Anno LVi, 2014, Numero 3, Pagina 312
NOTE SPARSE
SULL’INTEGRAZIONE DIFFERENZIATA*
“Quando si parla di politica non si sa mai bene a che cosa si pensa, perché si parla soprattutto dei fini e ben poco dei mezzi. Per questo facilmente la politica diventa una guerra di parole, dietro alle quali può stare qualunque cosa…. Per questo il compito più difficile del rivoluzionario resta proprio quello di usare bene la ragione per dirigere la lotta verso un obiettivo nuovo in un mondo dove le abitudini, i pensieri fatti, i luoghi comuni indirizzano gli uomini verso i vecchi obiettivi” (Mario Albertini, Esame tecnico della lotta per l’Europa, Il Federalista, 1, n. 2, (1959), p.86 ss.)
La fase storica che stiamo vivendo in Europaconferma l’analisi dei federalisti che l’unione monetaria non è stata, non è e non potrà essere la tappa conclusiva del processo di unificazione europea; ma che, al tempo stesso, essa costituisce un punto di svolta, perché un suo eventuale fallimento segnerebbe in modo irreversibile la fine di tale processo, con il ritorno del nazionalismo e la crisi della democrazia nel nostro continente. L’unione economica e monetaria è dunque il quadro da cui si può, e si deve, partire per costruire l’unione politica federale.
Il fatto che l’unione monetaria, concepita inizialmente come un quadro che coincideva con quello dell’Unione europea (pur prevedendo, per una parte degli Stati, delle deroghe temporanee, in attesa che raggiungessero i requisiti necessari), si sia poi trasformata definitivamente in un sottosistema all’interno dell’UE (a causa della volontà di alcuni Stati di non farne parte), aggiunge tuttavia un’ulteriore difficoltà alla battaglia per il raggiungimento dell’obiettivo federale: quello della necessità di governare (e istituzionalizzare) la differenziazione all’interno del quadro dell’Unione.
I problemi creati dal diverso grado di volontà politica degli Stati membri di approfondire la reciproca integrazione risalgono all’ingresso stesso della Gran Bretagna nella Comunità. Ma è con la nascita dell’unione monetaria e con l’avvio del processo di allargamento ai paesi dell’Europa centro-orientale che il problema è diventato di dimensioni tali da costringere l’Unione a cercare di affrontarlo nei trattati in termini istituzionali. Ai fini della battaglia federalista diventa quindi indispensabile innanzitutto chiarire che cosa significa differenziazione (e quali diversi tipi di differenziazione si devono prendere in considerazione); e sgombrare il campo dall’ambiguità — e dall’imprecisione — nell’uso e nello sfruttamento, non solo in campo giuridico, ma anche politico, delle diverse forme di differenziazione e di flessibilità previste dal Trattato di Lisbona. Perché è grazie al linguaggio che la mente può organizzare i suoi contenuti in categorie, in idee su cui può basarsi la politica, e tradurre le idee in azioni e fatti; e quindi secondo il linguaggio che si usa, si compiono certi tipi di associazioni piuttosto che altri, non solo tra parole e oggetti del mondo, ma anche tra parole e altre parole o concetti. Partire dall’uso il più controllato e scientifico possibile dei termini che servono alla politica per entrare in contatto con il mondo con l’ambizione di influenzarlo e cambiarlo è per noi da sempre una priorità non solo teorica, ma anche pratica. Per questo bisogna ogni volta avere la pazienza e l’umiltà di imparare l’uso ed il significato dei termini che servono per pensare ed agire in un certo momento storico, da chi ha la necessaria competenza scientifica ed esperienza nel campo che ci interessa: come in quello dell’esercizio del diritto dell’Unione europea.
I diversi modelli di flessibilità.
