IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno LVI, 2014, Numero 1-2, Pagina 146

 

 

FRA TRADIZIONE FEDERALISTA

E RIVISTAZIONI KEYNESIANE:

UNA NOTA IN TEMA DI EUROBOND

 

SILVIO BRETTA e ALBERTO BOTTA

 

 

1. La nota che segue trae origine da due incontri di studio svoltisi a Pavia: 1) il seminario su “Verso un debito pubblico europeo: quali prospettive?” tenutosi il 15 aprile 2011 presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università, al quale è seguita la pubblicazione di un volume che affianca alle relazioni discusse nell’incontro contributi ulteriori intesi a contestualizzare il dibattito approfondendone alcuni profili analitici;[1] 2) la conferenza-seminario di Giorgio La Malfa svoltasi il 10 dicembre 2012 presso l’Almo Collegio Borromeo in occasione della presentazione della traduzione italiana di un volumetto dal titolo Le mie prime convinzioni, che raccoglie due testi redatti da John Maynard Keynes in tempi diversi (precisamente nel 1921 e nel 1938) ed è introdotto da un saggio dello stesso La Malfa, che del pensiero dell’economista di Cambridge si era già occupato in precedenti scritti.[2]

Argomento del seminario del 2011 erano gli eurobond, tema da tempo oggetto di discussione, nonché “segno di contraddizione” fra concezioni dell’Unione europea, e quindi fra “traiettorie” politico-istituzionali dell’Unione stessa, fra loro divergenti. La prospettiva di una convergenza restava già allora (e da tempo) affidata più alla speranza di una rinnovata, straordinaria iniziativa politica, della quale né si percepiva l’imminenza né si individuavano i possibili promotori, che non alla positiva conclusione dei consueti defatiganti compromessi su tecnicismi sofisticati o su complessi organigrammi: questi d’altra parte, quando prendevano forma, apparivano finalizzati più alla salvaguardia di consolidati equilibri di potere che alla massimizzazione di qualche funzione del benessere sociale comunitaria.

Argomento dell’incontro dell’anno successivo (al quale è seguito, nel novembre del 2013, un ciclo di conferenze tenute dallo stesso Giorgio La Malfa su genesi, contenuto e attualità della Teoria Generale) è stata la riproposizione di due scritti keynesiani certamente minori ma altamente esemplari sia di convinzioni profonde di Keynes in materia di politica economica delle relazioni internazionali sia dell’ambiente intellettuale nel quale la sua personalità si era andata sviluppando. Prendendo lo spunto da quegli scritti ma ampliandone la prospettiva alle più generali tematiche keynesiane trattate dall’oratore nel corso degli incontri pavesi, è possibile “incrociare” alcuni temi rilevanti, e precisamente: a) la storia del rapporto fra Keynes e il banchiere Melchior (il “nemico sconfitto”, socio della Banca Warburg e principale negoziatore tedesco alle trattative di Versailles) sullo sfondo delle cupe prospettive dell’Europa postbellica quali andavano delineandosi dopo quei negoziati e come conseguenza delle loro conclusioni (concause rilevanti essendo tanto la tracotanza franco-britannica – da cui la “pace cartaginese” imposta alla Germania – quanto l’insipienza wilsoniana), b) la svalutazione keynesiana dei meccanismi autocorrettivi di mercato con la conseguente teorizzazione dell’indispensabilità delle politiche macroeconomiche, c) la convinzione della necessità di instaurare relazioni cooperative fra gli Stati per un’organizzazione pacifica del mondo. Se facciamo nostra questa prospettiva, riusciamo a scorgere, proprio nel Keynes che ci viene restituito dal saggio di La Malfa, sia una guida per interpretare anche l’odierna situazione europea, sia princìpi ispiratori utili a individuare misure adeguate ad affrontarla. Il tema oggetto del seminario del 2011, gli eurobond, è a sua volta esemplare di una delle traiettorie politico-istituzionali percorribili oggi da parte dell’Unione europea: quella tuttavia che, a nostro avviso, meglio realizza – e simboleggia – le relazioni cooperative fra gli Stati membri per instaurare le quali Keynes aveva invano combattuto a Versailles.

