Anno XXXI, 1989, Numero 3, Pagina 267
Il momento storico che sta vivendo l’Europa comunitaria è eccezionale. Da alcuni anni un dinamismo che sembrava spento ha ripreso ad animare le istituzioni della CEE. La prospettiva del mercato unico — la libera circolazione non soltanto delle merci, ma delle persone, dei capitali, dei servizi — ha imposto una tabella di marcia estremamente impegnativa, condensata nel noto Libro bianco della Commissione: circa trecento misure specifiche dovranno essere adottate se si vorrà raggiungere l’obiettivo. Non solo: è ormai diffusa a livello politico, negli ambienti economici e presso le istituzioni comunitarie, la convinzione che il mercato unico non potrà divenire operativo senza un intervento sulle strutture monetarie comuni, tale da configurare — in forme che sono attualmente allo studio di una apposita commissione — una futura Banca centrale europea.
Tutto ciò poteva sembrare impensabile solo pochi anni orsono. Proprio per questo vale la pena di vedere da vicino come si sia giunti alla svolta, quali siano le prospettive di successo, quali le implicazioni istituzionali di questa fase della costruzione comunitaria.
Sulla genesi di essa, ritengo che lo storico di domani — oggi troppi elementi della documentazione sono ancora inaccessibili per poter giungere a una ricostruzione sicura — non potrà non compiere alcuni collegamenti. Il dinamismo attuale è dovuto al fatto che una parte imponente delle forze economiche dei dodici paesi della CEE ha preso alla lettera la scadenza del 1992 ed ha iniziato già da un paio d’anni le ristrutturazioni ritenute indispensabili per reggere con successo ad una concorrenza «totale». Il semplice annuncio ha provocato un effetto anticipato che è ben noto alla teoria economica. A sua volta, la scadenza del 1992 è stata proclamata nell’Atto Unico europeo del 1986. Ma chi legga quanto lì è scritto nota con sorpresa che la scadenza stessa non è affatto ritenuta vincolante dagli Stati. Dunque l’economia — la parte più sana e dinamica dell’economia — ha scontato e dato per certo ciò che gli Stati si erano limitati ad enunciare in forma non impegnativa: meno impegnativa di quella adottata dagli stessi Stati nel 1972 per preannunciare l’unione economica e monetaria entro il 1980, senza che, allora, i fatti seguissero alle parole. Ciò mostra come il mondo delle imprese sia oggi ben più orientato a giocare la carta europea di quanto lo fosse quindici anni orsono.
Ma occorre fare un altro passo a ritroso. L’Atto Unico che annuncia la scadenza del ‘92 è a sua volta la risposta che gli Stati della Comunità hanno dovuto dare — non hanno potuto fare a meno di dare — ad un’iniziativa che non era partita da loro, bensì da un organo della Comunità, il Parlamento europeo. Senza il progetto per l’Unione europea, approvato dal Parlamento europeo il 14 febbraio 1984 per iniziativa di Altiero Spinelli, il Consiglio europeo non avrebbe né messo allo studio né approvato l’Atto Unico, un testo che sotto il profilo delle istituzioni modifica di poco la costruzione comunitaria, ma che ha dato l’avvio al grande movimento per il mercato unico.
Se questo è vero — ed a me i nessi ora proposti sembrano inoppugnabili — la fase attuale della Comunità è un frutto nato da una pianta diversa: un progetto naufragato di riforma istituzionale ha generato la nuova spinta all’unificazione economica del nostro continente. La storia conosce di queste deviazioni, di questi innesti, per i quali è appropriata la formula hegeliana della eterogenesi dei fini. Del resto, non è lo stesso mercato comune dei Trattati di Roma, almeno in parte, un frutto sostitutivo della mancata Comunità europea di difesa del 1954?
I nodi istituzionali non sono dunque lontani o ininfluenti quanto la linea politica oggi prevalente a livello comunitario tende a far credere. Ciò vale rispetto al passato, e vale ancor più nella prospettiva del futuro. Vediamo perché.
