Anno XL, 1998, Numero 1, Pagina 71
Federalismo, regionalizzazione e globalizzazione. Il caso dell’Africa
I. ISAWA ELAIGWU
Introduzione.
Federalismo è un termine che ha assunto connotati differenti in diversi contesti e, come concordano ormai tutti gli esperti, presenta numerose differenze di dettaglio. In generale, si può comunque affermare che il federalismo è essenzialmente un sistema di governo che riflette i compromessi insiti in uno Stato multinazionale. Esso nasce dal desiderio di alcuni membri di formare un’unione, senza necessariamente cancellare la propria identità ai livelli subnazionali[1]. Fondamentalmente, il federalismo è una soluzione di compromesso, in uno Stato multinazionale, tra due tipi di autodeterminazione: la determinazione a mantenere una struttura sovranazionale di governo che, da un lato, garantisca la sicurezza per tutti nello Stato nazionale e, dall’altro, preservi l’autodeterminazione delle singole componenti che cercano di mantenere le proprie identità individuali. E’ il tentativo di riflettere i diversi interessi politici, sociali, culturali ed economici entro la struttura di una unità più ampia[2]. Come ha giustamente osservato Shridath Ramphal, ex Segretario Generale del Commonwealth, il federalismo presuppone «la necessità di cooperare su alcune questioni, associata al diritto di agire indipendentemente in altre. Solo il federalismo soddisfa il desiderio di unità dove esso coesiste con la volontà di non soffocare l’identità e il potere locali»[3].
Molto spesso, il rapporto tra questi due tipi di autodeterminazione si modifica. Se il pendolo politico è in favore del centro federale, ciò significa che le forze centripete sono predominanti nell’arena politica. D’altro lato, il pendolo potrebbe spostarsi a favore delle unità subnazionali e del consolidamento delle identità locali, e ciò è un riflesso della presenza dominante delle forze centrifughe. Col tempo, nella misura in cui i membri della comunità politica pervengono ad una maggiore comprensione reciproca, ed effettuano compromessi nella gestione dei conflitti, si realizzano anche dei cambiamenti in queste due forme di autodeterminazione. Così, la base del federalismo è il nazionalismo anche se va tenuto presente che esistono due tipi di nazionalismo. A volte, le pressioni del federalismo sono tali da spingere alla creazione di un’unione senza che, tuttavia, si sviluppino analoghe pressioni perché si realizzi una vera unità tra le diverse componenti.
Se è evidente che le basi del federalismo affondano nel nazionalismo, non si può comunque ignorare che, al cuore del nazionalismo, si trova il concetto di autodeterminazione. Si tratta di un concetto che presenta una duplice valenza, soprattutto in un contesto federale, perché, con riferimento al federalismo, la secessione è l’altra faccia dell’autodeterminazione: è cioè un fenomeno che può distruggere il federalismo mentre, nel contempo, l’autodeterminazione contribuisce a edificarlo[4]. Un analogo punto di vista è stato espresso dall’ex Primo Ministro canadese, Pierre Trudeau, quando ha asserito che il principio di autodeterminazione costitutivo del federalismo, è anche l’elemento che, necessariamente, lo rende instabile. Se gli stretti vincoli creati dal nazionalismo sono essenziali per tenere insieme uno Stato-nazione unitario, sembrerebbe necessario un grado molto più elevato di nazionalismo nel caso di uno Stato federale[5].
Il conflitto è connaturato all’esistenza di ogni Stato. Esso ne mette alla prova la fragilità o la forza e crea le basi per futuri cambiamenti. Va però tenuto presente che i conflitti, al di là di certi limiti, mettono in pericolo la sopravvivenza stessa dello Stato perché erodono la base consensuale della convivenza. Il federalismo, come ha osservato Dan Elazar, è una combinazione di regole fissate autonomamente e di regole condivise, in base alle quali si prende atto della diversità, si pongono limiti ai poteri e si definisce l’accordo tra i membri finalizzato al perseguimento di un interesse comune attraverso il consenso ed il compromesso.
C’è tuttavia una variante confederale del modello federale di governo. I governi confederali mettono in primo piano il bisogno di delegare al governo centrale un numero limitato di funzioni, legate al conseguimento di vantaggi comuni alle diverse entità statali della confederazione. Questi Stati membri possono decidere, per esempio, di conferire al governo centrale i poteri relativi alla difesa (sicurezza), alle vie di comunicazione, alle dogane, all’immigrazione, riservandosi altri poteri. Nella storia delle confederazioni, le singole componenti sono state, di solito, più forti del governo centrale: il timore reciproco di subire una dominazione ha impedito la nascita di un governo centrale con effettivi poteri. Al livello internazionale, in cui sono implicate la sovranità e l’autonomia degli Stati, si stanno affermando le idee confederali, che spesso sono alla base della creazione di organizzazioni regionali o funzionali. Ivo Duchacek[6] ha sostenuto che le associazioni regionali confederali includono l’Unione europea, mentre le associazioni intergovernative come l’Organizzazione delle Nazioni Unite o l’Unione postale universale sono un esempio delle dimensioni funzionali del confederalismo.
