Anno II, 1960, Numero 6, Pagina 364
A PROPOSITO DI «LE PREGHIERE DEI SOLDATI»
Con l’articolo Le preghiere dei soldati volevamo far nascere la discussione sul rapporto tra i valori cristiani ed i valori nazionali. Ringraziamo l’amico Bascapé che ci ha scritto, e pubblichiamo la sua lettera riservandoci di ritornare sull’argomento. Per ora ci limitiamo ad osservare che non ci pare vero che una rivista di politica non debba «toccare una questione complessa e profonda come quella della posizione del cristiano di fronte alla guerra». In tutti i casi di questo genere si tratta di studiare due termini: la personalità del cristiano e la natura della guerra. Una rivista di politica — e tanto più una rivista federalista — rinunzierebbe ad uno dei suoi massimi oggetti se non si occupasse della guerra; e per questo fatto può occuparsi, con conoscenza propria di uno dei due termini, del rapporto tra la guerra e i valori cristiani come di quello tra la guerra e altri valori. Ci sembra addirittura che, data la connessione tra la conoscenza e l’azione, tra la scienza e la tecnica, una rivista di politica non debba cessare di approfondire lo studio dei comportamenti bellici, che legittimano l’uccisione di un uomo da parte di un altro uomo, e non debba cessare di proporsi il problema (che riguarda la tecnica politica) del controllo, della limitazione e, se possibile, della eliminazione dei comportamenti bellici.
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Milano, settembre 1960
Cari amici del «Federalista»,
fra le molte cose intelligenti e interessanti della vostra rivista, ho letto nel numero di luglio con un certo stupore l’articolo «Le preghiere del soldato». Se vi dico che esso mi ha stupito non intendo dire che mi abbia urtato nelle mie convinzioni di cattolico — ché in tal caso avrebbe, se mai, urtato anche alcuni fra voi redattori — e tanto meno che abbia scosso nel mio intimo qualche inconscio «tabù» nazionalistico, qualche inconfessata insofferenza di sentir «parlare male di Garibaldi». L’articolo «incriminato» (posso chiamarlo così?) mi ha stupito per la mescolanza di profonde intuizioni con valutazioni assai discutibili e per la confusione che fa tra due ordini di problemi distinti, come cercherò di dimostrare.
Innanzitutto la confusione. Si vuol porre in discussione la posizione dei cattolici di fronte a certe esigenze dello Stato nazionale: quelle militari. Ma non bisogna dimenticare che le stesse esigenze ci sarebbero nello Stato federale europeo. Anche lo Stato federale avrà bisogno di difendere la pace, il lavoro, i beni dei suoi cittadini da guerre, invasioni, disordini, e perciò chiederà loro quelle stesse prestazioni militari. Con ben altre prospettive di quelle dello Stato nazionale, direte voi. D’accordo: ma questo è un altro problema.
Toccare una questione profonda come quella della posizione del cristiano di fronte alla guerra non è, credo, tra i compiti di una rivista politica. Tuttavia, poiché l’avete toccata, non posso replicarvi senza occuparmene, non per risolvere il problema, ma per impostarlo nei suoi giusti termini. Occorre dunque (se proprio si vuol discutere di tali cose!) chiedersi innanzitutto: qual è l’atteggiamento del cattolico in quanto cittadino di fronte alla guerra che investe il suo Stato (qualunque Stato, nazionale o federale)? E una volta chiarito questo punto e precisati in ordine generale i doveri e le responsabilità, ci si potrà domandare se tutto questo valga per ogni forma di Stato, ed eventualmente si potranno fare delle distinzioni fondate su ben chiari e ben precisati motivi. Permettetemi di formulare alcuni punti sulle linee generali del problema: 1) La difesa della comunità dei cittadini e dei loro beni è un dovere dello Stato. 2) Il cristianesimo non condanna la legittima difesa d’una società ordinata a Stato quando essa venga attaccata. L’invito ad accettare l’offesa (che è poi l’invito all’amore nel più sublime disinteresse) è rivolto alla persona umana, non alla società: accettare per sé una rinuncia è cosa grande e spesso eroica («dona anche il mantello a chi ti vuol rubare il vestito»), ma accettare passivamente di veder spogliata la comunità a cui si appartiene è delittuoso. 3) Perciò il cristiano è tenuto a partecipare alla difesa militare dello Stato. 