Rispetto all’obiettivo del mercato unico interno, è noto che le decisioni più delicate sono quelle ancora da prendere. La ragione dei rinvii è semplice: nonostante l’Atto Unico abbia esteso i casi in cui il Consiglio dei Ministri può deliberare a maggioranza, non soltanto per le questioni davvero importanti i Trattati esigono tuttora l’unanimità, ma per giunta resta in vita la prassi contraria ai Trattati inaugurata nel 1966 con il cosiddetto compromesso di Lussemburgo, in virtù della quale ogni Stato della Comunità può esigere l’unanimità per le questioni che esso stesso dichiari «di interesse vitale». Dunque, un diritto di veto che impedisce di decidere anche in presenza di un solo dissenziente. La paralisi tante volte verificatasi nei lavori del Consiglio dei Ministri nasce di qui.
E’ sin troppo facile osservare che nessun organismo umano che comprenda una pluralità di membri e di interessi può funzionare in modo soddisfacente se si esige l’unanimità. E’ fuori luogo ricordare che persino per l’elezione del papa la Chiesa si accontenta del suffragio dei due terzi dei cardinali riuniti in conclave? E che la regola dell’unanimità porta alla conseguenza di rendere i più prigionieri dei meno?
Occorre mettere a nudo la contraddizione che sta alla base dell’ideologia dell’unanimità. L’esistenza stessa della Comunità europea nasce dal riconoscimento che esistono settori della vita collettiva, ambiti della vita economica, dunque decisioni politiche, tali da interessare l’insieme degli Stati membri e non soltanto ciascuno di essi isolatamente considerato. Si tratta dei settori di competenza comunitaria, previsti dagli stessi Trattati (ai quali verosimilmente, in futuro, altri se ne aggiungeranno, sia sul terreno economico — la moneta — che su altri terreni, in primo luogo quello della difesa). Se esiste un interesse comune — in ultima analisi, l’interesse comune dei popoli che fanno parte della Comunità, i quali sotto questo profilo formano un solo popolo — non può essere se non un organo comune a decidere secondo le regole della democrazia, e perciò a maggioranza.
La legittima preoccupazione di tutelare gli interessi di ogni singolo Stato, di ogni singolo popolo, non deve impedire che nei settori di competenza della Comunità — che sono settori per così dire residuali, in linea con il fondamentale principio di sussidiarietà — sia la Comunità nel suo insieme a doversi e a potersi pronunciare. Così accade, all’interno degli Stati, riguardo a decisioni che una o più Regioni potrebbero considerare contrarie al proprio interesse, ma che sono invece ritenute, dagli organi centrali dello Stato in questione, conformi all’interesse generale.
Un secondo basilare difetto del sistema istituzionale previsto dai Trattati di Roma risiede nella negazione del principio della separazione dei poteri. Mentre il potere giudiziario della Comunità è correttamente esercitato dalla Corte di Giustizia (ed è allo studio l’istituzione di tribunali di prima istanza), il potere legislativo e il potere esecutivo sono in prevalenza nelle mani di un unico organo, il Consiglio dei Ministri: i Ministri legiferano, i Ministri assumono le decisioni fondamentali relative al governo comunitario. La Commissione ha sì poteri di iniziativa, ma per converso esercita poteri di governo e poteri regolamentari ben più ridotti rispetto a quelli che sono propri di un governo nazionale. A sua volta, il Parlamento europeo vota il bilancio (ma con l’apporto necessario del Consiglio) e può far dimettere la Commissione; i suoi poteri di natura legislativa rimangono modesti anche dopo la modifica dell’art. 149 del Trattato avvenuta con l’Atto Unico.
Quanto un tale assetto sia squilibrato è evidente. Per la Comunità l’era del costituzionalismo non è ancora giunta: siamo tuttora nella fase storica dell’assolutismo. Ciò è grave perché la separazione dei poteri costituisce una garanzia fondamentale per il cittadino. Distinguere chi vota le leggi da chi è chiamato, con l’attività amministrativa e politica, ad applicarle, vuol dire sottrarre l’organo legislativo alla tentazione di amministrare le norme da esso votate trasformandosi in governo d’assemblea, e vuol dire togliere al governo il potere di dettare le regole generali di cui ogni comunità necessita. Il principio della separazione, che è di Locke e della rivoluzione inglese del 1688, il principio illustrato da Montesquieu, accolto dalla Costituzione americana, voluto dalla rivoluzione francese è lo strumento migliore che l’esperienza storica abbia sinora prodotto per limitare gli abusi del potere politico. Non è pensabile che la terra d’origine delle moderne democrazie, l’Europa, possa ignorarlo entro la sfera delle competenze comunitarie dopo averlo insegnato al resto del mondo[1].
