militanza politica.[12]
Si è così arrivati ad un rifiuto della politica, anche perché si è visto che, nel suo concreto manifestarsi, si riproducevano le stesse strutture e gli stessi meccanismi del potere che si intendeva combattere: il comportamento politico era speculare al potere, sicché la politica perpetuava il rapporto di potere dell’uomo sull’uomo, anche laddove questo veniva negato nelle enunciazioni e negli obiettivi politici.
Certo, questa impostazione è viziata alla base dal fatto che c’è una visione ideologica (nel senso marxiano del termine) della politica, proprio perché questa non viene definita in termini di lotta per il potere in sé, ma viene definita con l’obiettivo della ideologia che si professa, sicché si aspira ad un ‘nuovo’ modo di far politica, laddove il ‘nuovo’ dovrebbe già prefigurare l’obiettivo politico che si persegue. Che il problema sia mal impostato non c’è dubbio, ma ciò non toglie che sia reale, che tocca soprattutto ampi strati giovanili (certamente più in modo inconsapevole che consapevole), i quali sono nuovamente investiti da effetti devastanti di spoliticizzazione.
Nata sulla base del rifiuto di massa della politica, la nuova domanda che viene posta è la seguente: è possibile praticare una forma della politica che non sia la forma del potere?
A questa domanda da un milione di dollari o viene data una risposta negativa (con conseguente rifiuto della politica) oppure si risponde cercando discutibili strade di politica ‘alternativa’, quali il rifiuto di codificare i conflitti, il rifiuto di porsi obiettivi strategici, la ricerca della trasgressione fine a se stessa, ecc., in altre parole, la ricerca di comportamenti sociali non normati che sfuggano al controllo politico di strutture performative rigide.[13]
Ebbene, io credo che, proprio a partire dall’impostazione albertiniana del nesso « comportamento politico nazionale/guerra » è possibile dare una risposta, parziale ma positiva, alla domanda che abbiamo posto, se si tiene presente che:
1) il rifiuto del comportamento politico normale (nazionale) significa il rifiuto del potere dato. Condurre una politica che non abbia come obiettivo la conquista del potere dato vuol dire, entro certi limiti, non essere colpiti dagli effetti perversi del potere, non subirne (o subirne solo entro certi limiti) i condizionamenti, non introiettarne le regole, le procedure, ecc. Lottare contro il potere dato non per sostituirlo con un altro, ma per spostare in avanti la dimensione dell’organizzazione politica dell’umanità fino alla sua unità mondiale, vuol dire recuperare ad una connotazione positiva il concetto di politica, come strumento di lotta per il mutamento, nella misura in cui lo si scarica di uno dei suoi aspetti negativi (« la guerra come proseguimento della politica con altri mezzi »). Se è vero, come è vero, che il comportamento politico e la politica sono speculari al potere, allora si deve dire che, con il governo mondiale, il potere sarà privato degli aspetti più diabolici che storicamente lo hanno caratterizzato: il potere di decidere della vita e della morte degli individui, il potere di irreggimentarli ideologicamente in funzione della difesa dal nemico esterno, ecc. Ne deriva che, sotto questo aspetto, anche la politica sarà meno diabolica e meno oppressiva perché alcuni obiettivi ‘storici’ del potere non saranno più perseguibili;
2) a partire da una situazione di pace (governo mondiale) si indebolirà anche l’altro aspetto negativo della politica (cioè la politica come mezzo per esercitare il potere sugli uomini). Infatti, da una parte avremo la fine della ragion di Stato e di tutto ciò che ne deriva (fine del primato della politica estera sulla politica interna, fine del confronto politico-economico tra gli Stati, ecc.), dall’altra avremo una dinamica della « ragion sociale » che imporrà, per la forza delle cose (gli squilibri enormi tra le regioni-continenti, la salvezza dal disastro ecologico, l’allocazione ottimale delle risorse, ecc.), livelli sempre maggiori di giustizia sociale, di libertà e di democrazia, relegando la ricerca del profitto economico ad un barbaro retaggio del passato, così come oggi la maggior parte degli uomini considera tale l’origine divina della monarchia.