2. Veniamo al primo dei due incontri e al suo contesto. La città in cui questo si svolgeva – Pavia appunto – era a tale riguardo altamente evocativa, essendo stata da decenni, e continuando a essere, luogo di elaborazione e di promozione dell’idea e degli assetti istituzionali dell’Europa federale alla ricerca di soluzioni, sia politico-strutturali sia tecniche, che la crisi allora (2011) in atto rendeva, come rende tuttora, più urgenti da perseguire e nel contempo più ardue da conseguire: apparente antinomia quest’ultima – la necessità difficile – che ha contraddistinto tante tappe della costruzione europea. Nell’Università di Pavia, infatti, numerosi studiosi hanno fatto e fanno delle tematiche europeistiche l’oggetto di un’attenzione privilegiata che ha accompagnato, e spesso anticipato, le vicende del processo di unificazione-integrazione-costruzione dell’Europa. L’Ateneo pavese e Pavia sono state, d’altra parte, il luogo di lavoro di Mario Albertini (nonché del cenacolo di federalisti che con lui hanno militato[3]), al quale è legata molta parte della riflessione contemporanea sui temi del federalismo ma anche dell’azione politica per l’Europa federale. A Pavia era stata allora da poco completata, a cura di Nicoletta Mosconi, l’imponente edizione – nove volumi – degli scritti di Albertini,[4] cronaca straordinaria della quotidiana, cinquantennale militanza di uno studioso in favore, come sottolinea la curatrice in apertura del settimo volume, di una “nuova cultura politica di cui il mondo ha bisogno, la cultura politica dell’unità del genere umano, per avviarsi verso il superamento dell’ineguale distribuzione del potere e della ricchezza fra i popoli e verso il governo razionale del mondo”.[5] Il primo documento del medesimo volume, datato “Pavia, 5 gennaio 1976”, consiste infatti in una “Circolare ai membri della Commissione italiana del Mfe, ai Segretari regionali, ai Segretari di sezione” per “aprire il dibattito – sono parole di Albertini – sulla natura che dovrà assumere la politica federalista italiana a partire dal momento in cui nella situazione politica c’è il fatto nuovo dell’elezione europea”:[6] quel documento seguiva infatti di pochi giorni la decisione assunta dal Consiglio europeo di Roma di indire le prime elezioni sovranazionali della storia. Il primo documento del primo volume, datato “Pavia, 9 febbraio 1946”, aveva d’altra parte chiarito, a testimonianza di una rigorosa continuità di riflessione, i termini essenziali del problema della democrazia politica, individuati nel “contrasto che ancora oggi dà forma a reali dissensi politici” fra la concezione della democrazia “come ordine statale che garantisca ai cittadini le libertà elementari” oppure “come ordine statale che dipenda in toto dalla volontà dei cittadini”.[7] L’ultimo documento del nono volume, dal titolo L’Italia non si salva senza l’Europa, riporta a sua volta una dichiarazione rilasciata il 24 ottobre 1995 e inviata “agli esponenti del governo italiano e ai responsabili delle forze politiche”. Vale la pena di richiamare qui i quattro punti enunciati da Albertini in una dichiarazione di quello stesso anno. Il primo: “Per quanto riguarda l’Europa non serve la divisione italiana in parti ma l’unità nazionale”. Il secondo: “In questione è il fatto che con la ratifica del Trattato di Maastricht i cittadini italiani sono ormai anche cittadini europei”. Il terzo: “col referendum europeo del 1989 [...] l’88% degli italiani si è espresso a favore della Costituzione europea. Ne segue che ogni scelta politica che divide i partiti sul terreno europeo è antidemocratica e illegittima”. Il quarto: “Va detto [...] che coloro che non hanno perso il senso della realtà sanno che la degenerazione della lotta per il potere in Italia è ormai giunta ad un punto tale che può essere sanata solo con la piena assunzione da parte dell’Italia del ruolo europeo che ebbe con De Gasperi e con Spinelli”.[8] Fra le numerose ipotesi di lavoro politico-istituzionale formulate da Albertini richiamiamo qui soltanto la formula delle elezioni “a cascata”, finalizzata a regolare l’ordine di successione e i tempi di svolgimento delle elezioni ai vari livelli, affinché l’intero processo potesse (allora come oggi) conservare una fisionomia unitaria, come tale funzionale al progredire dell’unificazione europea. Lo ricorda Giovanni Vigo nella Introduzione ai due volumi degli scritti su Senso della storia e azione politica di un altro esponente di spicco del federalismo italiano ed europeo che ha operato a Pavia: Francesco Rossolillo.[9] Nella stessa sede poi, e a proposito della “necessità difficile” alla quale si è fatto riferimento sopra, Vigo ricorda tuttavia che: “raggiunti i due obiettivi dell’elezione diretta del Parlamento europeo e dell’euro, non sono più pensabili obiettivi intermedi di carattere costituzionale. Dall’altra parte si è creata nel corso degli anni una situazione che mette in pericolo lo sbocco federale e lo rende sempre più urgente [corsivo non nel testo, n.d.r.] [...]. Si assiste cioè al progressivo indebolimento della compattezza e della capacità decisionale dell’Unione in seguito ai successivi allargamenti, al riemergere della difesa degli interessi nazionali a scapito dell’interesse europeo e all’uscita di scena degli uomini politici che, dopo la seconda guerra mondiale, erano convinti che l’unificazione politica dell’Europa fosse la sola via di salvezza”.[10] Quanto poi al contributo di Rossolillo alla interpretazione dei grandi fatti politici e culturali del nostro tempo, basti il riferimento a un passo di una sua Relazione del 2003 nella quale si ammoniva che “L’Europa è [...] destinata ad incamminarsi verso la propria decadenza, a meno che la tendenza non venga invertita [...] da un forte soprassalto delle coscienze dei politici e dell’opinione pubblica. Si tratta di un soprassalto che si deve produrre in un tempo relativamente breve, e che non può trovare la sua origine che in una crisi profonda, o nella concreta minaccia di una crisi imminente [corsivo non nel testo, n.d.r.] [...] che metta in discussione modi di vivere e di pensare che si ritenevano acquisiti una volta per tutte”:[11] uno strumento di analisi per l’azione, come si vede, di speciale rilevanza proprio nelle presenti circostanze di crisi della costruzione europea.

Una spiegazione “strutturale” di tali difficoltà è racchiusa in un’arguta affermazione dell’allora presidente dell’Eurogruppo, il lussemburghese Jean-Claude Juncker, citata in The Economist del 15 marzo 2007 e collocata in epigrafe a un saggio – sugli esiti prevedibilmente non positivi del Trattato di Lisbona – di Michele Ruta, raccolto in un fascicolo monografico della serie “Temi e problemi” de Il Politico,[12] rivista che ha dedicato all’Europa, alle sue vicende e alle sue istituzioni, ben dodici dei suoi sessanta “Quaderni”. La frase è la seguente: “Sappiamo tutti cosa fare, solo che non sappiamo come fare per essere rieletti una volta che lo abbiamo fatto”.[13] La conclusione di Ruta non lascia dubbi. In controtendenza rispetto ad altri autori (Alesina-Giavazzi e Wolf, fra gli altri) egli ribadisce infatti, con eloquenti richiami einaudiani, la necessità di una riforma in senso federale dell’architettura costituzionale dell’Europa, come unico strumento efficace per contrastare gli effetti paralizzanti, sulle economie dei paesi membri o della maggior parte di essi, delle resistenze opposte dagli interessi costituiti. Sostiene infatti Ruta che “I gruppi di pressione nazionali prosperano in un ambiente chiuso creato da politiche economiche nazionali. Fare ripartire il processo di integrazione politica e istituzionale in Europa è la via per limitare l’influenza di interessi costituiti e per riportare l’Europa su un cammino di riforma e di maggiore crescita economica”.[14] Un ulteriore passo, anche questo collocato in epigrafe al saggio di Ruta, è dovuto a un altro grande europeista, Tommaso Padoa-Schioppa.[15] Da Ministro dell’economia del governo italiano, e riferendosi ai lavori dell’Eurogruppo, Padoa-Schioppa affermava, sempre nel 2007: “L’Eurogruppo sta prestando una sempre maggiore attenzione alle riforme strutturali [...]. Tuttavia l’approccio [...] si limita a comparare le esperienze fatte da diversi paesi, incoraggiando i ritardatari a imparare dai riformatori più attivi [...]. Ciò che manca, io credo, è l’Unione”.[16] Il medesimo approccio ispira poi uno degli ultimi saggi di Padoa-Schioppa, l’intervista sulla crisi e le sue cause rilasciata a Beda Romano nel 2009,[17] nella quale si individua nello short termism (la “veduta corta” che dà il titolo al saggio) una determinante formidabile dello sfavorevole stato delle cose del continente. Uno dei capitoli più stimolanti di quell’intervista è intitolato appunto a Integrazione e disgregazione di un’Europa da individuare come “una dinamica: di geografia, istituzioni, funzioni”:[18] solo l’accettazione della prospettiva della dinamica, e non soltanto di quella dell’acquis communautaire, sarebbe infatti idonea a far compiere alla costruzione europea passi decisivi superando l’antinomia integrazione-disgregazione. E inoltre l’Europa appare come “un cantiere ancora aperto, un semilavorato che deve essere trasformato in prodotto finito [...]. L’Europa in gran parte è ancora un oggetto, non un soggetto, della storia; ha debolezze congenite; ha il fascino acerbo dell’adolescente, ma non è adulta”.[19] È, quella di Padoa-Schioppa, la stessa “veduta lunga” che caratterizza tanti dei suoi interventi giornalistici, che il Corriere della Sera ha voluto raccogliere in volume.[20] In un articolo del 27 maggio 2002, dal titolo Moneta, bilancio e regole europee. La tavola pitagorica, nel tracciare un profilo della psicologia-tipo dei governanti, Padoa-Schioppa concludeva infatti: “Chi si accinge a governare si sente povero di strumenti, impedito a mantenere le promesse, quasi tradito. È troppo umano che il neoeletto veda nelle preesistenti leggi, nei vincoli costituzionali, nell’Europa [...], un ostacolo all’esercizio di quel potere che l’unzione democratica gli ha appena conferito, un’offesa al primato della politica. Il meno avvertito vede un’Europa impersonale e burocratica, crede che la democrazia abiti solo a Vienna o Parigi e non anche a Bruxelles. Ma non è l’Europa il fardello di chi si accinge a governare. Viene chiamato Europa quello che veramente è, più in generale, il peso della realtà, ossia quel passato che ogni governante scopre quando si mette al lavoro”.[21] Più avanti, in Nazioni, comunità e mondo globale. Come ritrovare l’unione smarrita del 19 giugno 2005, allargando lo sguardo dai governanti ai governati, Padoa-Schioppa scriverà che: “l’Unione europea si occupa dei problemi classici di una formazione statuale, con litigiosità e vizi propri della politica. Se ne occupa perché essa è già una formazione di tipo statuale: incompleta, imperfetta, ma reale. In oltre mezzo secolo essa ha emanato leggi, chiamato i cittadini al voto, riformato ordinamenti giuridici ed economici, cancellato frontiere, istituito la propria moneta. Lo Stato contemporaneo, però, è fondato sul concetto di nazione. Come un tempo intorno al re, così oggi intorno alla nazione, lo Stato ha organizzato interessi, risorse, apparati amministrativi, partiti. La nazione fattasi Stato si è rivelata un’idea infiammante, un surrogato della passione religiosa [...]. Nell’elogio che se ne fa, lo Stato nazionale è riproposto come aggregazione umana perfetta e intangibile; assicurerebbe democrazia, omogeneità di cultura, solidarietà sociale, sicurezza interna ed esterna, potenza nel mondo [...]. Quell’elogio è, purtroppo, un misero inganno: l’ha svelato la tragedia europea del secolo scorso; lo svelano ogni giorno l’impotenza e l’assenza dei Paesi europei, ormai troppo piccoli per i problemi che il mondo pone”.[22]