Ma c’è di più. L’esercizio del potere legislativo da parte del Consiglio dei Ministri è viziato alla radice per difetto di legittimità democratica. Se la sovranità risiede nel popolo, se l’attività legislativa è la manifestazione prima della sovranità perché fissa le regole generali di condotta, il potere di fare le leggi non può che spettare a un organismo eletto a suffragio universale. E’ questo un altro caposaldo della democrazia, di matrice europea, la cui realizzazione ha richiesto circa due secoli sul nostro continente, dalla fine del Seicento alla fine dell’Ottocento. L’Europa di domani non potrà non accoglierlo nella propria costituzione[2]. In un modello di tipo federale la legittima pretesa degli Stati membri di contare in quanto tali anche nell’iter legislativo viene soddisfatta creando una seconda Camera, chiamata anch’essa a votare le leggi, che non sono approvate se non con il voto dei due bracci dell’organo legislativo: ciò può essere agevolmente stabilito anche per le leggi dell’Europa comunitaria. Regola dell’unanimità e conseguente diritto di veto; mancata separazione del potere legislativo dal potere esecutivo; attribuzione del potere legislativo a un organo carente di legittimità democratica perché non eletto a suffragio universale: ecco i tre difetti fondamentali del sistema istituzionale comunitario attuale. Essi si riassumono in un solo, capitale difetto, che è un difetto di democrazia. E’ chiaro, a questo punto, dove si debba intervenire per correggere il sistema: il potere legislativo va tolto al Consiglio dei Ministri e conferito al Parlamento europeo, che lo potrà condividere con un organismo che rappresenti gli Stati (quale, in ipotesi, lo stesso Consiglio dei Ministri deliberante a maggioranza). Il potere esecutivo va attribuito essenzialmente alla Commissione.
Entro questa cornice, molti possibili assetti sono concepibili, e ciascuno di essi presenta vantaggi e svantaggi. Ad esempio, la preoccupazione di garantire stabilità all’esecutivo può far preferire un governo (la Commissione) la cui durata sia prestabilita anziché dipendere da un voto del Parlamento europeo; ovvero è immaginabile che lo stesso presidente dell’esecutivo sia eletto a suffragio universale secondo il modello americano (che tuttavia mi parrebbe non adatto alla realtà europea); ovvero si possono attribuire all’organo che rappresenta gli Stati taluni poteri di nomina o di conferma di atti dell’esecutivo, analogamente a quanto avviene nel Senato USA; o, ancora, si può dare al governo un ampio grado di potestà regolamentare, secondo il modello francese della Costituzione del 1958; e così via. Su queste e su altre possibili scelte costituzionali occorrerà riflettere con attenzione nei prossimi anni. Ma non è qui l’essenziale: l’essenziale sta nella correzione dei tre difetti del sistema istituzionale comunitario di oggi, che si riducono poi, come si è visto, ad un solo difetto di fondo.
Occorre tenere presente che l’esigenza di introdurre la democrazia nella costruzione europea non è soltanto un’esigenza ideale. Essa nasce dall’esperienza di trent’anni di Europa comunitaria. La democrazia è il modo corretto per giungere in tempo reale alle decisioni politiche che la storia pone alle nostre società. A chi dichiarasse di preferire il sistema attuale per evitare le lungaggini parlamentari sarebbe sin troppo facile obiettare che la democrazia, correttamente intesa ed applicata, è il regime che esalta e che premia l’efficienza. Le grandi scelte sono discusse e decise da chi rappresenta il popolo, e non continuamente eluse come ora accade e come sarebbe sin troppo facile documentare. Il governo agisce nel proprio ambito di responsabilità e risponde direttamente al popolo, ovvero all’organo rappresentativo eletto dal popolo stesso. Il consenso e il dissenso creati dall’azione dei due organi e dai programmi futuri si misurano al momento delle elezioni, e con ciò si imprime l’impulso determinante per la legislatura successiva. E’ questo il solo meccanismo realmente efficiente perché fondato, ad un tempo, sul consenso dei governati e sulla responsabilità dei governanti.