Tutto ciò farà emergere pienamente i due poli del comportamento sociale federalista: il comunitarismo ed il cosmopolitismo. Diviso tra questi due lealismi, il comportamento politico del ‘novus homo politicus’ avrà una mutazione fondamentale: la sua linea di condotta sarà sempre meno ispirata dalla « morale della responsabilità » (Weber) che impone di raggiungere fini giusti anche con la forza, e sempre più ispirata dalla « morale della convinzione » (Weber) che, invece, pone l’accento sulla verità come mezzo per raggiungere fini giusti.[14]
Qualche conclusione (si fa per dire).
Credo che questo filo di discorso, solo abbozzato, non debba essere lasciato cadere. Dalla scoperta del nesso teorico e storico tra politica e guerra alla prospettiva di una politica ‘nuova’, in cui l’aspetto della guerra è sparito del tutto, mentre l’aspetto del potere, come dominio, si affievolisce, muta natura: questo può essere un tracciato di percorso teorico su cui cimentarsi.
Sparito l’aspetto della guerra, per la prima volta l’uomo sarà in grado di dominare il processo storico, sarà in grado di controllare l’uso delle risorse a livello mondiale, di sconfiggere il problema della fame, di salvaguardare l’equilibrio ecologico della Terra.
Con la fine del principio di scarsità, il potere avrà perduto la più antica delle sue giustificazioni ideologiche, quella di essere il regolatore ed il garante della distribuzione della ricchezza, dei ruoli e dei valori nella società e, pertanto, la politica ed il comportamento politico non potranno non essere modificati di conseguenza: cessa la politica come esclusiva arte del comando e della mediazione ed inizia l’era della politica come arte di organizzare e sviluppare la massima libertà creativa e produttiva dell’uomo, la sua piena autovalorizzazione.
Inoltre, con la fine della legge del valore,[15] il lavoro cesserà di essere quella maledizione che ha sempre accompagnato la fatica dell’uomo e può, finalmente, tramutarsi in forza-invenzione.
« Non appena il lavoro in forma immediata ha cessato di essere la grande fonte della ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di essere la sua misura, e quindi il valore di scambio deve cessare di essere la misura del valore d’uso. Il pluslavoro della massa ha cessato di essere la condizione dello sviluppo della ricchezza generale, così come il non lavoro dei pochi ha cessato di essere condizione dello sviluppo delle forze generali della mente umana. Con ciò la produzione basata sul valore di scambio crolla, e il processo di produzione materiale immediato viene a perdere la forma della miseria e dell’antagonismo. [Subentra] il libero sviluppo delle individualità, e dunque non la riduzione del tempo di lavoro necessario per creare pluslavoro, ma in generale la riduzione del lavoro necessario della società ad un minimo, a cui corrisponde poi la formazione e lo sviluppo artistico, scientifico, ecc. degli individui grazie al tempo divenuto libero e ai mezzi creati per tutti loro ».[16]
Ecco, io credo che, anche e soprattutto su queste tematiche, la cultura federalista debba uscire allo scoperto, debba misurarsi con la cultura politica contemporanea, uscendo definitivamente dallo status di cultura minoritaria, quasi clandestina, dal quale finora è stata caratterizzata.
Sicuramente, finora, non poteva che essere così: i processi culturali hanno tempi lunghi, si muovono nel profondo del corso della storia, scavano lentamente lungo la sua linea di tendenza principale, per poi, improvvisamente, emergere (ben scavato, vecchia talpa!), quando le condizioni storico-politiche lo consentono.
Bene, il corso storico è arrivato al punto in cui la contraddizione fondamentale è quella tra la divisione politica dell’umanità in Stati sovrani e la necessità assoluta della sua unità politica per la sua stessa salvezza: la pace è, pertanto, il valore prioritario del nostro tempo, così come il controllo del corso della storia da parte dell’uomo deve diventare il campo d’applicazione della politica.
Tutto questo impone, allora, un salto della cultura (e della politica) federalista, che le consenta di calarsi pienamente nella cultura politica contemporanea, di essere parte attiva dei processi culturali del nostro tempo: la stessa battaglia politica per la Federazione europea non la si vince solo con l’astuzia della ragione (che ci vuole), ma anche con la capacità di stimolare l’emergere di nuovi valori culturali, i soli che possano dare corpo a quel sentimento popolare che è, proprio oggi, necessario per superare gli ostacoli che ancora si frappongono.
« Antichissimo errore è che le idee potenzino il mondo.