Queste organizzazioni regionali e funzionali hanno almeno due caratteristiche confederali: 1) «un bisogno esplicito di regolamentazione e di cooperazione al di là dei confini» e 2) «l’opposizione ad una fusione federale che potrebbe risultare dalla delega di importanti poteri fiscali ed esecutivi ad un’autorità comune»[7]. Come Duchacek osserva giustamente: «Un ingrediente importante di quest’opposizione è la paura che l’autorità comune cada sotto il dominio dei componenti più potenti del sistema»[8]. In relazione all’attuale dibattito sull’Unione europea, Dan Elazar pensa che il principio federale - inizialmente inteso nella Comunità europea in termini funzionalisti ed emerso solo ora come principio federale in senso proprio - è diventato il cardine di una nuova idea dell’Europa. Il federalismo (al di là dei modelli vecchi e nuovi di confederazione, federazione, statualità associata e autonomia) sta velocemente diventando il principio-guida per l’Europa. Questa nuova strada offre una maggiore autonomia politica, sociale e culturale alle entità statuali rispetto al sistema statuale tradizionale, mentre consente un più alto grado di cooperazione economica e politica a livello interstatale, nonché un maggior grado di libertà personale rispetto a quella consentita dal vecchio sistema[9]. Mentre la battaglia delle idee prosegue, si può presumere che, alla stessa stregua di ciò che avviene per il federalismo al livello dello Stato-nazione, anche quello che si manifesta al livello dell’Unione europea potrebbe subire, col tempo, delle trasformazioni, oscillando tra l’autodeterminazione sovranazionale (che rappresenta le forze centripete) e l’autodeterminazione nazionale (espressione delle forze centrifughe). Il tipo di associazione che emergerà in futuro nell’Unione europea potrebbe in parte dipendere dal grado di reciproca fiducia tra i suoi membri e dalle esigenze che nascono con la globalizzazione.
Il termine regionalizzazione è spesso usato con riferimento ad un territorio che presenta una funzionalità specifica. Perciò, dentro lo Stato-nazione ci si può riferire a regioni, province, o Stati subnazionali. Inoltre, si può fare riferimento a zone particolari, come la foresta, la savana, o regioni economiche di uno Stato-nazione che attualmente può includere numerose regioni politico-amministrative. Il processo di regionalizzazione potrebbe anche significare integrazione o associazione di Stati-nazione sovrani in una particolare regione del mondo per scopi specifici. Così, la Comunità economica europea, o gli Stati africani dell’Ovest sono un esempio di organizzazioni sovranazionali o regionali dentro lo sfondo globale. Questa è la definizione di regionalizzazione cui si fa riferimento nel presente lavoro.
Il termine globalizzazione si riferisce alla relativa liberalizzazione ed omogenizzazione a livello mondiale, dovuta alle rivoluzioni tecnologiche a partire dagli anni ’40. L’economia globale o mondiale si sta liberalizzando rapidamente. Sono in atto «un ampliamento ed un approfondimento delle correnti internazionali del commercio, della finanza e dell’informazione, entro un unico mercato globale»[10]. L’ipotesi più comune è che la liberalizzazione dei mercati nazionale e globale favorirebbe il libero sviluppo di flussi commerciali, finanziari e dell’informazione, suscettibili di creare i presupposti ottimali per la «crescita e il benessere umani».
Ma le cose stanno veramente così? La transizione globale al XXI secolo è basata sulla rivoluzione tecnologica. Si passa dalle corde alle fibre ottiche, dalle micro-tessere ai micro-chips, dal tempo dell’orologio al tempo inteso come merce. l sistema globale, alla vigilia del XXI secolo, sta entrando nell’era delle autostrade informatiche, dove computer e comunicazione tecnologica, micro-chips e fibre ottiche convergono per creare reti mediate dal computer. Quando sistemi di computer, hardware e software elettronici sono collegati ai data-base esterni e alle reti di comunicazione, l’utente può comunicare, trasmettere dati ed informazioni sia all’interno sia all’esterno dei confini nazionali. Servizi integrati digitali in rete permettono persino la trasmissione di ultrasuoni, per avere diagnosi efficaci, collegandosi con ospedali meglio dotati di specialisti[11]. Una volta ottenuto l’accesso ad Internet, l’abbonato può servirsene per l’E-mail, la trasmissione di files, la ricerca e perfino la pubblicità[12]. La pornografia via computer ha avuto un effetto devastante sulle già poco solide basi della moralità di molte società. Forse John Herz[13] aveva ragione a prevedere già negli anni’50 la «fine dello Stato-nazione».
L’implicazione di tutto ciò è che, nel sistema globale, gli attori che possiedono competenze tecnologiche godono di una posizione di vantaggio su chi non le possiede. Essi possono varcare i confini dello Stato-nazione e farsi beffe della sovranità delle nazioni. Paradossalmente, la rivoluzione tecnologica mina la sovranità delle nazioni e viola la privacy di individui e gruppi proprio nel momento in cui la sovranità di molti Stati africani è ancora molto fragile.
Lo sfruttamento dell’etere, nel sistema globale che si configura all’alba del XXI secolo, è regolato da varie reti, collegate via satellite. Esse trasmettono programmi ogni secondo, scavalcando i confini nazionali, e influenzando o cambiando i valori e la cultura di molta gente. La cultura della violenza trasmessa oltre i confini da un paese come gli Stati Uniti ha messo in discussione il valore della santità della vita umana in Nigeria. Come qualsiasi altra cosa, l’uomo sta diventando un prodotto nel mercato. Dalla «Coca-colonizzazione» del mondo, siamo arrivati alla «CNN-izzazione» del mondo. I valori, la politica e gli affari americani si propagano per tutte le nazioni. I valori occidentali (e specialmente americani) della democrazia, i diritti umani, l’economia di mercato e certi stili di vita si diffondono per il globo imponendosi come modelli. Ai paesi non occidentali questo processo appare come un riuscito tentativo di omogeneizzare il mondo a partire dal punto di vista dell’Occidente, che si riflette nelle condizioni dettate dalle banche internazionali per la ricostruzione e lo sviluppo, vale a dire dalla Banca mondiale e dal Fondo monetario internazionale. Le capacità tecnologiche, insomma, stanno conferendo nuovi poteri a chi le possiede, poteri che renderanno quelli militari obsoleti o marginali nel XXI secolo.