Come spiega Giulia Rossolillo nel suo recente studio,[1] a partire dal Trattato di Maastricht il dibattito sulla differenziazione nell’ambito dell’Unione europea si è concentrato essenzialmente intorno a due differenti modelli, che riflettono due visioni diverse del processo di integrazione. Il primo, che trova la sua piena espressione nel rapporto Schäuble-Lamers presentato al Bundestag dal gruppo parlamentare CDU/CSU nel 1994, concepisce la flessibilità come uno strumento atto a far sì che un gruppo omogeneo di Stati, animato dalla volontà di compiere passi in avanti sulla via dell’integrazione, dia vita a una sorta di nucleo all’interno dell’Unione, e costituisca dunque potenzialmente un’avanguardia, aperta a tutti gli Stati che vogliano parteciparvi, nel processo di integrazione. Il secondo, illustrato tra gli altri dal Primo ministro britannico John Major nelmedesimo anno, consiste in un modello per così dire di Unione europea à la carte, dal momento che la flessibilità viene concepita come uno strumento che consente ad ogni Stato membro di scegliere, per ogni singola materia, se cooperare più strettamente con gli altri Stati o se sottrarsi a forme di integrazione più avanzata.[2]
Il primo modello presuppone che il gruppo di Stati interessato dalla differenziazione sia sempre il medesimo, se pur aperto all’ingresso di altri membri, e sia dotato di una certa autonomia di azione rispetto agli Stati membri esterni ad esso; il secondo, al contrario, lungi dal fondarsi sull’idea di dar vita a una sorta di sottosistema all’interno dell’Unione, sembra piuttosto essere animato esclusivamente dall’intenzione di renderne più efficienti i meccanismi decisionali, per aggirare il diritto di veto da pare di uno o più Stati su singole materie specifiche.
Questo dibattito, sviluppatosi in particolare nel corso della negoziazione del Trattato di Amsterdam, ha di fatto visto prevalere il secondo modello, date le caratteristiche con cui sono state concepite e definite le cooperazioni rafforzate: queste riguardano gruppi di Stati di volta in volta differenti e non si riferiscono dunque a un medesimo gruppo di Stati predefinito; devono essere autorizzate dal Consiglio e possono essere realizzate solo in ultima istanza, e dunque solo dopo che si sia esperito il tentativo di trovare un accordo tra tutti e 28 gli Stati membri; non possono andare al di là degli ambiti di competenza dell’Unione, e quindi non si possono spingere in settori nuovi; devono mantenere intatta la struttura istituzionale della stessa, e dunque non possono dar vita a nuovi organi. Si tratta di caratteristiche, rimaste inalterate anche nel Trattato di Lisbona — che pure ne ha facilitato l’utilizzo, eliminando il cosiddetto “freno di emergenza” (una sorta di diritto di veto) — che le rendono più adatte a costituire uno strumento volto ad aggirare lo scoglio dell’unanimità in alcune materie che a dar luogo a un sottosistema nell’ambito dell’Unione europea.[3]
La prova a contrario è fornita anche dal fatto che, se gli Stati membri avessero voluto accogliere un modello di integrazione differenziata che consentisse la formazione nell’ambito dell’Unione di un nucleo di Stati più integrato, essi avrebbero inserito nei trattati disposizioni molto più simili a quelle contenute nel progetto di costituzione dell’Unione europea presentato al Parlamento europeo dalla Commissione istituzionale nel 1994 (il c.d. progetto Herman), che invece si basava sul modello di flessibilità della costituzione di un gruppo più integrato di Stati all’interno dell’Unione e conteneva le disposizioni necessarie a tale scopo.
Per quanto riguarda l’Unione monetaria, invece, i redattori del Trattato di Maastricht sembrano essersi ispirati a questo modello della flessibilità pensata per un gruppo stabile di Stati in grado di andare “più avanti e più lontano” degli altri. La ragione di tale scelta è in gran parte legata al fatto che la flessibilità pensata per l’unione monetaria, come già si accennava all’inizio, avrebbe dovuto essere temporanea (mentre le cooperazioni rafforzate sono pensate come permanenti); e questo spiega anche la ragione per la quale l’UEM rappresenta una deroga al principio di unità istituzionale al quale la cooperazione rafforzata deve invece attenersi: le istituzioni create per la gestione della politica monetaria avrebbero in futuro coinvolto tutti gli Stati membri dell’Unione europea e dunque l’unità istituzionale si sarebbe ricomposta. Divenuto chiaro negli anni che alcuni Stati non avrebbero mai rinunciato alla loro sovranità monetaria, e dunque che la terza fase dell’UEM non avrebbe coinvolto tutti gli Stati membri, la tendenza alla creazione di una struttura istituzionale propria della zona euro si è peraltro accentuata (nascita dell’eurogruppo, istituzione del MES, questioni poste dal Blueprint del 2012 della Commissione europea e da comunicazioni successive oltre che dalla risoluzione del PE del dicembre del 2013).