L’attuale scienza dell’anima, più profonda, non esita ad affermare che sono i sentimenti a potenziarlo. Tutte le idee che non
vengono accolte dal fertile terreno dei sentimenti possono bensì
germogliare come i semi di erbe seminati sul cartone, ma appassiscono anche non meno rapidamente ». (Robert Musil, dai Diari).
L’attuale scienza dell’anima, più profonda, non esita ad affermare che sono i sentimenti a potenziarlo. Tutte le idee che non
vengono accolte dal fertile terreno dei sentimenti possono bensì
germogliare come i semi di erbe seminati sul cartone, ma appassiscono anche non meno rapidamente ». (Robert Musil, dai Diari).
Antonio Longo
[1]Mi riferisco, in particolare, per la sola parte che concerne il problema in questione, al suo saggio «Vers une théorie positive du fédéralisme », in Le Fédéraliste, 1963, n. 4.
[3]Un’impostazione – mi sembra – che si rifà all’interpretazione keynesiana del rapporto nuovo che, a partire dalla crisi del ‘29, occorreva instaurare tra classe operaia e Stato, in alternativa alla soluzione che ne aveva dato il fascismo. Qual era il problema che il capitale si trovava innanzi in quel periodo e che Keynes percepì, primo fra tutti, con estrema lucidità? Era che: 1) con il ‘17 la classe operaia era diventata una forza storica non più eliminabile politicamente; 2) essa andava sempre più a cozzare contro il sistema del vecchio Stato liberale, sfaldandolo e minacciando così il potere della borghesia; 3) tutto ciò poteva essere evitato solo se il capitale fosse riuscito a far giocare alla classe operaia un ruolo di trasformazione dello Stato e del sistema, cioè fosse riuscito ad utilizzare la forza della classe operaia per ricreare un sistema di comando capitalistico ad un livello più elevato che contemplasse la classe operaia tra le forze fondamentali del sistema (la classe operaia dentro il capitale).
La chiave politica di interpretazione della General Theory è tutta qui. Keynes, dunque, ‘riconosce’ che c’è un antagonista (la classe operaia) e che l’unico modo per impedire la rivoluzione è quello di far funzionare questo antagonismo in un meccanismo che trasforma la lotta di classe in un elemento dinamico del sistema. Il sistema è in grado, così, di allargare la propria base sociale, la lotta di classe lo ‘rinnova’ continuamente purché esso sappia trovare, ogni volta, nuovi equilibri tra le diverse classi che lo sostengono. Il capitale si fa ‘marxista’, nel senso che impara a leggere Das Kapital e scopre la sua rivoluzione permanente.
[4]È un problema troppo grosso perché possa essere qui trattato. Mi limito, perciò, a dire quanto segue. Con il processo di ristrutturazione industriale, di decentramento produttivo e di automazione spinta che il capitale ha iniziato a partire dalla metà degli anni ‘70, il soggetto sociale che aveva personificato un decennio di lotte (l’operaio-massa) è entrato in una crisi irreversibile, di fatto è stato distrutto socialmente (oltre che politicamente) e sostituito da una serie di figure produttive completamente nuove (controllore, operatore, tecnico-operativo, tecnico-impiegato, ecc.). Questo, però, non vuol dire che non c’è, né ci sarà più lotta di classe perché ormai la condizione operaia è finita o sta per finire, ma solo che essa non potrà più avere la classe operaia come asse centrale dell’opposizione al capitale.
[5]A livello della teoria economica chi interpretò una situazione del genere fu Pietro Sraffa (Produzione di merci a mezzo di merci, Milano, Einaudi, 1960 – tit. or. Production of Commodities by Means of Commodities, Prelude to a Critique of Economic Theory, Cambridge University Press, 1960), per il quale i lavoratori lottano con il capitale per appropriarsi di una parte del surplus globale, indipendentemente dalla produttività. Il salario da surplus è una sorta di salario politico che non è determinabile sulla base dei rapporti tecnici di produzione. Nella costruzione teorica di Sraffa la classe operaia ha rotto il legame con la produttività, il salario ed il profitto sono strettamente antagonisti e la quantità prodotta dalle macchine non è più proporzionale alla quantità di lavoro sottratta alla classe operaia: il salario diventa indipendente dal lavoro. Dunque, salario e profitto non sono più la ‘giusta remunerazione’, rispettivamente, del lavoro e del capitale: tutto deve essere conquistato dalla lotta.