3. Quanto ai contributi raccolti nel volume che dà conto delle discussioni del seminario del 2011 (cfr. nota 1), la loro ispirazione è marcatamente avversa (pur senza eccessi dottrinari) all’approccio intergovernativo allora e tuttora prevalente (e favorevole invece, per dirla con Paul De Grauwe, a procedure di decisione idonee a internalizzare le esternalità, che è poi il compito di ogni autentica azione di governo): sembra quasi aver tratto vigore dall’ambiente intellettuale, quello pavese, nel quale l’incontro si era svolto.

Alberto Botta in particolare (il cui contributo, come quello di Silvio Beretta, non era stato oggetto di discussione) propone un modello analitico utile a contrastare l’ “ortodossia della virtù” prevalente in Europa, inquadrando in una prospettiva post-keynesiana (à la Minsky) la relazione fra crisi dei debiti sovrani e instabilità finanziaria. Le misure di salvataggio attuate a favore di istituzioni finanziarie in difficoltà darebbero luogo, nell’opinione dell’autore, a comportamenti di mercato riconducibili alla categoria delle self-fulfilling expectations, innescando in successione “fuga” dai titoli pubblici, aumento dei rendimenti, aggravamento della gestione del debito, "avvitamento" recessivo del sistema. Nel tentativo di rassicurare i mercati si finirebbe con il porre in essere politiche di bilancio restrittive, e queste determinerebbero un ulteriore appesantimento dei conti pubblici a danno delle prospettive di crescita del sistema; il perseguimento dell’obiettivo della crescita richiederebbe, all’opposto, politiche espansive[23] indirizzate al miglioramento di produttività e competitività, ma queste risultano inattuabili proprio in ragione delle loro prevedibili conseguenze sui comportamenti degli operatori. Gli eurobond, in quanto strumento di integrazione fiscale fra i membri dell’Unione, indispensabile all’attuazione di politiche di bilancio intese a contrastare le conseguenze reali delle crisi finanziarie promuovendo la crescita di lungo periodo, determinerebbero – e simboleggerebbero – proprio quella discontinuità istituzionale che (in quanto manifestazione della “volontà irremovibile di preservare la moneta unica” pubblicamente auspicata dal Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco[24]) è condizione indispensabile per superare l’asimmetria strutturale caratteristica dell’attuale assetto istituzionale dell’Unione: un’esperienza costituente davvero singolare infatti, quella europea, caratterizzata dal fatto di prefiggersi la Costituzione come obiettivo e non invece, come nell’esperienza statunitense, di farvi riferimento come presupposto. Su tale assetto, ripercorrendo le vicende più significative delle istituzioni monetarie e di bilancio dell’Europa, si sofferma nel suo contributo Dario Velo, sottolineando come quella singolarità costituisca il cuore vero del problema, oltre che un potente fattore di vantaggio a favore degli Stati Uniti nei confronti dell’Europa: la risposta statunitense alle situazioni di crisi risulta infatti, come mette in evidenza Alberto Majocchi, più incisiva e tempestiva in ragione della coincidenza di un processo decisionale federale – non confederale, e come tale governato dalla logica del “coordinamento”, strutturalmente inidonea a fare fronte a situazioni di urgenza – e dall’assenza dei vincoli unanimistici che tuttora regolano, in Europa, gli interventi in materia fiscale. Riferendosi in particolare a De Grauwe, ma anche a Sen, Majocchi sottolinea l’onerosità dei vincoli che i comportamenti dei mercati finanziari impongono ai paesi (ad esempio la Spagna) che partecipano a una Unione monetaria, rispetto a quelli (ad esempio il Regno Unito) che mantengono il controllo della moneta nella quale emettono i propri titoli di debito.