Riflessioni sul piano politico.
A seguito delle indicazioni sul completamento dell’Unione monetaria contenute nel Blueprint della Commissione e nel documento dei quattro Presidenti, non ci sono più scuse riguardo a ciò che è necessario fare per realizzare l’unione economica e politica dell’eurozona. Ma a tutt’oggi non c’è la volontà di implementare in tempi certi la road map delle quattro unioni, né c’è sul tappeto alcun progetto coerente per sciogliere i nodi dell’unione fiscale (ormai riconosciuto come il primo passo necessario per avviare il percorso di consolidamento/completamento dell’UEM) e del suo controllo democratico — senza i quali, in prospettiva e di fronte alle sfide interne e mondiali, l’eurozona non ha alcuna consistenza e credibilità.
Il problema è che ogni forma di cooperazione fra Stati, una volta esaurita la spinta a creare le condizioni minime per instaurare e rafforzare la fiducia reciproca fra di essi, se non rientra nella logica di preparare trasferimenti significativi di potere, finisce col ridursi ad un modus vivendi per conservare la sovranità a livello nazionale in un classico quadro di collaborazione internazionale. Per i federalisti non si tratta di nulla di nuovo. È l’insegnamento di Kant e del suo Progetto di pace perpetua: gli articoli preliminari non servono ad instaurare una organizzazione della pace se non hanno come obiettivo quelli definitivi per instaurare la pace tra gli Stati. Alle stesse conclusioni sarebbe giunto Kenneth Wheare riflettendo sulla natura “costituzionale” del Commonwealth, i cui membri, optando all’inizio del secolo scorso per uno sviluppo istituzionale della loro comunità di Stati incentrato sulla cooperazione volontaria permanente, avevano implicitamente escluso ogni prospettiva di evoluzione in senso federale.[4]
Non è un caso, per venire ai nostri temi e problemi, che per creare la moneta europea, cioè per trasferire un cruciale potere nazionale pur senza fare un nuovo Stato, negli anni Novanta gli europei abbiano dovuto andare al di là della logica della cooperazione: superando gli accordi dello SME maturati nel decennio precedente, e andando ad incidere su un fattore cruciale nella vita degli individui e degli Stati: l’esercizio della sovranità monetaria. Il MFE, come testimoniano i documenti dell’epoca, sostenne l’ingresso dell’Italia nello SME e l’entrata in vigore degli accordi per lo SME — che erano di tipo intergovernativo — proprio in quanto contenevano gli elementi per preparare la transizione all’unione monetaria, rendendo esplicito che la moneta la si sarebbe prima o poi dovuta fare con un salto.[5] Fatto questo che anche illustri studiosi dell’epoca come W.M. Corden, pur non partendo da punti di vista federalisti, avevano saputo mettere in evidenza (in Inflation, Exchange Rate and the World Economy, Oxford, 1977). Il collegamento tra il progetto di unione monetaria e quello di unione politica, almeno fino alla prima metà degli anni Novanta, era poi molto più presente alla classe politica di quanto non si voglia far credere oggi, come dimostrano i diversi interventi a proposito dell’indispensabile legame moneta-federazione fatti da leader come Kohl e Ciampi.
La nuova dinamica del processo europeo.
Come abbiamo già detto, l’Unione economica e monetaria è nata come una differenziazione temporanea, che però ha assunto i caratteri della permanenza nell’ambito dell’Unione europea: in prospettiva tutti i paesi membri avrebbero dovuto — dovrebbero — entrare a farne parte, ma è ormai evidente che ciò non potrà accadere nel prevedibile futuro. Questo spiega perché, col passare del tempo, per agire e sopravvivere, questa unione differenziata non avrebbe potuto funzionare, e non funzionerebbe più, senza continue deroghe al principio dell’unità istituzionale. E questo aspetto della vita della moneta europea è diventato così importante per la tenuta non solo dell’eurozona, ma anche di paesi le cui economie sono ad essa collegata, da depotenziare enormemente la strategia frenante della Gran Bretagna: semplicemente il rafforzamento istituzionale dell’eurozona è ormai nell’interesse anche di Londra.