In aggiunta a queste tendenze che mettono in discussione il ruolo degli Stati, è in corso un fenomeno paradossale. Mentre all’interno dello Stato-nazione cercano prepotentemente di affermarsi identità culturali basate sull’etnia, sulla razza o sulla religione e si avanzano richieste di autodeterminazione, a livello mondiale si produce una seria sfida alla sovranità nazionale man mano che le imprese multinazionali penetrano nei confini nazionali e dimostrano una sensibilità scarsa o nulla per le condizioni e le leggi locali. Di fatto, gli Stati sembrano «essere diventati troppo grandi per la cose piccole, e troppo piccoli per le cose grandi»[14]. Il Programma di sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP), nel Rapporto annuale sullo sviluppo umano del 1997, ha fatto notare che le grandi questioni creano enormi sfide per la gestione internazionale delle stesse - sfide connesse, da un lato, alla crescente interdipendenza dei paesi e delle persone e, dall’altro, al persistente impoverimento di una parte rilevante del pianeta. Mentre il mondo si è rimpicciolito, i meccanismi per gestire il sistema in modo sostenibile a beneficio di tutti non si sono adeguati alla nuova situazione. L’accelerazione del processo di globalizzazione sta sviluppando opportunità globali senza distribuirle equamente[15]. Come conclude il Rapporto, «l’integrazione globale attuale sta eliminando i confini e indebolendo le politiche nazionali. Un sistema di politiche globali è necessario per far sì che i mercati siano al servizio delle persone, e non viceversa»[16]. Nell’attuale contesto della globalizzazione e della costruzione del villaggio globale, quale struttura amministrativa può essere creata per controllare le misure fiscali e le forze di mercato che tendono a sfuggire al controllo degli Stati? La regionalizzazione del mondo - attraverso l’Unione europea, l’Accordo per il libero scambio nel Nord America (Nafta), l’Associazione degli Stati dell’Asia del Sud (Asean), l’Associazione dell’Asia del Sud per la cooperazione regionale (Saarc), la Comunità degli Stati indipendenti (CSI), l’Ecowas, la Conferenza per la coordinazione dello sviluppo nel Sud dell’Africa (Sadcc) - può essere considerata come un tentativo degli Stati di far fronte al fatto che gli Stati-nazione sono troppo piccoli per grandi cose? Qual è il futuro della regionalizzazione o del regionalismo nel contesto del globalismo? Che genere di strutture federali permettono i compromessi e forniscono i mezzi adeguati a sostenere le sfide del globalismo? Come coniughiamo l’autodeterminazione sovranazionale con il nazionalismo dello Stato-nazione? A quali nuove dimensioni dei conflitti porta l’estensione della crisi dell’identità subnazionale? Il processo di globalizzazione è un bene a disposizione di tutti i paesi e i popoli? Quali sono i principali effetti del grado di globalizzazione raggiunto in Africa? Quali sono le caratteristiche emergenti del regionalismo africano? La soluzione federale è accettabile per gli Stati africani nel momento in cui sono posti di fronte alle sfide della globalizzazione del XXI secolo?
In proposito, si possono fare le seguenti osservazioni:
1) poiché gli Stati-nazione devono affrontare le sfide della globalizzazione, il regionalismo è diventato un imperativo politico;
2) per gestire le organizzazioni regionali una soluzione di tipo federale diventa necessaria;
3) si deve realizzare un compromesso federale adatto a gestire le tensioni tra l’autodeterminazione sovranazionale e l’autodeterminazione nazionale, che permetta di tenere conto delle istanze di autodeterminazione subnazionali;
4) ci sono altri tipi di tensioni nel sistema internazionale, accentuate dal processo di globalizzazione, che richiedono politiche in grado di orientare la globalizzazione verso uno sviluppo rispettoso dei bisogni umani;
5) il federalismo, mentre crea le condizioni per offrire risposte regionali alla globalizzazione, rischia nel contempo di essere intralciato da contrasti che devono essere oggetto di una attenzione particolare.
1. Globalizzazione e regionalismo.
Da quanto detto sin qui, è chiaro che la globalizzazione, in diversi paesi, ha orientato la società verso l’omogeneizzazione del gusto, dei consumi e, a volte, degli standard produttivi. Il processo di globalizzazione non solo ha eroso profondamente i confini degli Stati-nazione, ma ne ha anche mostrato la debolezza. Gli Stati sono ora incapaci di controllare effettivamente i parametri universali dei consumi, le dinamiche delle forze di mercato e le attività delle imprese multinazionali.
L’interdipendenza degli Stati ha perciò fatto sì che le organizzazioni regionali siano diventate un imperativo politico. Possiamo ritenere che la regionalizzazione sia un tentativo di compensare l’insufficiente dimensione degli Stati per affrontare grandi problemi? In effetti, essa garantisce il potenziamento della capacità e della possibilità di ogni Stato-nazione (in associazione con gli altri) di affrontare le grandi sfide dell’attuale contesto internazionale.
Paradossalmente, mentre la globalizzazione tende ad eliminare tutte le barriere che si frappongono alla creazione di un unico mercato mondiale, ad aumentare il volume del commercio e ad espandere i parametri del consumo[17], la reazione degli Stati-nazione è stata, per lo più, di tipo protezionistico. La Comunità europea ha preso l’iniziativa, a partire dal 1968, di costituire un blocco economico che potrebbe allargarsi oltre i 15 paesi membri per includere, eventualmente, tutti i paesi dell’Europa dell’Est, ad eccezione della Russia, in un’area senza frontiere, entro cui sono rispettati i quattro principi base della libera circolazione di persone, beni, servizi e capitali[18].