Al tema degli eurobond, strumento finalizzato alla provvista di risorse finanziarie necessarie alla realizzazione di un piano di rilancio della produttività e della competitività dell’Europa e alla produzione di quei “beni pubblici europei” che sono condizione della sua crescita (da progettare congiuntamente alla garanzia di adeguate risorse di bilancio proprie a favore dell’Unione), sono dedicati gli ulteriori tre saggi del volume. Quello di Marcello Messori ripercorre le crisi di alcuni debiti sovrani europei e la conseguente attivazione di meccanismi europei di stabilizzazione finanziaria (EFSM, EFSF, ESM) sottolineandone l’inadeguatezza a risolvere i problemi del problema del “debito sovrano europeo” in situazioni di permanenti tensioni di mercato e di difficoltà crescenti in settori rilevanti di alcuni sistemi bancari. Viene proposta, come soluzione strutturale, l’istituzione di una European Debt Agency (EDA) sostitutiva tanto dell’EFSF quanto dell’ESM e operante secondo regole (di particolare interesse risulta il proposto meccanismo dell’asta inversa) per quanto possibile “di mercato”, idonee a massimizzare la compatibilità fra gli interessi – tuttora divergenti – dei paesi “periferici” e di quelli dei paesi “centrali”, di quelli del Sud e di quelli del Nord dell’Europa. Nel suo contributo Vincenzo Visco ribadisce invece la proposta di attivare un Fondo, distinto dai bilanci pubblici dei singoli paesi, per gestire l’extra-debito determinato a loro carico dalla crisi finanziaria, “sterilizzandone” quindi le conseguenze, particolarmente quelle recessive: al Fondo sarebbe affidato, sulla base di entrate proprie derivanti dal gettito di un’imposta sulle transazioni finanziarie, sia il compito di gestire “collettivamente” e autonomamente una quota dei debiti sovrani, sia quello di fare fronte alle necessità di ricapitalizzazione di istituti bancari. Il saggio di Jacques Ziller, infine, propone precisazioni semantiche a proposito del termine eurobond, sottolineando la scarsa attenzione della letteratura giuridica nei confronti delle problematiche a esso collegate: il consiglio terminologico di Ziller – di riferire cioè ciascuna eventuale emissione al nome del paese emittente – così come il richiamo alla necessità di procedere (in caso di attivazione) a una riforma sostanziale dei Trattati, riconduce il problema alla sua sostanza politica, che sarà oggetto di una dichiarazione esplicita contenuta proprio nelle Considerazioni finali del Governatore Visco del 2012: l’impossibilità cioè di perseguire l’obiettivo eurobond, equivalente alla “mutualizzazione” dei debiti sovrani degli Stati membri, in assenza di una politica del tesoro comune, anzi di un Tesoro comune.[25]

4. Veniamo ora al secondo dei due incontri, quello con Giorgio La Malfa e con il Keynes dei Two Memoirs, che La Malfa ha “restituito” agli ascoltatori nella conferenza-seminario tenuta alla fine del 2012 riproponendo, in particolare, il saggio originariamente intitolato Dr Melchior: A Defeated Enemy.[26] L’odierno consolidarsi, fra i policy makers ma altresì nella stampa e nell’opinione pubblica, dell’ “ortodossia della virtù” come regola aurea di governo dei sistemi economici, al quale si è fatto cenno sopra, rende (inevitabilmente e anche per reazione) la rivisitazione di Keynes un esercizio illuminante e salutare. Di particolare utilità si rivela, a questo fine, la prima delle due memorie riproposte, letta da Keynes il 2 febbraio 1921 ai membri del Memoir Club, il circolo fondato l’anno prima a Cambridge e che si richiamava al Bloomsbury Group. Vi si rievoca – attraverso la figura del banchiere ebreo Melchior, negoziatore tedesco alla Conferenza di pace di Parigi e al pari di Keynes anzitempo dimissionario dall’incarico – le drammatiche vicende che, in un turbinio di riunioni susseguitesi fra treni e alberghi da Treviri a Parigi, da Lussemburgo a Spa a Bruxelles, portarono nel 1919 alla definizione delle condizioni di pace fra i paesi belligeranti. Rappresentante del Tesoro britannico in seno al Supremo consiglio economico fino al 7 giugno di quell’anno, Keynes visse e contribuì a condurre dalla parte dei vincitori – pur criticandone aspramente metodi e risultati, dei quali previde le catastrofiche conseguenze[27] – le infinite discussioni sui termini economici degli accordi (riparazioni, oro, prestiti, flotta tedesca da consegnare, approvvigionamenti alimentari da convogliare verso la Germania sconfitta nonché modalità e combinazioni diverse dei medesimi elementi) in un clima politico condizionato dall’arroganza irresponsabile dei francesi e dall’ondivaga irresolutezza degli anglo-americani,[28] a illustrare la quale basti la descrizione che Keynes fa di qualche concreta motivazione statunitense quando riferisce dell’entusiastica disponibilità di Wilson nei confronti dei rifornimenti alimentari da avviare verso la Germania. “Il presidente Wilson – ricorda Keynes – [...] si profuse in nobili e retorici sforzi [...]. Egli confidava nel fatto che [...] il ministero delle Finanze francese ritirasse le sue obiezioni, poiché occorreva fronteggiare i grandi problemi posti dal bolscevismo e dalle forze che minacciavano di condurre la società alla dissoluzione [...] ma le motivazioni degli uomini sono spesso ambigue. Al suo fianco c’era Hoover [Herbert Hoover, in seguito presidente degli Stati Uniti, era allora US Food Administrator, n.d.r.] [...] che [...] aveva promesso agli agricoltori americani un prezzo minimo per la carne di maiale, causandone la sovrapproduzione, con il conseguente crollo dei prezzi. Il Congresso si era rifiutato di stanziare i fondi necessari per mantenere la promessa [...]. Gli americani hanno proposto che si riversino sulla Germania i grandi stock di pancetta di bassa qualità in nostro possesso, e li si rimpiazzi con stock più freschi e vendibili. Dal punto di vista alimentare sarebbe chiaramente un buon affare per noi [...]. La situazione è curiosa. L’embargo nei confronti dei paesi neutrali sta per essere revocato e la Germania potrà presto rifornirsi di grassi su scala molto generosa. È necessario sconfiggere il bolscevismo e dare il via a una nuova era. Al Supremo Consiglio di guerra il presidente Wilson è stato molto eloquente circa la necessità di un’azione tempestiva in linea con questi princìpi. Ma, in realtà, a ispirare le sue parole sono le abbondanti e costose scorte di carne di maiale, da scaricare a ogni costo su qualcuno, nemici o alleati che siano. I sogni di Hoover pullulano di maiali, ed egli si dichiara pronto a tutto pur di scacciare l’incubo [corsivo non nel testo…n.d.r.]”.[29] E di seguito, nel riferire di un accalorato intervento di Lloyd George a favore dello sblocco dei rifornimenti alla Germania, Keynes osserverà che: “Era in gioco l’onore degli Alleati. Le condizioni dell’armistizio prevedevano che questi ultimi consentissero alla Germania di procurarsi derrate alimentari. I tedeschi avevano accettato clausole sufficientemente severe, e le avevano quasi sempre rispettate, ma finora non una sola tonnellata di cibo era stata inviata in Germania. Alla flotta tedesca si era addirittura impedito di andare a pescare un po’ di aringhe [...]. Si permetteva che i tedeschi soffrissero la fame, mentre centinaia di migliaia di tonnellate di viveri giacevano a Rotterdam [...]. Si stava seminando odio per il futuro, e si creavano i presupposti di una situazione drammatica non tanto per i tedeschi quanto per gli stessi Alleati [corsivo non nel testo, n.d.r.]”.[30]