È così che si spiega quanto è successo negli ultimi tre anni in termini di modifiche dei trattati, nuovi trattati, introduzione di nuove istituzioni ed organismi, azione della BCE, crescente autoesclusione della Gran Bretagna da eventuali nuovi approfondimenti.
Ed è per questo che le cooperazioni rafforzate, che hanno trovato scarsissima applicazione, e in settori non cruciali dell’esercizio della sovranità nazionale, non sono state in alcun modo determinanti per gestire le emergenze della crisi prima e non appaiono determinanti adesso per definire il nuovo quadro istituzionale. Esse si rivelano per quello che sono: degli strumenti per consentire l’attivazione di differenziazioni sì permanenti, ma solo su singole politiche settoriali che restano aperte alla partecipazione di tutti gli Stati membri, anche di quelli che potenzialmente le vorrebbero sabotare. Sono, di fatto, il punto di convergenza della volontà e degli interessi sia dei paesi che avrebbero voluto aggirare lo scoglio dell’unanimità per procedere più speditamente — ma senza cedere sovranità —; sia dei molti che non volevano che si consolidasse il principio della differenziazione istituzionale introdotto con l’UEM; sia infine di quelli, come la Gran Bretagna, che volevano continuare ad esercitare la propria influenza per frenare qualsiasi accelerazione federale dall’interno delle istituzioni europee, senza essere nuovamente spinti all’esterno del quadro. Concepite per mantenere l’unità istituzionale del quadro dell’Unione senza sciogliere il nodo della sovranità in campi cruciali, lasciano agli Stati, sia a quelli che vi partecipano, sia a quelli che non vi partecipano, ampi margini per aggirarle, e non si pongono nell’ottica di costruire sottoinsiemi istituzionali omogenei nell’Unione europea. Attraverso esse resta infatti sempre possibile per ciascuno Stato denunciare, sulla base dei trattati (art. 327), l’incidenza indebita sulle proprie politiche nazionali delle politiche promosse nell’ambito di una cooperazione rafforzata. Per esempio, nel caso dell’avvio di eventuali cooperazioni rafforzate in campo fiscale, cioè nel campo cruciale in cui oggi si gioca la partita dell’unione, tutti i Parlamentari europei resterebbero tenuti a votare tutti gli atti legislativi, inclusi quelli che riguarderebbero solo i paesi che condividono la stessa moneta. E da parte loro i parlamentari europei eletti nei paesi dell’eurozona, in base agli attuali trattati, continuerebbero a non poter comunque decidere modifiche delle regole dell’Unione applicabili solo per l’area euro senza il coinvolgimento dei tutti gli altri parlamentari. Anche per differenziare le regole di voto occorrerebbe quindi una modifica dei trattati (semplificata attraverso un nuovo intervento sull’art. 136 oppure attraverso modifiche di qualche protocollo; oppure con una profonda modifica), e/o un nuovo trattato e una Convenzione.[6]
Quali strumenti per avanzare sulla via dell’unione?