Nel 1993, quando l’Unione europea è stata istituita, essa aveva una popolazione di 345 milioni, con un Pil di 6,5 trilioni di dollari[19]. Con un’iniziativa che è chiaramente sembrata una reazione allo sviluppo della Comunità europea, gli Stati Uniti d’America hanno indotto il Canada e il Messico ad aderire all’Accordo per il libero commercio nel Nord America (Nafta). Esso mira a creare, entro 15 anni, un’area di libero scambio di 370 milioni di Americani, Canadesi e Messicani con un PIL annuo di 6,7 trilioni di dollari e un flusso trilaterale di commerci pari a 270 miliardi di dollari all’anno[20]. Nel prossimo futuro si prevede di includere anche Brasile, Argentina e Cile.
Questa «guerra» di blocchi economici si è sviluppata molto velocemente da quando l’Asean, creata nel 1967, ha deciso, nel 1992, di istituire l’Area Asean di libero scambio (Afta)[21]. Gli Americani hanno anche cercato di massimizzare il loro vantaggio iniziando a consolidare più strettamente i legami tra Asean, Giappone ed Australia, il cosiddetto bacino del Pacifico, nel 1994. Nel 1985 è nata l’Associazione del Sud Asia per la cooperazione regionale (Saarc), formata da Bangladesh, India, Sri Lanka, Bhutan, Maldive e Nepal. La Comunità degli Stati indipendenti (CSI), fondata nel 1992 dalle 12 ex Repubbliche sovietiche, è anch’essa un blocco economico nella sua configurazione attuale.
Questo trend nella nascita di blocchi economici regionali porta a due conclusioni. In primo luogo, l’area dell’Asia e del Pacifico è chiaramente diventata il centro di attrazione, coerentemente con l’idea che il prossimo secolo sarà il secolo del Pacifico. In secondo luogo, il resto del Terzo mondo, in particolare l’Africa, non compare per nulla nella riorganizzazione del paesaggio economico globale. Ciò è senza dubbio un riflesso dell’enorme divario tra le economie ricche e le economie molto povere e in decadenza dell’Africa.
In Africa, la prima organizzazione regionale, la Comunità dell’Africa dell’Est, si è disintegrata nei primi anni ’60 dopo l’indipendenza, soprattutto per ragioni politiche. Nel 1975, è stata fondata la Comunità economica degli Stati africani dell’Ovest (Ecowas). Questa organizzazione, benché debba ancora superare molti ostacoli, ha saputo dimostrare la sua volontà di mantenere la pace e la stabilità nella regione.
Ecomog, il braccio militare dell’Ecowas, è stata fondata per restaurare la pace in Liberia, in seguito alla guerra che ha devastato il paese. Questa organizzazione non solo ha avuto successo in tale contesto, ma ha anche fatto da arbitro in occasione delle elezioni avvenute nel luglio introducendo la democrazia in Liberia dopo sette anni di conflitto civile. Ecowas, ora, deve affrontare il problema di garantire la democratizzazione e la stabilità al livello subregionale come base per una più intensa forma di relazioni economiche.
Nell’Africa sud-orientale si sta tentando di formare un blocco regionale, attraverso la Conferenza per la coordinazione dello sviluppo del Sud dell’Africa (Sadcc). Essa è ancora troppo giovane perché se ne possano valutare le conseguenze, ma sembra che, gradualmente, stia sortendo degli effetti sull’area.
Questa tendenza alla regionalizzazione del sistema internazionale è, in parte, un modo per fronteggiare le nuove sfide della globalizzazione. Sostanzialmente, ci sono organizzazioni sovranazionali che richiedono qualche forma di struttura intergovernativa e burocratica. Resta da capire se esse fanno anche nascere problemi per quanto riguarda la necessità di compromessi tra diversi livelli di nazionalismo o autodeterminazione. Vediamo ora di approfondire questo problema.
2. Federalismo e regionalizzazione del mondo.
La regionalizzazione crea senza dubbio alcune sfide per gli Stati-nazione e anche per i blocchi regionali. Come osserva Lucio Levi, queste sfide riguardano il fatto che «…le forze del mercato internazionale stanno sfuggendo al controllo degli Stati, i cui strumenti monetari e fiscali di controllo dell’economia stanno progressivamente perdendo efficacia… In breve, la globalizzazione ha scavato una linea di divisione sempre più profonda tra lo Stato, che è rimasto nazionale, e il mercato, che è diventato globale… La contraddizione più profonda della nostra epoca sta nel fatto che i problemi da cui dipende il destino delle persone, come il controllo della sicurezza e dell’economia, o la protezione dell’ambiente, hanno assunto dimensioni internazionali, un terreno dove non ci sono istituzioni democratiche, mentre la democrazia si ferma ancora ai confini degli Stati, le cui decisioni riguardano ormai aspetti secondari della vita politica»[22].
Mentre queste contraddizioni sono palesi e creano nuove sfide per i gruppi regionali, nasce il problema della gestione del conflitto e del coordinamento. Uno dei primi problemi che i membri di un’organizzazione regionale devono affrontare è quello di stabilire un meccanismo di compromesso, capace di realizzare un equilibrio tra due tipi di nazionalismo - quello sovranazionale e quello dello Stato-nazione. Molto spesso l’evoluzione della realtà precede l’accettazione da parte degli uomini della perdita di aspetti essenziali della sovranità, come quella di un confine sicuro. C’è anche la paura di perdere l’identità nazionale entrando a far parte di una struttura sovranazionale, specialmente se ci sono alcuni Stati-nazione dominanti su altri. Le reazioni al Trattato di Maastricht e i problemi legati alla nascita di una comune moneta europea illustrano la delicatezza di questo problema.