Fra intransigenze vendicative, equilibrismi diplomatici e interessi inconfessabili spiccava tuttavia, dando origine a un sodalizio che sarebbe durato oltre i rispettivi mandati (e le rispettive dimissioni) proprio la figura del banchiere Melchior, del quale Keynes scriverà che “parlava in tono pacato e senza pause, offrendo una straordinaria impressione di sincerità. Il suo compito più arduo [...] era quello di tenere a freno i colleghi [gli altri membri della delegazione tedesca, n.d.r.] [...], sempre pronti a intervenire a sproposito con appelli indecorosi, o con bugie [...] così sciocche che non avrebbero ingannato il più stupido degli americani. Questo ebreo [...] era il solo depositario della dignità degli sconfitti [corsivo non nel testo…n.d.r.]:[31] incontrandolo di nuovo ad Amsterdam nell’ottobre del 1919 (Keynes era già tornato a Cambridge e Melchior aveva rifiutato per ben due volte la nomina a Ministro delle finanze del nuovo Stato tedesco) scriverà di lui: “Capii [...] fino in fondo quanto fosse intransigente, un moralista rigoroso e onesto, un adoratore delle Tavole della Legge, un rabbino. La violazione della promessa e della disciplina, il venir meno del comportamento onorevole, il tradimento degli accordi da una parte e l’insincera accettazione, dall’altra, di condizioni impossibili da rispettare, la Germania colpevole di essersi assunta impegni che non era in grado di mantenere quasi quanto gli Alleati erano colpevoli di aver imposto condizioni che non avevano diritto di esigere [corsivo non nel testo, n.d.r.] [...]: erano queste offese al Verbo che lo ferivano tanto”.[32]

Dal ritratto, amichevole e quasi complice, che Keynes traccia del “nemico sconfitto” Melchior, come dall’intero racconto della sua esperienza di negoziatore, emergono, di Keynes, non soltanto la straordinaria attitudine a essere protagonista di esperienze drammatiche di “gestione” di rapporti internazionali successivi a eventi bellici (protagonista senza successo dopo il primo conflitto mondiale, come lo sarà con largo ma non pieno successo dopo il secondo), ma anche la sua convinzione della necessità di relazioni cooperative fra gli Stati, particolarmente fra quelli europei, per l’organizzazione pacifica della convivenza universale, in fondo quella stessa superiore finalità di “governo razionale del mondo”, che necessita di una “cultura politica dell’unità del genere umano”, alla quale si è fatto cenno in apertura con riferimento al pensiero federalista di Mario Albertini.[33] Tale convinzione, drammaticamente rafforzata dall’esperienza del negoziato che si concluderà con la “pace cartaginese” del 1919, emergerà immediatamente, e con rinnovata chiarezza, ne Le conseguenze economiche della pace redatte di getto dopo il ritorno a Cambridge. “Ben pochi di noi – scriverà nel capitolo introduttivo – si rendono conto appieno del carattere fortemente insolito, instabile, complicato, incerto, temporaneo dell’organizzazione economica con cui l’Europa occidentale è vissuta nell’ultimo mezzo secolo. Consideriamo naturali, permanenti, sicuri, alcuni dei più singolari e temporanei nostri vantaggi recenti, e ci regoliamo nei nostri piani di conseguenza. Su questa base precaria e ingannevole progettiamo miglioramenti sociali e allestiamo piattaforme politiche, coltiviamo le nostre animosità e le nostre particolari ambizioni”.[34] Poco oltre, nel riandare con la mente alle trattative di pace, osserverà che “I lavori di Parigi avevano tutti quest’aria di straordinaria importanza e irrilevanza insieme. Le decisioni sembravano gravide di conseguenze per il futuro della società umana; eppure l’aria bisbigliava che il verbo non era carne, che esso era futile, insignificante, inefficace, dissociato dai fatti; e si aveva fortemente l’impressione [...] di eventi marcianti alla loro conclusione destinata, ininfluenzati dalle elucubrazioni degli statisti riuniti a consiglio”.[35] Avviandosi verso la conclusione dello stesso saggio, e riferendosi alle prospettive dell’Europa nel suo complesso, Keynes scriverà poi che “L’Europa è il più denso aggregato di popolazione della storia del mondo. Questa popolazione è abituata a un tenore di vita relativamente alto, nel quale alcuni settori di essa si aspettano anche adesso un miglioramento anziché un declino [...]. La fame, che genera in alcuni apatia e un inerme scoramento, spinge altri temperamenti a un’isterica instabilità nervosa e al furore della disperazione. E nella loro angoscia costoro possono abbattere quel tanto di organizzazione che resta e sommergere la civiltà stessa nel tentativo disperato di soddisfare i prepotenti bisogni individuali. Questo è il pericolo contro il quale tutte le nostre risorse e coraggio e idealismo devono adesso collaborare”.[36] Concludendo infine con l’auspicio di un intervento finanziario a favore dell’Europa, un prestito internazionale che a quel tempo solo gli Stati Uniti avrebbero potuto concedere, individuerà proprio nei particolarismi europei una delle principali obiezioni che sarebbero state inevitabilmente suscitate da tale intervento. Infatti “Niente garantisce che l’Europa farà buon uso di aiuti finanziari o che non li sperpererà, trovandosi da qui a due o tre anni a mal partito come adesso: Klotz [era il negoziatore francese alle trattative di pace, n.d.r.] [...] impiegherà il denaro per rimandare ancora un po’ il giorno della tassazione, Italia e Iugoslavia se ne serviranno per azzuffarsi, la Polonia lo dedicherà ad assolvere verso tutti i vicini al ruolo militare che la Francia le ha destinato, le classi dirigenti rumene spartiranno tra loro il bottino [...]. Se io avessi influenza presso il Tesoro statunitense non presterei un centesimo a nessuno degli attuali governi europei [...]. Ma se [...] i popoli europei [...] ripudieranno i falsi idoli sopravvissuti alla guerra, e sostituiranno in cuor loro all’odio e al nazionalismo che ora li possiede pensieri e speranze di felicità e solidarietà della famiglia europea: allora la naturale pietà e l’amore filiale dovrebbero indurre il popolo americano a mettere da parte ogni meschina obbiezione di vantaggio privato, e a completare, salvando l’Europa da se stessa, l’opera iniziata salvandola dalla tirannia della forza”.[37] Riferendosi inoltre alla ragnatela di relazioni di debito-credito che caratterizzava in quel dopoguerra i rapporti reciproci fra alleati e fra questi e gli ex-avversari (“La Germania deve un’enormità agli Alleati; gli Alleati devono un’enormità alla Gran Bretagna; e la Gran Bretagna deve un’enormità agli Stati Uniti”[38]), Keynes osservava che “L’intera situazione è artificiosa, fuorviante e vessatoria al massimo grado. Non riusciremo più a fare un passo se non districhiamo le gambe da questi ceppi cartacei. Un falò generale è una necessità così impellente, che se non vi provvediamo in modo ordinato e benigno, senza fare grave ingiustizia a nessuno, il falò quando infine avrà luogo diventerà un incendio che può distruggere molte altre cose insieme [...] la persistenza, su scala enorme, di debiti intergovernativi presenta speciali pericoli suoi propri [corsivo non nel testo, n.d.r.]”.[39]