Per individuare — quando sarà il momento opportuno, ma comunque durante questa legislatura europea — quali strumenti utilizzare per avanzare, occorre ancora una volta ricordare quali sono i due punti fermi, che costituiscono tuttora i principali punti di riferimento dell’azione dei governi e delle istituzioni europee nell’affrontare e gestire la crisi. Il primo di questi punti, come si diceva, è costituito dal traguardo delle quattro unioni, che si configurano sempre più come lo sbocco istituzionale differenziato dell’UEM. Il secondo punto è invece rappresentato dalla necessità di dotare l’eurozona di una capacità fiscale (con tutto quello che ciò implica in termini di creazione di un bilancio/fondo ad hoc ad essa collegata e di legittimità democratica). È in questa prospettiva che diventa possibile la battaglia :
— per trasferire parte della sovranità nazionale a livello europeo (come ha chiesto il Presidente della BCE Mario Draghi[7]);
— per sciogliere il nodo della legittimità democratica del Parlamento europeo nell’ambito della differenziazione dell’integrazione.[8]
Il dibattito su questi temi è molto avanzato a livello europeo, sia tra alcuni responsabili di governo (Schäuble), sia in alcuni think tanks, come il Gruppo Eiffel e l’Egmont Institute.[9]
Per questo i militanti e le sezioni del MFE devono darsi gli strumenti teorici e tecnici per approfondire la comprensione della natura di questo dibattito, per cercare di contribuire ai vari livelli a fare chiarezza su fini e mezzi, sapendo che:
— il futuro non dipende dai soli trattati dell’Unione (la soluzione della crisi del debito sovrano è stata perseguita ed attuata al di fuori di essi);
— il funzionamento dell’UEM non può basarsi sull’unitarietà istituzionale a livello europeo (gli organi della BCE, del MES, e lo stesso Eurogruppo agiscono senza il coinvolgimento di tutti gli Stati);
— il consolidamento nel corso degli ultimi vent’anni della partecipazione degli Stati all’UEM a diverso titolo (senza deroghe, con deroga o con uno statuto speciale), insieme al processo di allargamento, ha reso indispensabile perseguire l’approfondimento istituzionale attraverso una differenziazione forte nell’ambito dell’Unione.
Lo sviluppo della Campagna per la federazione europea.
Le linee guida decise dal Congresso e la collaborazione con l’UEF, la JEF ed il Movimento europeo costituiscono i canali privilegiati per tradurre in fatti le analisi. Linee guida che, è bene ricordarlo, fanno riferimento proprio ai temi ed alle sfide sul tappeto:
— all’unione federale a partire dall’eurozona, per quanto riguarda il fine da perseguire in questa fase storica;
— alla realizzazione di un bilancio ad hoc dell’eurozona finanziato con risorse fiscali proprie e sottoposto al controllo democratico da parte dei parlamentari dell’eurozona, per quanto riguarda i mezzi;
— alla convocazione di una Convenzione costituente con il mandato di elaborare una costituzione federale e di stabilire le norme per regolare le relazioni tra i paesi dell’eurozona e il resto dell’Unione europea, per quanto riguarda il metodo di coinvolgimento dei cittadini e dei loro rappresentanti nelle istituzioni nazionali ed europee.
Infine, proprio perché in questa fase il problema dell’azione non può ridursi semplicisticamente alla scelta tra agire dentro o fuori i trattati; tra promuovere oppure no specifiche cooperazioni; tra convocare senza o con mandato una convenzione, occorre essere pronti a proporre e sfruttare tutti i mezzi che possono legare Stati, governi ed istituzioni ad impegni precisi per trasferire a livello europeo parte del potere nazionale in campo fiscale, e a farlo entro scadenze certe, definendo modi e tempi della transizione all’unione. Transizione che, visti gli effetti e le conseguenze della crisi, dovrà essere breve e con la consapevolezza che questo processo dovrà essere accompagnato da una azione capillare per cercare di far maturare nella classe politica e nella società una diffusa volontà e coscienza della necessità di procedere verso l’unione federale. Perché senza questa maturazione, non ci sarà alcun Trattato (nuovo, vecchio o riformato), patto o cooperazione, Convenzione o mobilitazione, che di per sé potrà far uscire l’Europa dall’impasse. E sapendo che il MFE in quanto tale ha una responsabilità maggiore rispetto alle altre sezioni nazionali dell’UEF, perché viviamo e agiamo in un paese, l’Italia, cruciale per lo sviluppo politico ed economico dell’Europa.[10]
E sapendo anche che nella partita che si è aperta sul terreno del consolidamento dell’unione monetaria in una unione, è ormai in gioco, forse per l’ultima volta come protagonisti per gli europei, oltre al destino dell’Europa e a quello dell’Italia, anche parte di quello mondiale.
* Si tratta della relazione svolta il 4 ottobre 2014 dal Segretario Franco Spoltore alla riunione di Segreteria aperta del MFE a Milano.