Da ciò deriva l’utilità di una soluzione di tipo federale ai problemi dell’integrazione. Il federalismo non solo provvede alla divisione dei poteri, ma realizza anche una divisione delle competenze fra almeno due livelli di governo. Vengono garantiti costituzionalmente i poteri e le funzioni del centro federale sovranazionale e, nel contempo, si proteggono l’identità ed i poteri che, di comune accordo, vengono lasciati allo Stato-nazione. Senza alcun dubbio questo deve delegare alcuni poteri politici, giuridici, economici ed ambientali, ma la sua sovranità, in altri contesti, deve essere protetta e garantita.
Il federalismo è anche sensibile alle diversità economiche, etniche, razziali, ecc. e alle disparità fra gli Stati membri delle organizzazioni sovranazionali. Esso fornisce agli Stati l’opportunità di dar vita ad una Unione (senza necessariamente creare uno Stato unitario) per raggiungere obiettivi precisi. Non è necessario cancellare le identità degli Stati-nazione e ciò consente di attenuare la paura di perdere la propria identità ed autonomia.
Comunque, come mostra il caso dell’Unione europea, ci sono ancora dei problemi. C’è chi preferirebbe una Federazione europea, uno Stato vero e proprio, e chi preferirebbe una soluzione confederale. Mentre la battaglia continua - e solo il futuro potrà dire quali esiti avrà - è comunque opportuno notare che, al pari di ciò che avviene in tutte le relazioni umane, quanto più si sviluppa la fiducia reciproca tra le parti che compongono l’Unione e forme più strette di interazione portano ad una maggiore comprensione e all’uso di meccanismi migliori nella soluzione dei conflitti, tanto maggiori diventano le possibilità di regolare il pendolo federale, oscillante tra forze centripete e centrifughe.
In Africa, anche al livello nazionale, pochi paesi si sono dotati di forme di governo federali: al momento, la Nigeria è l’unica federazione.
Il Sudafrica ha una costituzione con caratteristiche federali, pur non essendo definita esplicitamente come tale. Il Kenia, sotto la Costituzione Majimbo, ha avuto una costituzione federale ma, nel 1964, si è trasformato in uno Stato unitario. Il Camerun ha abrogato la sua costituzione federale nel 1972. La federazione di Rhodesia e Niassa si è disintegrata durante il processo di decolonizzazione e le lotte di liberazione. La federazione del Sene-Gambia si è dissolta, dilaniata, tra l’altro, dal nazionalismo.
Perché i leaders africani si sono allontanati dalla forma di governo federale o l’hanno evitata come una piaga, mentre il federalismo fornisce il mezzo per effettuare i compromessi necessari alla società multiculturale esistente in Africa?
In primo luogo, i nuovi capi degli Stati africani indipendenti, una volta insediati, hanno scoperto che, mentre i governatori delle colonie sembravano onnipotenti, le loro basi di potere erano molto fragili. La fragilità dell’autorità centrale e la necessità di consolidare il potere e l’autorità hanno portato a scegliere strutture politiche capaci di mobilitare il consenso, ritenute più utili di quelle che hanno consentito la riconciliazione fra i gruppi. Un sistema unitario di governo permette un maggiore intervento e controllo sulle unità subnazionali, e la centralizzazione del potere: le unità subnazionali devono rivolgersi al centro per il loro potere e le loro risorse. La crisi dell’autorità sperimentata dalle élites le ha indotte ad optare per una soluzione unitaria al problema del consolidamento dello Stato nella sua realtà multietnica. I leaders erano troppo preoccupati di rafforzare l’autorità centrale per cedere parte dei poteri e delle funzioni alle unità subnazionali.
In secondo luogo, si è temuto che negli Stati multietnici il federalismo cristallizzasse le identità subnazionali e definisse in modo rigido i criteri operativi ed il grado di lealtà delle unità componenti. Perciò il federalismo è visto come qualcosa che accentua le crisi, piuttosto che attenuarle: le differenze etniche, al pari di altre, presumibilmente diventano più pronunciate con un sistema federale. Ad ogni modo le paure delle nuove élites erano fondate. Dopo tutto il federalismo è come un rimedio da acquistare sul mercato politico. Se provvede alla sicurezza ed alla sopravvivenza della nazione grazie ai molti compromessi che è capace di effettuare, esso salvaguarda anche l’autodeterminazione dei gruppi. Ma, come ricordato all’inizio, questa può sfociare nella secessione e distruggere così lo Stato federale.
Come si è precedentemente argomentato, il federalismo, nella misura in cui funziona come un meccanismo che consente di effettuare dei compromessi in uno Stato multinazionale, rischia di essere messo in crisi dai semi della discordia. La sopravvivenza di uno Stato federale dipende dall’abilità delle élites politiche di un paese nel mantenere un delicato equilibrio tra forze centripete e forze centrifughe. La prevalenza delle forze centrifughe può preludere alla disintegrazione, come la secessione Igbo ha dimostrato in Nigeria. D’altro lato, se la bilancia pende eccessivamente verso il centro, ciò può mettere in discussione la ragion d’essere del federalismo e il quadro di relativa sicurezza che esso offre ai vari gruppi nella società. Ne sono un esempio i sanguinosi disordini nel nord della Nigeria, in risposta all’introduzione di una forma di governo unitaria sotto il generale Ironsi nel maggio 1996. Le attuali guerre civili in Etiopia e nel Sudan sono una testimonianza ancora più drammatica di questo problema.