Oggi ciò non accade. La Commissione ha un’autonomia insufficiente; e può succedere — è successo — che un Commissario non sia confermato poiché non ha condiviso la linea d’azione comunitaria del governo che lo ha nominato: come se i Commissari non fossero tenuti, in base al Trattato stesso di Roma, ad agire nell’interesse della Comunità. Non è al Consiglio dei Ministri, né tanto meno ai singoli governi, che la Commissione deve rispondere. I ministri nazionali sono responsabili di fronte ai propri parlamenti, di fronte ai propri elettori nazionali, e non si può pretendere che essi svolgano due ruoli che devono rimanere distinti, quello nazionale e quello europeo. Il Consiglio dei Ministri, caricato di troppe attribuzioni, è un organo al tempo stesso troppo potente e impotente. Ancora più grave è la condizione del Parlamento europeo. Non si scomodano 320 milioni di elettori per nominare un organismo quasi senza poteri. Questo significa giocare con la democrazia, beffare la sovranità popolare. E’ una beffa che deve una buona volta venire smascherata.
Il Parlamento europeo è il solo organo legittimato a rappresentare la volontà generale degli Europei sul terreno legislativo. Che sia anche in grado di farlo, lo ha ormai dimostrato: nella prima legislatura approvando il progetto di Unione che è all’origine, come si è detto, dell’attuale rilancio della costruzione comunitaria; nella presente legislatura rivendicando per sé il ruolo costituente che gli spetta in base alla propria legittimazione popolare; la terza legislatura dovrà e potrà essere quella costituente. Naturalmente, sono i governi nazionali a poter conferire al Parlamento europeo questo mandato, e saranno i Parlamenti nazionali a decidere la ratifica del progetto di costituzione europea elaborato dal Parlamento di Strasburgo. Il bicentenario della rivoluzione francese non deve indurre a disegni irreali: oggi la via percorribile è soltanto quella della legalità democratica.
Un punto deve tuttavia venire affermato con forza: non si pretenda, per avanzare nella costruzione europea, l’accordo unanime degli Stati membri. Si deve naturalmente cercare l’accordo di tutti, ma i fautori dell’Unione debbono essere disposti a procedere anche se alcuni Stati membri vi si rifiutano. Per essere chiari: non è indispensabile che le linee costituzionali dell’Europa di domani siano condivise sin d’ora dall’Inghilterra o dalla Danimarca, perché gli altri Stati della CEE decidano di adottarle. L’Unione europea può venire raggiunta da un primo gruppo di Stati, e chi non vi aderisca può mantenere i legami e le procedure previste dai Trattati di Roma. Anche da un punto di vista giuridico, ritengo sia stato dimostrato che Unione europea e Comunità non sono affatto incompatibili[3]. E’ un fatto ben noto che se si fosse voluta ad ogni costo l’adesione dell’Inghilterra sin dall’inizio, la CEE non sarebbe mai nata: quella CEE che oggi tanto conviene anche alla Gran Bretagna. Le perplessità inglesi, così bene spiegabili in base alla storia remota e recente di questo nobile paese, non possono costituire per gli altri paesi del continente un alibi per rimanere fermi[4].