[1] Si veda in proposito Giulia Rossolillo, Autonomia finanziaria e integrazione differenziata, Il Federalista, 56, n. 1-2 (2014), p. 9; e, sempre Giulia Rossolillo, Cooperazione rafforzata e unione economica e monetaria: modelli di flessibilità a confronto, Rivista di Diritto Internazionale, 97, Fasc. 2 (2014), pp. 359-360 (consultabile anche sul sito www.alternativaeuropea.org): “In effetti, se la realizzazione di molti degli obiettivi indicati dalla Commissione e dal Parlamento implica una modifica dei trattati secondo la procedura di cui all’art. 48 TUE, alcuni avanzamenti verso l’obiettivo finale possono essere realizzati — come sottolineano le medesime istituzioni — attraverso l’utilizzo degli strumenti di flessibilità che i trattati mettono già oggi a disposizione.
Per le ragioni sopra esposte, la cooperazione rafforzata non sembra tuttavia costituire uno strumento adatto a tal fine. Le numerose condizioni alle quali i trattati subordinano la sua attuazione, unite al fatto che si tratta di una forma di cooperazione aperta a tutti gli Stati membri e non a un gruppo predefinito dal fatto di condividere una moneta, rischiano infatti di trasformarla in un ostacolo sulla via del completamento dell’UEM anziché in un primo passo in detta direzione.
Di tali difficoltà sembrano essere consapevoli anche le istituzioni dell’Unione. La Commissione, nel tentativo di individuare la base giuridica sulla quale lo strumento di convergenza e competitività sopra citato potrebbe fondarsi, fa riferimento in effetti all’art. 136 TFUE, o in alternativa alla possibilità di ricorrere all’art. 352 TFUE 'se necessario mediante cooperazione rafforzata'. Nonostante l’utilizzo della cooperazione rafforzata sia preso in considerazione, tale strumento sembra essere indicato come soluzione di ultima istanza, alla quale l’utilizzo dell’art. 136 TFUE andrebbe preferito. Detta ultima disposizione, se pur fondata su un approccio di carattere intergovernativo, riguarda in effetti unicamente gli Stati senza deroga, e dunque un gruppo di Stati predefinito dal fatto di aver adottato una moneta comune; inoltre, essa sembra imporre a questi ultimi meno vincoli rispetto a quelli al cui rispetto l’instaurazione di una cooperazione rafforzata è subordinata, come dimostrano le disposizioni del Trattato istitutivo del meccanismo europeo di stabilità, che su tale disposizione è fondato.
La medesima esigenza di individuare uno strumento di integrazione differenziata che si adatti alle esigenze dell’UEM è fatta propria poi in termini più generali dal Parlamento europeo, laddove esso, dopo aver fatto riferimento, sulla scia della Commissione, all’art. 136 TFUE e all’art. 352 TFUE unito a una cooperazione rafforzata, sottolinea che 'le modifiche dei trattati necessarie per il completamento di un’autentica UEM e l’istituzione di un’Unione di cittadini e di Stati potranno basarsi sugli strumenti, le procedure, le prassi e la filosofia esistenti in materia di integrazione differenziata, migliorandone l’efficacia e la coerenza', mettendo in luce in questo modo la necessità che vengano posti in essere specifici meccanismi di flessibilità per gli Stati facenti parte della zona euro.
In effetti, per evitare che il completamento dell’Unione economica e monetaria si realizzi attraverso la stipulazione di un trattato tra gli Stati partecipanti alla moneta unica esterno alla cornice dell’Unione, è auspicabile che in sede di revisione dei Trattati si preveda— attraverso una modifica dell’art. 136 TFUE che lo renda applicabile ad ipotesi ulteriori rispetto al coordinamento delle politiche economiche,o attraverso la previsione di un nuovo meccanismo ad hoc, che potrebbe ispirarsi all’art. 46 del progetto Herman — una clausola che consenta in via generale agli Stati senza deroga di procedere verso quell’unione fiscale, di bilancio ed economica ormai essenziale per la sopravvivenza della moneta unica”.
Su questo tema sono interessanti anche le riflessioni svolte da Thierry Chopin, Riformare l’Unione europea: con o senza revisione dei trattati?, Il Federalista, 56, n. 3 (2014).