5. I riferimenti ai testi keynesiani del 1919 e del 1921 ben si prestano a una lettura che, pur evitando le analogie forzate e le simmetrie imprudenti che oscurerebbero le macroscopiche differenze (da una parte un conflitto mondiale appena concluso, dall’altra una costruzione europea che, pur successiva a quell’ulteriore conflitto che Keynes aveva preconizzato, è nata e si è sviluppata in tempi di pace continentale), prenda tuttavia consapevolezza di qualche significativa regolarità, utile a individuare percorsi operativi adeguati anche all’odierna crisi dell’Europa. L’esistenza di analogie non sembra contestabile. L’instabilità della costruzione europea è infatti connaturata all’approccio funzionalista che tuttora la governa e che la rende, per dirla con il Keynes del 1919, insolita, complicata, incerta e perciò temporanea,[40] nel senso (attuale) di reversibile fino al suo completamento federale. Altrettanto agevole è inoltre constatare quanta somiglianza esista fra i lavori della Conferenza di Parigi, nel contempo importanti e irrilevanti agli occhi di Keynes, e la fitta sequenza dei “vertici” europei di oggi, modalità di decisione per altro connaturata all’approccio intergovernativo tuttora prevalente. Allo stesso modo colpisce l’analogia fra l’immagine di un’Europa già allora assuefatta a livelli di benessere comparativamente elevati, e quindi poco incline ad accettare pacificamente arretramenti nel tenore di vita, e i ricorrenti timori di rottura della coesione sociale che accompagnano le odierne situazioni di crisi e che sono conseguenza anche delle misure restrittive di norma attuate per fronteggiarle. I particolarismi “nazionali” infine (effetto e causa, oggi, del perdurare dell’approccio funzionalista) ostacolano sistematicamente ogni intervento “cooperativo” sia quello esterno all’Europa (in quanto promosso dagli Stati Uniti, come auspicava Keynes nel primo dopoguerra), sia quello interno in quanto deciso (come oggi accade) dal sistema delle istituzioni europee. Precarietà istituzionale, scarsa funzionalità dei processi decisionali, vischiosità sociale e propensione degli Stati membri a comportamenti divergenti costituivano quindi allora, e rimangono oggi, tratti distintivi dell’Europa: se si è affievolita l’eco drammatica di un conflitto appena concluso (ma che non è stato l’ultimo), resta profonda la preoccupazione per le prospettive del processo di unificazione, per la natura potenzialmente cumulativa dei divari interstatali e per le conseguenze che questi determinano su modalità e tempi di “governo” della crisi, che quei divari condizionano e dai quali sono a loro volta condizionati.

Osserva Michael Spence in un recente saggio che “L’equilibrio non cooperativo [...] è un sistema positivo, a patto che esista un’entità governativa credibile che persegua, anche se in modo imperfetto, l’interesse comune o collettivo [corsivo non nel testo, n.d.r.] [...]. È quello che fa lo Stato, in modi diversi”.[41] E prosegue constatando che “Nell’economia globale, l’elemento quasi del tutto assente è un governo mondiale efficace, in grado di perseguire l’interesse comune”,[42] che cioè, in un contesto “di mercato” e limitatamente all’ambito economico, 1) garantisca il rispetto dei contratti, 2) individui le esternalità nonché le “insufficienze” di mercato derivanti da divari e da asimmetrie informativi e assuma al riguardo i provvedimenti di sua competenza, 3) fornisca i beni comuni la cui produzione non sarebbe altrimenti garantita. In un mondo multispeedin cui le istituzioni finalizzate a “produrre” comportamenti cooperativi sono, a dir poco, carenti, rileva in misura particolare la presenza di entità politico-istituzionali, di “aggregati di nazioni”, la cui presenza minimizzi, e comunque riduca, l’instabilità connaturata al sistema. È questo l’ordine di considerazioni che rende l’esperimento europeo così strategico per gli equilibri mondiali: date le dimensioni dell’Unione quando questa sia considerata come un’entità unitaria e dato l’elevato grado di integrazione della sua economia considerata come un aggregato, l’Europa si presenta infatti come un potenziale produttore di stabilità, un partecipante strategico a un auspicabile “gioco cooperativo” planetario. L’Europa in quanto Unione europea, tuttavia, non possiede (ancora) le caratteristiche idonee a candidarla con successo a tale ruolo. Non può quindi concorrere alla produzione di relazioni cooperative globali dal momento che, a oggi, non le ha prodotte neppure al proprio interno in misura adeguata ad assicurare la propria stessa sopravvivenza e quella degli obiettivi finora raggiunti (in particolare l’euro). L’Unione è oggi perciò, oggettivamente, un produttore di instabilità sia interna che esterna, particolarmente in un contesto di crisi: lo è perché la sua architettura istituzionale è incompleta e quindi fragile, essendo stata “costruita” con spirito di cautela, riflesso di una diffidenza originaria fra gli Stati membri, perché è dotata di una Banca centrale mono-obiettivo e perché gli Stati nazionali che la compongono sono politicamente responsabili di fronte ai propri cittadini elettori, ma sono limitati dai vincoli europei quando si tratta di proporsi obiettivi in termini di occupazione e di sviluppo, obiettivi che l’Unione, in quanto tale, non è in grado di perseguire in proprio in misura adeguata alle necessità.[43]