Data la debolezza dell’autorità centrale, i leaders africani non hanno voluto assumersi la responsabilità di creare un delicato equilibrio federale tra forze centripete e centrifughe. Mentre il problema del consolidamento dell’autorità è connesso alla costruzione dello Stato, la paura di esacerbare il conflitto tra i gruppi è connessa direttamente al problema dell’unità o della costruzione della nazione. Molti leaders africani hanno creduto che un sistema unitario di governo fornisse una struttura più adeguata per creare delle nazioni a partire dagli Stati. Si potrebbe sostenere, ad esempio, che i problemi etnici del Shona-Ndebele nello Zimbabwe verrebbero meglio risolti in una struttura federale. Tuttavia, al momento attuale, lo Zimbabwe ha un sistema unitario di governo ed entrambi i gruppi sono rappresentati nello stesso partito politico. Gli antichi rivali Joshua Nkomo e Robert Mugabe hanno così risolto i loro contrasti e compattato i rispettivi gruppi etnici - che in passato si combattevano l’un l’altro - all’interno di un solo partito politico. In un sistema federale entrambi i leaders avrebbero cercato un supporto politico dai loro gruppi etnici nel corso della competizione che si sarebbe scatenata per ricoprire incarichi a livello politico nazionale.
La soluzione federale è certamente interessante, ma le implicazioni economiche del federalismo lo rendono costoso oltre che difficile da gestire. Il costo per il mantenimento di esecutivi federali e nazionali, di organismi legislativi e burocratici così come dei Consigli per i governi locali e delle loro burocrazie, è proibitivo. Inoltre, la necessità di disporre di strutture burocratiche per le unità subnazionali richiede la formazione professionale di personale specializzato. Di fronte ai problemi relativi al welfare, alla crescita economica e ad altre istanze che premono sulle casse dello Stato, la soluzione federale è stata considerata costosa dai leaders africani. Questa è una delle ragioni per cui Kenyatta si è allontanato dal federalismo, definendolo rigido, costoso ed inattuabile.
Non ci sono dubbi che la soluzione federale in Etiopia, Sudan e Zaire avrebbe potuto, come minimo, contribuire a garantire la sicurezza alle diverse unità subnazionali, impegnate a cooperare al livello nazionale. E’ comunque chiaro ai leaders africani che l’integrazione subregionale richiede una struttura federale che protegga l’identità e la sovranità degli Stati-nazione e garantisca i paesi più piccoli contro le pretese di quelli più grandi. Nell’Ecowas, ad esempio, la Nigeria, pur assumendosi la maggior parte degli oneri finanziari, è lungi dall’intraprendere azioni tali da confermare le paure delle nazioni più piccole. Basti pensare che lo Stato membro più piccolo dell’organizzazione ha fornito il suo presidente per un anno - Alhji Dauda Jawara, l’ex presidente del Gambia. Anche le divisioni linguistiche possono creare tensioni e i membri dell’Ecowas sono particolarmente sensibili a quella fra anglofoni e francofoni. Così, mentre il quartier generale dell’Ecowas è in Nigeria (anglofona), gli Stati francofoni sono stati generalmente favoriti nella scelta della sede del Segretariato esecutivo, salvo che in un’occasione. Nel Sadcc, il Sudafrica è certamente una nazione dominante e il futuro ci dirà come il nuovo Sudafrica guiderà quest’organizzazione.
Generalmente, comunque, per l’Africa il grande paradosso è che si cerca di proteggere la sovranità nazionale in un’era di globalizzazione in cui i confini nazionali sono diventato fragili e porosi. Non c’è dubbio che, prima o poi, i membri di una organizzazione regionale debbano modificarne il pendolo federale, scegliendo fra le due alternative: nazionale o sovranazionale. Il sentimento dominante in dati momenti potrebbe determinare il tipo di soluzione federale necessaria. Forse questo è il punto in cui si trova ora l’Unione europea. Senza dubbio, gradualmente il pendolo verrà aggiustato: dopo tutto, c’è una certa differenza tra la CEE e l’UE.
3. Globalizzazione e paesi in via di sviluppo.
La globalizzazione ha prodotto sia delle opportunità sia seri rischi. Senza dubbio, essa «ha i suoi vincitori ed i suoi perdenti. Con l’espansione del commercio e degli investimenti esteri, alcuni paesi in via di sviluppo hanno visto approfondirsi il divario con altri. Nel frattempo, in molti paesi industrializzati la disoccupazione ha raggiunto livelli mai visti dagli anni Trenta ad oggi e l’eguaglianza dei redditi ha toccato livelli sconosciuti nell’ultimo secolo»[23].
Come osserva il già citato Rapporto UNDP per lo sviluppo umano, si suppone che una crescente corrente di ricchezza sospinga tutte le barche. Ma alcune sono in migliori condizioni di altre per navigare. Gli yatchs ed i transatlantici si stanno muovendo per cogliere le nuove opportunità, ma le zattere e le barche a remi stanno imbarcando acqua - ed alcune stanno affondando velocemente[24].
Non c’è dubbio che la globalizzazione aumenti le potenzialità degli Stati-nazione, però incrementa anche il rischio, per alcuni, di esporre i propri produttori a mercati globali molto instabili ed alle fluttuazioni del capitale che sono molto ampie, in relazione all’economia interna.
Mentre ci si aspettava che l’Uruguay Round del Gatt (Accordo generale sulle tariffe ed il commercio) provocasse un incremento del reddito globale pari ad una somma stimata tra i 212 e i 510 miliardi di dollari tra il 1995 ed il 2001, i paesi che hanno intrapreso la strada dello sviluppo per ultimi stanno perdendo circa 600 milioni di dollari all’anno, e l’Africa sub-sahariana 1,2 miliardi di dollari[25]. Le perdite negli scambi con l’estero si tradurranno in pressioni sul reddito, e soprattutto i paesi dell’Africa sub-sahariana vedranno diminuire la capacità di sostenere le esportazioni, con la conseguenza che aumenterà la loro dipendenza dagli aiuti, attualmente soggetta a grandi pressioni.