[2] Una strategia quest’ultima enunciata a chiare lettere dal governo britannico dopo la fine dell’esperienza fatta con la Signora Thatcher, alla quale era stato rimproverato dal suo stesso partito di non aver servito al meglio la ragion di Stato di Londra opponendosi in modo aperto ad ogni sviluppo unitario sul continente europeo, anziché influenzarlo negativamente dall’interno. Come ricordano i consiglieri politici di John Major dell’epoca, Sarah Hoog e Stephen Hill, dopo i No pronunciati dalla Signora Thatcher, l’obiettivo della Gran Bretagna agli inizi degli anni Novanta era tornato ad essere quello di stare al centro dell’Europa (Heart of Europe era diventato il manifesto del partito conservatore) perché , nelle parole del nuovo Primo ministro britannico,“We can’t go on as we were in terms of Europe: we should be at the centre of Europe if we are going to properly protect our interests”… But being in the centre of Europe doesn’t mean we’ve sold out, doesn’t mean we’ve suddenly become Europhiles and adopt every fetish that emerges from the European Commission. Of course not… What it does mean is that we are in a better position to influence the way in which Europe goes” (Conservative party conference, 11 October 1991).
[3] In questa sede, volendo affrontare soprattutto gli aspetti dell’unificazione più strettamente collegati alle possibilità di fare l’unione a partire dall’UEM, non si parlerà della specifica cooperazione rafforzata prevista per la politica estera — che a sua volta si distingue per possibilità di avvio e funzionamento da quella strutturata in campo militare. Entrambi questi tipi di cooperazione non collegate tra loro, si possono collocare infatti in una logica ancora intergovernativa.
[4] Kenneth C. Wheare, The Constitutional Structure of the Commonwealth, London, Oxford University Press, 1963, pp.128-129 e 135-136: “The members of the Commonwealth declared in the Report of the Imperial Conference in 1926 that “free co-operation is its instrument”. This statement is as true today as it was in 1926. It should be remembered that this instrument is not that which Lionel Curtis (1916) favoured when he advocated the idea and adopted the name of a “Commonwealth”. His aim was federation, and the instrument of a federation is a government with power to decide and to execute in matters of common concern. Co-operation falls far short of government. When federation was rejected, however, co-operation between sovereign, independent states was the most that could be expected... When the Members of the Commonwealth in 1926 chose free co-operation as their instrument, they were rejecting two methods of achieving co-ordination or common action which were conceivable. One had already been used and was available — action through the parliament and government of the United Kingdom. Members could have decided that they would meet together and decide upon a common line of action and that this line would be carried through by the government or parliament of the United Kingdom. On the other hand was the alternative of a federal government, in which each Member would have been represented, and through whose executive and legislature decisions would have been carried out. Neither alternative was acceptable, for it conflicted with the decision and determination of each Member to be independent and sovereign and to carry out its decisions through its own government and parliament...