Le difficoltà da superare sono però ancora enormi. Chiedere ai governi di rinunciare spontaneamente al monopolio del potere legislativo comunitario è chiedere loro un atto contro natura, come la storia insegna e come la teoria politica conferma, da Tucidite in poi. Solo una forza superiore può costringere gli Stati a questo salto: una forza che può consistere o nella conquista militare (e la storia d’Europa è una storia, ormai fortunatamente conclusa, di tentativi mancati di unificazione coatta, come Dehio ha così bene mostrato), o nella paura di un nemico esterno, o nella volontà popolare. La paura, insieme con l’orrore per la guerra recente, ha condotto, nei primi anni Cinquanta, ad un passo dalla Federazione europea. Oggi, diminuita la paura e attenuatosi il ricordo dell’orrore della guerra, la spinta decisiva all’unione può venire solo dalla volontà popolare, che percepisce i valori e gli interessi di fondo in modo più limpido che non i governi. Non è forse enormemente significativo che da anni i sondaggi mostrino l’esistenza di una solida maggioranza in favore degli Stati Uniti d’Europa da parte di tutti i paesi continentali della CEE, ad eccezione della sola Danimarca? Anche per questa ragione ritengo che l’ormai probabile abbinamento, in Italia, delle elezioni europee del prossimo giugno 1989 ad un referendum consultivo sul mandato costituente da conferire al Parlamento europeo abbia un forte significato e possa costituire un esempio per altri Stati della CEE.
Nel processo che è in corso, la cultura può svolgere un ruolo fondamentale: non pochi degli ostacoli che si frappongono al completamento in senso democratico delle istituzioni europee provengono da ideologie superate, da miti di indipendenza e di sovranità che sopravvivono all’evoluzione della storia, da deformazioni di prospettiva esaltate dai mezzi tradizionali di trasmissione delle informazioni, dalla stampa, dai mass-media, che privilegiano ciò che esiste e si vede rispetto a ciò che non esiste ancora ma solo silenziosamente chiede, per così dire, di esistere. La vera cultura va controcorrente, disseppellisce ed esalta i valori ignorati dal potere ma latenti nella società civile perché latenti in ogni singolo uomo. In questo processo, il ruolo della Chiesa e delle Chiese può essere determinante: d’altronde, lo è già stato. Se vi è una forza rimasta immune dal contagio dell’ideologia nazionale e dal mito funesto della sovranità illimitata degli Stati, questa è la Chiesa. La tensione verso l’unità, istituzionalmente garantita, è una dimensione essenziale del cristianesimo. Per tacere di altre dimensioni unificanti della tradizione e della spiritualità cristiana, che sono state evocate in più occasioni e che tralascio perché non direttamente attinenti alla sfera delle istituzioni politiche.
La riforma istituzionale della CEE è dunque una vicenda aperta, della quale oggi è difficile prevedere l’esito. Il fatto che essa sia coerente con i valori su cui si fondano le istituzioni politiche degli Stati europei, il fatto che sia richiesta dal processo di unione economica in corso non la rende inevitabile né certa, bensì necessaria e auspicabile. C’è però una ragione di fondo che deve indurre a moltiplicare gli sforzi nella direzione indicata e che vorrei richiamare in via conclusiva, perché è coerente con l’impostazione di questa giornata di studio: l’Unione europea su base federale non è un evento che riguardi solo gli Europei. E’ un fatto, è un processo di portata mondiale, planetaria.
L’unione, se gli Europei la vorranno e la sapranno raggiungere, sarà il nuovo, fondamentale contributo che il continente antico avrà dato alla civiltà alla fine del secondo millennio. La terra di origine degli Stati nazionali, la regione del mondo dalla quale sono divampate in questo secolo le due guerre più terribili della storia — che è poi la regione che ha dato al mondo un patrimonio di arte, di cultura, di scienza su cui si fonda in larga misura la civiltà contemporanea — avrà mostrato con i fatti quale sia la via nuova da percorrere, la sola via che rende impossibile la guerra: la via dell’unificazione su base federale. Non si deve dimenticare che l’anima vera dell’Unione europea è stata ed è tuttora la pacificazione franco-tedesca, il superamento del nazionalismo. Oggi la situazione politica internazionale rende altamente improbabile un riaccendersi di tensioni militari nell’Europa occidentale, ma il significato dell’unificazione — che dovrà un giorno comprendere la difesa, e perciò stesso renderà impossibile la guerra tra gli Stati europei — rimane prima di tutto un significato di pace. La via dell’unificazione su base federale potrà offrire ad altri continenti oggi divisi in Stati sovrani, come l’Africa o come l’America meridionale, un modello ben più valido di quello sinora seguito, pur esso di matrice europea.