[6]M. Albertini, « Cultura della pace e cultura della guerra », in Il Federalista, 1984, n. 1, p. 28 (nota 11).
[7]Ciò non significa affatto che il federalismo, in quanto ideologia della pace, sia in posizione subordinata rispetto al liberalismo, alla democrazia, al socialismo. La libertà, la democrazia, la giustizia sociale e la pace sono valori che, in sé, non sono collocabili su piani diversi: è solo la contingenza storica che li differenzia e privilegia ora l’uno ora l’altro. Di più: sono valori che si completano a vicenda. Infatti, così come la democrazia politica ha allargato la sfera delle libertà individuali e la giustizia sociale quella della democrazia politica, così la pace allargherà infinitamente tutte le precedenti sfere, ponendo le basi per la loro completa realizzazione.
[8]Si può far riferimento alla pubblicistica di autori come M. Foucault, J.F. Lyotard, J. Habermas, J. Baudrillard, S. Veca, M. Maffesoli, ecc. Per una rassegna abbastanza rappresentativa delle posizioni cfr. Sapere e potere, Atti del Convegno (omonimo) in Genova, 27/30-11-1980, Multipla Ed., 1984.
[9]Cfr. M. Albertini, « La politique », in Le Fédéraliste, 1962, n. 2.
[10]Anche se bisogna dire che coloro i quali hanno fatto precipitare il ‘politico’ dall’altare alla polvere, si sono poi affrettati a sostituirlo con il ‘sociale’, nuova categoria egemone (presunta tale), alla quale dovrebbero inchinarsi l’economico, il politico, ecc.
[11]M. Albertini, « La politique », cit., pp. 143-146.
[12]La crisi della militanza è la spia, oltre che del forte indebolimento del ‘valore’ politica, anche e soprattutto della crisi parziale che ha colpito la struttura di comando/obbedienza insita nel rapporto di potere interno al ‘fare politica’. Questa crisi è parziale perché: a) il fare politica comporta sempre attività di comando e di obbedienza, nel quadro di strutture rigide di potere; quindi, da questo punto di vista crisi non ci sarebbe; b) queste strutture però non sono più così rigide come una volta, il rapporto comando/obbedienza non si dà più per scontato una volta per tutte, bensì deve essere conquistato volta per volta, viene imposto con maggiori difficoltà. Questo spiega perché le nuove formazioni politiche tendono ad assumere, anziché la forma del partito, quella del ‘movimento’, cioè di una struttura elastica in cui il rapporto comando/obbedienza, pur continuando a sussistere, è stemperato da una partecipazione maggiore al processo di presa delle decisioni.
[13]Cfr. anche J.F. Lyotard, La condizione postmoderna, Milano, Feltrinelli, 1981 (ed. or. La condition postmoderne, 1979, Les Editions de Minuit, Paris).
[14]M. Albertini, « Vers une théorie... », cit., p. 281, nota 9, b.
[15]« Ma nella misura in cui si sviluppa la grande industria, la creazione della ricchezza reale viene a dipendere meno dal tempo di lavoro impiegato che dalla potenza degli agenti che vengono messi in moto durante il tempo di lavoro, e che a sua volta – questa loro powerful effectiveness – non è minimamente in rapporto al tempo di lavoro immediato che costa la loro produzione, ma dipende invece dallo stato generale della scienza e del progresso della tecnologia... In questa trasformazione non è né il lavoro immediato, eseguito dall’uomo stesso, né il tempo che egli lavora, ma l’appropriazione della sua produttività generale, la sua comprensione della natura e il dominio su di essa, attraverso la sua esistenza di corpo sociale – in una parola, è lo sviluppo dell’individuo sociale che si presenta come il grande pilone di sostegno della produzione e della ricchezza » (K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, La Nuova Italia, Firenze, 1970, voI. II, p. 400 – ed. or. Grundrisse der Kritik der politischen Oekonomie (Rohentwurf) 1857-1858, Dietz Verlag, Berlin, 1953.
[16]Ivi, pp. 401-402. È il Marx profetico, il punto più alto della analisi e della sua immaginazione-volontà rivoluzionaria, a patto di non interpretarlo in modo deterministico.