6. Quale è, per concludere recuperando il nostro tema di apertura, la rilevanza degli eurobond per le argomentazioni sviluppate in questa nota? Le ragioni della rilevanza di tali strumenti finanziari sono già tutte contenute nelle pagine che precedono, e particolarmente nei paragrafi 3 e 5. La sintesi di tali ragioni sta tuttavia nella caratteristica degli eurobond[44] di rendere manifesti, quando fossero attivati e in virtù della loro stessa esistenza, i progressi compiuti dall’Unione nella direzione del proprio completamento, cioè dell’integrazione fiscale fra i paesi membri, assicurando alla politica di bilancio europea risorse adeguate, e correggendo quindi l’asimmetria che attualmente caratterizza la “scatola degli attrezzi” a disposizione dell’Unione e delle sue istituzioni: l’attuale attribuzione di tali strumenti a livelli/istituzioni di decisione differenti (Unione, Banca centrale, Stati) e il sistema di vincoli e di competenze che ne regolano il funzionamento sono infatti incompatibili con un conseguimento soddisfacente di alcuni fra gli obiettivi che sono argomento della funzione del benessere sociale continentale e che sono specificati all’art. 2 del Trattato di Roma, che recita: “La Comunità ha il compito di promuovere [...] mediante l’instaurazione di un mercato comune e di un’unione economica e monetaria e mediante l’attuazione delle politiche e delle azioni comuni [...], uno sviluppo armonioso, equilibrato e sostenibile delle attività economiche, un elevato livello di occupazione e di protezione sociale, [...] una crescita sostenibile e non inflazionistica, un elevato grado di convergenza dei risultati economici, [...] il miglioramento del tenore e della qualità della vita, la coesione economica e sociale e la solidarietà tra Stati membri”. Il fatto che già negli articoli del Trattato immediatamente seguenti (precisamente nell’art. 3A) e nei Trattati successivi l’ “orientamento alla stabilità” abbia assunto rilevanza prioritaria nulla toglie né alla portata politica di quella dichiarazione né alla necessità tecnica della simmetria fra gli strumenti di politica macroeconomica. Rilievo primario avrebbe inoltre il progressivo formarsi sia di un mercato unificato di titoli sovrani denominati in euro, sia di uno stock di debito pubblico europeo, che rafforzerebbe l’efficacia degli strumenti di intervento a disposizione dell’Unione potenziando i canali di trasmissione dei loro effetti, analogamente a quanto accade a livello dei singoli Stati. L’asimmetria attuale, fra strumenti di intervento e fra livelli di decisione, accentua invece le spinte centrifughe, divaricando ulteriormente gli Stati membri (una delle manifestazioni più preoccupanti di tale divaricazione è la tendenza alla frammentazione dei mercati finanziari della zona euro, cioè alla loro rinazionalizzazione), specie quando shock esogeni si sovrappongano a squilibri strutturali già presenti e non superati. L’obiettivo prioritario dei decisori dovrebbe essere, all’opposto, quello di rafforzare ogni istituzione idonea a internalizzare le esternalità in vista della produzione di beni pubblici transnazionali quali, ad esempio, la sicurezza e la stessa crescita continentale. L’ “ortodossia della virtù” oggi corrente appare invece un potente promotore di comportamenti non cooperativi, quasi un incentivo prima alla produzione e poi alla proliferazione proprio di quelle esternalità negative contro il prevalere delle quali Keynes si era invano battuto nel primo dopoguerra dello scorso secolo.

 


[1] S. Beretta, F. Osculati (a cura), Verso un debito pubblico europeo?, Quaderni de Il Politico, n. 57, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2012.

[2] J.M. Keynes, Le mie prime convinzioni, Milano, Adelphi, 2012. Fra gli scritti “keynesiani” di La Malfa cfr., ad esempio, La terza via di John Maynard Keynes in J.M. Keynes, Sono un liberale? E altri scritti (a cura di Giorgio La Malfa), Milano, Adelphi, 2010, pp. 9-27.

[3] Testimonianza fra le tante di tale attività è proprio la rivista Il Federalista, fondata da Mario Albertini nel 1959.

[4] M. Albertini, Tutti gli scritti, Voll. I - IX, Bologna, Il Mulino, 2006-2010.

[5] N. Mosconi, Premessa in M. Albertini, Tutti gli scritti, Vol. VII, 1976-1978, Bologna, Il Mulino, 2009, p. 17.

[6] M. Albertini, Circolare ai membri della Commissione italiana del Mfe, ai Segretari regionali, ai Segretari di sezione in Id., Tutti gli scritti, Vol. VII, 1976-1978, op. cit, p. 25.

[7] M. Albertini, Note sulla democrazia in Id., Tutti gli scritti, Vol I, 1946-1955, Bologna, Il Mulino, 2006, p. 79.

[8] M. Albertini, L’Italia non si salva senza l’Europa, in Id., Tutti gli scritti, Vol. IX, 1985-1995, Bologna, Il Mulino, 2010, p. 943.

[9] F. Rossolillo, Senso della storia e azione politica, Vol. I (Il senso della storia) e Vol. II (La battaglia per la Federazione europea), Bologna, Il Mulino, 2009. Il riferimento è a G. Vigo, Introduzione a F. Rossolillo, Senso della storia e azione politica, Vol. I, cit., pp. 25-6 dove, citando Albertini, Vigo precisa che “Si tratta [...] di introdurre nella costituzione dello Stato federale una norma [...] in modo che l’elezione degli organi del livello inferiore preceda sempre quella degli organi del livello superiore, e che l’intero processo – dalle elezioni di quartiere a quelle federali – si svolga in un tempo sufficientemente breve da consentirgli di conservare una fisionomia unitaria. In tal modo, l’elaborazione di programmi da parte delle forze che si affronterebbero ad ogni livello [...] risulterebbe necessariamente dallo sforzo di operare un sintesi, in una dimensione più vasta, tra i problemi e le esigenze emerse dal dibattito elettorale ai livelli inferiori”.

[10] G. Vigo, Introduzione a F. Rossolillo, Senso della storia e azione politica, Vol. I, op. cit, p. 28.

[11] F. Rossolillo, Relazione al XXI Congresso del Mfe (Firenze, 21-23 marzo 2003) in Id., Senso della storia e azione politica, Vol. I, op. cit, p. 203. A questo passo fa riferimento anche G. Vigo in Introduzione, op. cit, p. 29.

[12] M. Ruta, Perché fallisce Lisbona, in S. Beretta, J. Ziller (a cura), Nei labirinti dell’Europa, Il Politico – Temi e problemi, settembre-dicembre 2008, pp. 108-32.

[13] Citazione da The Economist, 15 marzo 2007.

[14] M. Ruta, Perché fallisce Lisbona, op. cit, p. 132.

[15] Per una sintetica ricostruzione del profilo scientifico di Tommaso Padoa-Schioppa cfr. S. Rossi, Tommaso Padoa-Schioppa economista, Rivista italiana degli economisti (aprile 2011), pp. 3-7.

[16] Il passo è tratto da una conferenza stampa organizzata in occasione della riunione dell’Eurogruppo, a Bruxelles, il 27 febbaio 2007.

[17] T. Padoa-Schioppa, La veduta corta. Conversazione con Beda Romano sul Grande crollo della finanza, Bologna,Il Mulino, 2009.