Analogamente, con l’Uruguay Round, si è accresciuto il livello di protezione di brevetti e da altri diritti derivanti da opere dell’ingegno. Dopo la seconda guerra mondiale, il trasferimento di tecnologia è così diventato più oneroso rispetto ad analoghe situazioni del XIX o del XX secolo, in quanto i paesi che si sono sviluppati per primi stanno ora imponendo regolamenti più rigorosi.
La perdita per i paesi in via di sviluppo, dovuta ad un ineguale accesso al commercio, al lavoro e al capitale, è stata stimata intorno ai 500 miliardi di dollari all’anno, circa 10 volte la somma che essi ricevono annualmente attraverso gli aiuti esteri[26].
E’ perciò chiaro che la globalizzazione sta avanzando, ma ampiamente a beneficio dei paesi più dinamici e potenti, al nord come al sud[27]. A ciò contribuisce anche il fatto che stanno cambiando i modelli di consumo: macchine lussuose, congegni elettronici, soft drinks ed altro stanno velocemente diffondendosi nei paesi in via di sviluppo, creando un acuto senso di privazione in chi non ne può ancora fruire. Il risultato è un rilevante aumento delle importazioni, con conseguente saldo negativo della bilancia commerciale. L’omogeneizzazione dei gusti, senza quella corrispondente delle competenze, è uno dei più grossi problemi della globalizzazione, caratterizzata da un grado elevato di liberalizzazione.
Non c’è dubbio che la globalizzazione può portare molti benefici a tutti, ma il controllo sulle questioni che determinano il futuro dei popoli, essendo sfuggito alle istituzioni democratiche, resta saldamente nelle mani delle grandi potenze e delle grandi imprese capitalistiche multinazionali[28]. Nell’ansia e nella disperazione, le nazioni si stanno aggregando attraverso organizzazioni regionali, senza tuttavia avere il coraggio di creare strutture federali per paura di perdere la propria sovranità. Se, da un lato, ci si aspetta che la liberalizzazione provochi benefici economici, dall’altro le nazioni stanno rispondendo ad essa attraverso sottili misure di protezionismo collettivo, per attenuare la propria ansia ed insicurezza.
Forse è necessario suggerire alcuni provvedimenti:
1) il Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite dovrebbe trovare il modo per fissare, facendole adottare dall’Assemblea generale, alcune linee-guida per la condotta di grandi nazioni, di multinazionali e di altre agenzie che operano nel processo di globalizzazione; esso potrebbe anche adottare alcune direttive contro il protezionismo aggressivo di gruppi regionali così da favorire il dispiegarsi dei vantaggi della globalizzazione;
2) l’ONU, attraverso le sue Agenzie, dovrebbe mettere allo studio, raccomandare ed attuare delle misure adeguate per proteggere i più deboli e poveri dalle conseguenze negative della globalizzazione. Si può giungere a contemplare trasferimenti fiscali tra regioni, al fine di realizzare forme di perequazione. In fin dei conti, la povertà di una parte è la povertà del tutto;
3) dovrebbero essere create adeguate istituzioni politiche a livello internazionale(preferibilmente sotto l’egida dell’ONU) per controllare il nuovo grado di interdipendenza tra le nazioni; esse potrebbero anche intervenire sui crimini e sui problemi legati al mantenimento della pace, che derivano dal disordine.
Anche tenendo presente quanto detto sin qui, è chiaro che, al livello globale, una struttura confederale di nazioni sia importante per mantenere l’ordine, mentre gli accordi confederali che caratterizzano le organizzazioni regionali non possono fornire una risposta adeguata alla globalizzazione. D’altro lato, le nazioni sono riluttanti a cedere la loro sovranità per diventare parte di un organismo sovranazionale che potrebbe essere sfruttato da un paese membro o da un gruppo di paesi particolarmente potenti, a svantaggio degli altri.
A partire dalle organizzazioni regionali, la struttura istituzionale potrebbe gradualmente trasformarsi da confederale a federale, man mano che la reciproca fiducia si sviluppi tra i membri. Certamente una cosa è chiara: una risposta alle esigenze create dalla globalizzazione che faccia leva su politiche di protezionismo regionale è contraddittoria. Essa ha vista corta e vita breve. La creazione di istituzioni con funzioni di mediazione globale sta diventando un imperativo politico se si vuole evitare il rischio che il processo attuale di globalizzazione crei una giungla globale.
4. Conclusione.
Per riassumere brevemente i problemi trattati, si può dire che gli Stati-nazione, di fronte alle sfide della globalizzazione, si sono scoperti troppo piccoli, e la regionalizzazione è perciò diventata una risposta collettiva per far fronte ad esse. Per gestire queste organizzazioni regionali, gli Stati-nazione oscillano tra due tipi di autodeterminazione (due tipi di nazionalismo): quella legata agli imperativi di una risposta sovranazionale alla globalizzazione e quella connessa al desiderio di proteggere la sovranità nazionale e l’identità in un’era in cui gli effetti della rivoluzione tecnologica hanno reso entrambe fragili ed evanescenti. Così, il dibattito intorno alle soluzioni di tipo federale ai problemi della gestione delle organizzazioni regionali è destinato ad approfondirsi.
Si è quindi osservato che è necessario giungere ad un adeguato compromesso di carattere federale e che questo compromesso deve essere tale da consentire il controllo delle tensioni tra autodeterminazione sovranazionale ed autodeterminazione nazionale, e da tener conto anche delle stanze subnazionali.