Di più, l’unificazione europea potrà dischiudere la via all’impresa somma per la quale i tempi stanno diventando maturi e che si nomina quasi con tremore: l’unificazione politica del genere umano. I grandi problemi sociali e politici del nostro pianeta — la fame, il divario Nord-Sud, le guerre locali, il rischio nucleare, il disastro ecologico — sono risolubili soltanto nel quadro di istituzioni politiche mondiali che costringano, per così dire, alla solidarietà tra i popoli ed alla pace: non la solidarietà dei sentimenti e la fraternità degli spiriti (che pure sono essenziali e non certo ancora raggiunte), non la tregua delle armi per timore reciproco, non gli accordi negoziati di volta in volta tra gli Stati, ma la solidarietà dei comportamenti, la compenetrazione degli interessi, l’impossibilità tecnica della guerra; si dovrà giungere alla programmazione mondiale degli interventi e degli investimenti per l’ecologia, per l’agricoltura, per l’industria, per i servizi, che è vano sperare venga decisa spontaneamente da Stati sovrani, ognuno preoccupato del proprio benessere, mosso dalla propria ragion di Stato. Solo la ragion di Stato del mondo unificato coincide con l’interesse generale del pianeta, con il bene comune dell’umanità intera e non di parti di essa.
E’ in questa prospettiva di istituzioni politiche continentali e mondiali che la vicenda dell’unificazione europea acquista il suo vero significato. Ed allora il disegno delle istituzioni comunitarie di domani e la strategia per giungervi assumono un valore ben più universale. Il modello federale e il principio di sussidiarietà, che consentono il rispetto delle diverse culture e tutta l’autonomia e la partecipazione compatibili con l’interesse generale e con la tutela reciproca; il modello democratico — ancora largamente minoritario nel mondo contemporaneo — che addita nell’uomo in quanto tale, in ogni uomo, anziché in élites di qualsivoglia natura, la sede delle scelte politiche ultime (un modello sulla genesi civile e religiosa del quale molto vi sarebbe da dire); il principio rappresentativo, che àncora il potere ad una fonte esterna ad esso; il modello della separazione dei poteri che ne impedisce o ne limitagli abusi: tutto ciò non è altro, a ben vedere, se non l’oggetto della auspicata riforma istituzionale comunitaria, e costituisce in pari tempo un modulo centrale delle istituzioni politiche continentali e mondiali di domani.
Antonio Padoa Schioppa
* Si tratta del testo della relazione svolta presso l’Università Cattolica di Milano il 13 gennaio 1989 in occasione del Convegno «Dall’Unione europea all’unità politica del genere umano».
[1] Ciò resta vero anche nell’epoca attuale, in cui pure l’equilibrio dei poteri di matrice illuministica si è in molti casi modificato (si pensi alla Costituzione francese del 1958 e soprattutto alla costituzione materiale di gran parte degli Stati occidentali): il potere esecutivo ha bensì accresciuto il suo ruolo di promotore della produzione normativa, ma il controllo dei Parlamenti all’atto dell’approvazione di nuove leggi permane indiscusso. La questione di come la dottrina classica dei poteri debba venir riformulata non può essere affrontata in questa sede.
[2] Essenziale è anche la pubblicità nell’iter di elaborazione e di approvazione delle leggi comunitarie. Attualmente avviene che una parte essenziale della normativa giuridica che disciplina l’economia degli Stati della CEE — normativa prevalente rispetto al diritto interno, come è noto — venga ad esistenza nel chiuso degli uffici comunitari e dei gabinetti ministeriali, senza la possibilità di una discussione pubblica.
[3] Si veda il resoconto del Convegno organizzato nel 1987 dalla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Milano, «Unità europea e Comunità europea: due assetti istituzionali incompatibili?», in Il Federalista, XXX (1988), pp. 210-217.
[4] E’ appena il caso di aggiungere che la costruzione deve rimanere sempre aperta non soltanto nei riguardi dei paesi membri della CEE, ma anche dei paesi dell’Europa settentrionale e dell’Europa centro-orientale. Il modello federale rende agevole l’ingresso di nuovi Stati-membri.