[18] T. Padoa-Schioppa, ibidem, p. 136.

[19] T. Padoa-Schioppa, ibidem, p. 121.

[20] T. Padoa-Schioppa, Scritti per il Corriere 1984-2010, Fondazione Corriere della Sera, 2011.

[21] T. Padoa-Schioppa, ibidem, p. 308.

[22]T. Padoa-Schioppa, ibidem, pp. 504-5.

[23] Per un approfondimento nella medesima linea, e con riferimento all’Italia, cfr. R.R. Canale, O. Napolitano, The Recessive Outcomes of Emu Policies: Analysis of the Italian Experience, 1998-2008, Studi economici, n. 104 (2011), pp. 89-111.

[24] Banca d’Italia, Considerazioni finali, Assemblea ordinaria dei partecipanti, Roma, 31 maggio 2012, p.15.

[25] Sul tema generale delle prospettive dell’integrazione europea cfr. il saggio, precedente la crisi dei subprime, di R. Di Quirico, L’euro, ma non l’Europa. Integrazione monetaria e integrazione politica, Bologna, Il Mulino, 2007, e in particolare il capitolo conclusivo L’integrazione monetaria come elemento di deintegrazione politica?, pp. 267-76, dove si sostiene (pp. 275-6) che “in mancanza di shock esogeni tali da rendere l’integrazione politica e militare una priorità ineludibile, allora il raggiungimento di un’integrazione politica completa sarebbe alquanto improbabile ed il mantenimento dell’attuale livello d’integrazione potrebbe essere a rischio [...] sembra dunque che, perlomeno nei prossimi anni, non solo non avremo l’Europa, ma continuare ad avere l’euro in tutti i paesi che l’hanno adottato sarà già un buon risultato”.

[26] J.M. Keynes, Dr Melchior: A Defeated Enemy in J.M. Keynes, The Collected Writings, vol. X, Essays in Biography, London, Macmillan, 1972, pp. 385-451.

[27] In apertura del sesto (e penultimo) capitolo di The Economic Consequences of the Peace pubblicato nel dicembre 1919 (The Royal Economic Society, 1971) Keynes scriverà infatti che “Il trattato non contiene norme utili alla riabilitazione economica d’Europa: nulla che giovi a mutare in buoni vicini gli Imperi centrali sconfitti, né a stabilizzare i nuovi Stati europei, né a recuperare la Russia; nemmeno promuove in alcun modo un patto di solidarietà fra gli stessi Alleati; nessun accordo è stato raggiunto a Parigi per restaurare le dissestate finanze di Francia e Italia, o per aggiustare i sistemi del Vecchio mondo e del Nuovo. A queste cose il Consiglio dei Quattro non ha prestato attenzione, preoccupandosi d’altro: Clemenceau di schiacciare la vita economica del suo nemico, Lloyd George di giungere a un accordo e di riportate in patria qualcosa che riscuotesse plauso per una settimana, il presidente Wilson di non far niente che non fosse giusto e retto. È straordinario come il fondamentale problema economico di un’Europa che languiva di fame e si sgretolava davanti ai loro occhi sia la sola questione su cui fu impossibile suscitare l’interesse dei Quattro. La loro principale escursione in campo economico ha riguardato la questione delle riparazioni, e l’hanno risolta come un problema di teologia, di politica, di artifici elettorali, da ogni punto di vista tranne quello del futuro economico degli Stati di cui avevano in mano i destini” (trad. it., Le conseguenze economiche della pace, Milano, Adelphi Edizioni, 2007, pp. 181-2). Più oltre (p. 212) Keynes ammonirà: “Se miriamo deliberatamente a impoverire l’Europa centrale, la vendetta, oso predire, non si farà attendere. Niente potrà allora ritardare a lungo quella finale guerra civile tra le forze della reazione e le convulsioni disperate della rivoluzione, rispetto alla quale gli orrori della passata guerra tedesca svaniranno nel nulla, e che distruggerà, chiunque sia il vincitore, la civiltà e il progresso della nostra generazione”.

[28] Si noti che ancora nel 1933 – Hitler era Cancelliere da qualche mese – proprio il problema del debito tedesco, nel contesto dei rapporti fra Stati Uniti e Germania, era in testa alle preoccupazioni del presidente Roosevelt appena insediatosi: il suo recupero era quindi il principale fra gli obiettivi assegnati al nuovo ambasciatore a Berlino William E. Dodd, un professore di Storia nell’Università di Chicago nominato nel giugno di quell’anno. Alla vicenda di Dodd è dedicato il saggio di E. Larson, In the Garden of Beasts: Love, Terror, and an American Family in Hitler’s Berlin, New York, Crown Publishers, 2011.

[29] J.M. Keynes, Le mie prime convinzioni, op. cit, p. 53.

[30] Ibidem, p. 88.

[31] Ibidem, p. 61.

[32] Ibidem, p. 103.

[33] Cfr. nota 5.

[34] J.M. Keynes, Le conseguenze economiche della pace, op. cit, p. 17.

[35] Ibidem, p. 19.

[36] Ibidem, pp. 182-3.

[37] Ibidem, pp. 223-4.

[38] Ibidem, p. 220.

[39] Ibidem, pp. 220-1.

[40] Cfr. nota 34.

[41] M. Spence, The Next Convergence. The Future of Economic Growth in a Multispeed World, Farrar, Straus and Giroux, New York 2011 (trad. it., La convergenza inevitabile. Una via globale per uscire dalla crisi, Roma-Bari, Editori Laterza 2012: p. 314 della trad.it.).

[42] Ibidem, pp. 314-5.

[43] Questo, in sintesi, lo scoraggiante giudizio sullo stato dell’Europa all’inizio del nuovo secolo che lo stesso Giorgio La Malfa aveva formulato quando il cammino verso l’Unione monetaria europea era già sostanzialmente concluso e meno di due anni la separavano dall’introduzione materiale della nuova moneta, con conseguente cessazione del corso legale delle valute preesistenti. Cfr. G. La Malfa, L’Europa in pericolo. La crisi dell’Euro, Bagno a Ripoli, Firenze, Passigli Editori, 2011, passim, in particolare pp. 141-5.

[44] Si prescinde qui del tutto dalle pur significative differenze che caratterizzano le diverse proposte formulate in tema di emissione di eurobond, a partire da quella originaria di Jacques Delors del 1989, alla quale hanno fatto seguito le relazioni del Gruppo Giovannini costituito nel 1996. Per una documentata rassegna critica delle principali proposte, particolarmente di quelle formulate da De Grauwe e Moesen, Delpla e von Weizsäcker, Hellwig e Philippon si rinvia a D. D’Amico, Dei diversi usi degli eurobonds, Il Politico, n. 2 (2013), pp. 64-91.

 

 

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