Abbiamo inoltre preso in considerazione altre forme di tensione, connaturate al sistema internazionale, che oggi sono accentuate dal processo di globalizzazione e dal bisogno di attuare politiche adeguate e di creare istituzioni globali, capaci di orientare il processo in modo da far sì che esso si sviluppi nel rispetto dei bisogni umani, in una prospettiva di superamento delle disuguaglianze tra regioni e nazioni.
Nella misura in cui nel villaggio globale si riducono sempre più le distanze fra le sue varie parti diventano necessarie istituzioni ed organizzazioni più complesse per controllare e regolare la nuova fase di interdipendenza, e per dar vita ad un mondo sicuro e prospero per tutti. Il non tener conto degli effetti della globalizzazione in definitiva può rivelarsi dannoso per tutti. Persino chi ora è apparentemente prospero e forte, può probabilmente scoprire di aver conseguito un vantaggio sugli altri destinato a rivelarsi una vittoria di Pirro.
NOTE
[1] Cfr. K. C. Wheare, Del governo federale, Bologna, Il Mulino, 1997; Ronald Watts, Administration in Federal Systems, Londra, Hutchinson Education, 1970; Publius. The Joumal of Federalism (inverno 1988), vol. 18, n. 1; Publius. The Journal of Federalism (autunno 1991), vol. 21, n. 4. Cfr. anche Dan Elazar (a cura di), Federal and Political Integration, Ramat Gan, Israele, Turtledoue Publishing, 1997; J. Isawa Elaigwu, The Nigerian Federation: Its Foundation and Future Prospects, Abuja, NCVIR, 1993.
[2] Bisogna notare che la Nigeria sotto l’impero britannico era uno Stato unitario, ma, dal punto di vista amministrativo, era molto decentrata. Mentre la Gran Bretagna ha sempre preferito lasciare in eredità alle sue colonie una qualche forma di federalismo, non c’è dubbio che la Nigeria ha optato per il federalismo tra il 1951 e il 1959 a causa dei mutui sospetti e delle paure di dominio tra i gruppi nigeriani.
[3] Shridath Ramphal, «Keynote Address», in A. B. Akinyemi, P. D. Cole e Walter Ofonagoro (a cura di), Readings on Federalism, Lagos, Nigerian Institute of International Affairs, 1979.
[4] Ibidem, p. XXII.
[5] Pierre Trudeau, citato da Shridath Ramphal, op. cit., p. XXII.
[6] Ivo Ducachek, «Consociations of Fatherlands: the Revival of Confederal Principles and Practices», in Publius. The Journal of Federalism (autunno 1982), vol. 12.
[7] Ibidem, pp. 137-8.
[8] Ibidem.
[9] Dan Elazar, Federalism and the Way to Peace, Reflections paper n. 13, Kingston, Ontario, Institute of Intergovernmental Relations , 1994, p. 8.
[10] United Nations Development Program, Human Development Report, 1997, New York, Oxford University Press, 1997, p. 82.
[11] La Porte, E. Ronald ed altri, Global Public Health and the Information Superhighway, in British Medical Journal, 308, 1651-52.
[12] Michael Batty e Bob Ban, «The Electronic Frontier: Exploring and Mapping Cyberspace», in Futures, 26 (7),699-712.
[13] John Herz, International Politics in the Atomic Age, 1959, e The Territorial State Revisited: Reflections on the Future of the Nation-state, 1969.
[14] UNDP, Human Development Report, 1997, cit., p. 91.
[15] Ibidem.
[16] Ibidem.
[17] Lucio Levi, «Globalization and International Democracy», in The Federalist Debate, X (1997), n. 1, p. 2. Cfr. anche J. Isawa Elaigwu, From Might to Money: The Changing Dimensions Global Transition to the 21st Century, Kuru, NIPSS, 1995.
[18] Rasheeduddin Khan, Experiments with Confederations: South Asia, lavoro presentato al Colloquio dell’International Association of Centres for the Study of Federalism (IACFS), «From Statism to Federalism», Centre for the Study of Federalism, Philadelphia (USA), Temple University, 11-13 settembre 1995, p. 9. Cfr. anche M. Butter, Europe. More than a Continent, Londra, 1986; E. Wistrich, After Nineteen Hundred and Ninety Two: the United States of Europe, Londra, 1989; J.M. Buchanan, K.O. Poehl, V. Curzon e altri, Europe’s Constitutional Future, Londra, Institute of Economic Affairs, 1990; Commissione delle Comunità europee, Dal mercato unico all’Unione europea, Bruxelles, 1992.
[19] Douglas M. Brown, Nafta, Federalism and Integration: Exploring the North American Model, lavoro presentato al Colloquio dell’IACFS, cit. Per ulteriori letture vedi A. R. Riggse Tom Velk (a cura di), Beyond Nafta: An Economic, Political and Sociological perspective, Vancouver, Fraser Institute, 1993; Rod Dobell e Michael Newfeld (a cura di), Beyond Nafta: The Western Hemisphere Interface, Lanceville, B. C., Oolichan Books, 1993.
[20] Karl H. Fry, «North American Federalism, Nafta and Foreign Economic Relations», in Bertus de Villiers (a cura di), Evaluating Federal Systems, Dordrecht e Boston, Martinus Nijhoff, 1994.
[21] I membri dell’Asean sono l’Indonesia, la Malaisia, le Filippine, Singapore e la Tailandia. Tutti e cinque sono, dal punto di vista geografico, penisole o isole situate nel Sudest asiatico.
[22] Lucio Levi, op. cit., p. 2.
[23] UNDP, Human Development Report, 1997, cit., p. 82.
[24] Ibidem.
[25] Ibidem.
[26] UNDP, Human Development Report, 1992, New York, Oxford University Press, 1992.
[27] UNDP, Human Development Report, 1997, cit., p. 87.
[28] Lucio Levi, op. cit., p. 2.