4) Ben più complessi problemi pone invece la guerra di offesa. Si tratta di questioni assai discusse e tuttora aperte, che sarebbe vano tentar di riassumere in poche parole. Meglio rimandare chi voglia approfondire la cosa a trattazioni quali l’acuto scritto di mons. Busti «Il cristiano e la guerra» apparso — con un certo coraggio — all’inizio del 1943 nel volumetto «I problemi del cristiano» (ed. Vita e Pensiero). Mi limito a qualche accenno: a) da un lato la possibilità di fare ricorso alle organizzazioni e ai tribunali internazionali (anche se, ahimè, piuttosto impotenti…) e d’altro lato (ed è la cosa più grave) la potenza terribile delle armi d’oggi, rendono ormai ingiustificabile uno Stato che promuova la guerra, anche se lo faccia in nome di veri e accertati diritti; b) d’altra parte non è sempre molto chiaro quale fra i due contendenti abbia cominciato per primo: ed è particolarmente difficile capirlo per il cittadino, che spesso usufruisce di strumenti d’informazione tendenziosi (difficilissimo sarà nella futura eventuale guerra missilistica, in cui lo scambio delle offese avverrà nel giro di pochi minuti); c) perciò la dottrina cristiana non invita il cittadino ad erigersi contro la disciplina dello Stato a cui appartiene se non per gravi motivi che s’impongano in modo chiaro e inequivocabile alla sua coscienza; d) non potendosi addossare normalmente all’individuo il peso gravissimo d’un giudizio e d’una scelta di questo genere, la responsabilità della guerra ingiusta ricade sui capi degli Stati, non sui cittadini che loro obbediscono. 5) Torniamo al problema generale. Una volta che sia chiarita per il cristiano l’esistenza di un dovere, di qualunque dovere (verso persone o verso società, non ha importanza) esso diventa per lui innanzitutto un dovere verso Dio. Considerarlo in questa luce, invocare in esso l’aiuto di Dio, non significa affatto mettere Dio al servizio delle cose umane (esemplare è l’atteggiamento — spesso dolorosamente vissuto — di alcune profonde anime cristiane come il grande Giosuè Borsi).
E qui mi fermo, perché vedo che il discorso sbanda sempre di più verso i lidi della teologia, e dunque assai lungi dai temi d’una rivista politica… Ma vedete un po’ dove ci si va a cacciare quando si toccano argomenti così lontani e complessi. Si finisce in alto mare. Tanto più se chi fa il «pezzo» tira in ballo valori e idealità a cui nel suo intimo si sente piuttosto estraneo (come dimostra chiaramente l’articolo in questione) e tuttavia vuol navigare a tutti i costi in quelle acque che non conosce.
Torniamo alle preghiere del soldato. L’articolista potrebbe rispondermi: «Ammettiamo (e come si può negare?) che ogni dovere del cittadino è dovere del cristiano e quindi è per lui dovere verso Dio. Rimane però il fatto che nell’adempimento dei suoi doveri il cristiano non dovrebbe accogliere espressioni, miti, forme che siano in contrasto con la sua vocazione cattolica cioè universalistica. Difendere il proprio paese, le proprie case, i propri fratelli, sta bene: ma senza porre la propria nazione al di sopra delle altre, senza vedere le cose attraverso la lente deformante delle. passioni nazionali». E siamo d’accordo. D’accordissimo. Non si può negare che alcune espressioni di quelle preghiere denotino una certa accettazione di forme e di miti nazionalistici. Ma si potrebbero sottolineare, volendo, altre espressioni, altre frasi che mostrano, al contrario, il tentativo di sostituire ai miti la concretezza delle cose umane viste in uno spirito di sincera fraternità («le nostre case lontane, le care genti»; «la concordia che lo lega a tutti i cittadini della sua terra»; «le nostre mamme, le nostre spose, i nostri figli e fratelli lontani»; «fa che essi rechino ovunque un lievito ardente di umana fraternità, così che anche la legge degli uomini alimenti l’entusiasmo per le cose vere e per le cose giuste»); fraternità nazionale, per lo più, ma anche, sia pur timidamente accennata, fraternità universale («la umana famiglia»; «ogni ala italiana rechi ovunque testimonianza di giustizia e di pace, secondo la tua buona Novella»).
Tuttavia non vale la pena di perdere molto tempo ancora a discutere di preghiere. Mi sembra che esse appunto per una certa varietà d’accenti mal si prestino a una discussione di carattere ideologico, e che il torto dell’articolista sia stato di aver scelto, per dimostrare il suo assunto, un esempio sbagliato.
Ultimo punto, brevissimo: un giudizio personale sul modo di affrontare il mito nazionalistico. Trovo che il tono di quell’articolo è troppo violento perché possa persuadere la maggioranza dei lettori. Le stesse cose, dette con qualche attenuazione verbale, riuscirebbero più persuasive. Le stesse cose, dette nella lucida e penetrante esposizione di Pio XII, che l’articolista ha citato molto bene, appaiono chiare e convincenti non solo a noi federalisti ma a tutti coloro che sono capaci di giudicare con serenità e senza sentimentalismi la realtà dei nostri Stati nazionali.
Con cari saluti e auguri
Claudio Bascapé