When we consider co-operation in the Commonwealth, therefore, we start from the position that there is an obligation to communicate and consult, but there is no obligation beyond that. What is more there is no obligation to agree, or to refrain from action if other dis-agree; there is no veto. The development of institutions of co-operation within the Commonwealth has therefore been determined by these principles, that communication and consultation must be made full and effective, but that no obligation to go beyond this point could be undertaken. Wherever it seemed likely, in particular, that a Member government could be commmitted to any policy by the action of another Member, action was taken to make sure that no such consequences could occur”
[5] Si legga in proposito Mario Albertini, Rapporto al Comitato federale dell’UEF del 10-11 giugno 1978, Il Federalista 20, n. 2 (1978). In particolare il passaggio in cui si legge: “Bisogna sapere fin d’ora che il vero scopo di qualsiasi preunione — o di qualunque altro passo preliminare — è solo quello di determinare una situazione nella quale siano caduti gli alibi, teorici e pratici dei contrari, e nella quale sia che nessun vero ostacolo, salvo la cattiva volontà, impedisce di creare subito la moneta europea. In ogni altro caso non avremo mai la moneta europea, con le conseguenze immaginabili”; e il passaggio della risoluzione della Direzione nazionale MFE dell’8 luglio 1978, Il Federalista 20, n. 2 (1978): “Gli orientamenti emersi a Brema [il Vertice che confermò la volontà di instaurare lo SME ndr] sono molto importanti. Per la prima volta si profila la possibilità della messa in comune di una parte sostanziale delle riserve, della creazione di una moneta europea parallela, e della realizzazione di un Fondo monetario europeo. Se questi orientamenti fossero concepiti come un punto di arrivo sarebbero destinati al fallimento perché non si può avere un’area europea di stabilità monetaria equilibrate e duratura senza creare la moneta europea; se concepiti invece come un punto di partenza, che ha la sua base politica nel fatto nuovo del voto europeo, possono costituire il cambiamento radicale di cui l’Europa ha bisogno per la ripresa del processo unitario, processo al quale l’Italia deve partecipare senz’altro per non sancire in modo definitivo il suo distacco dall’Europa. È decisivo a questo riguardo che si sappia quale deve essere il termine del processo avviato in Europa, e che cosa si deve fare in ogni nazione per sostenerlo. In Europa si tratta di stabilire con chiarezza, sin da ora, l’obiettivo della moneta europea e la data della sua creazione, allo scopo di orientare le aspettative degli operatori economici, sociali e politici, e di fornire così una base di potere alla transizione…”
[6] Il problema era del resto già ben chiaro nella metà degli anni Novanta, sia a livello di governi (Karl Lamers e Wolfgang Schäuble, More Integration Is Still the Right Goal for Europe, Financial Times, 31 August 2014; sia nell’ambito del Parlamento europeo, come si evince dal progetto (non approvato) collegato al Rapporto Herman, Resolution on the Constitution of the European Union, 10 February 1994, in cui si prevedeva:
“Articolo 46: norme finali
Gli Stati membri che vogliono, possono adottare tra loro norme che consentano loro di avanzare più velocemente verso l’integrazione europea, a patto che questo processo rimanga aperto a qualsiasi Stato membro che vorrà unirsi a loro e che queste norme siano compatibili con gli obiettivi dell’Unione ed i principi della Costituzione.
In particolare, per quanto riguarda le questioni relative ai Titoli V e VI del Trattato sull’Unione europea, essi possono adottare norme vincolanti solo per loro.
I membri del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione degli altri Stati membri si asterranno durante le discussioni ed i voti sulle decisioni adottate sulla base di queste norme (corsivo mio).
Articolo 47: entrata in vigore
La costituzione sarà considerata adottata ed entrerà in vigore quando sarà stata ratificata da una maggioranza di Stati membri che rappresenti i quattro-quinti della popolazione totale (l’art. 82 del Trattato Spinelli sull’Unione europea del 1984 aveva previsto una maggioranza di due-terzi, n. d. r). Gli Stati membri che non saranno stati in grado di depositare gli strumenti di ratifica entro i limiti di tempo stabiliti, dovranno scegliere tra lasciare l’Unione o rimanervi su nuove basi”.
[7] Mario Draghi, Memorial Lecture in Honour of Tommaso Padoa Schioppa, London, July 9, 2014.
[8] Risoluzione del Parlamento europeo del 12 dicembre 2013 sui problemi di una governance a più livelli dell’Unione europea (2012/2078(INI)).
[9] A questo proposito sono interessanti le osservazioni fatte dall’ex rappresentante del governo belga presso l’Unione europea, Philippe de Schoutheete, nel presentare un corposo studio dell’Egmont Institute pubblicato in Studia Diplomatica, 66, n. 3 (2013). Nonché le considerazioni di Stijn Verhelst, sempre dell’Egmont Institute, svolte in studi dal titolo eloquente, come: Variable Geometry Union: How Differentiated Integration Is Shaping the EU, The Sense and Nonsense of Eurozone-specific Parliamentary Scrutiny, A Eurozone Subcommittee in the European Parliament: High Hopes, Low Results? Reperibili attraverso i links:
http://www.uaces.org/documents/papers/1401/verhelst_s.pdf
[10] Wolfgang Münchau, Italy Debt Burden Is a Problem for Us All, Financial Times, 21 settembre 2014.