Anno XXXII, 1990, Numero 1 - Pagina 92
BERTRAND RUSSELL
Bertrand Russell (1872-1970) è stato uno dei personaggi più eminenti e rispettati fra coloro che hanno elaborato proposte di governo mondiale, e fu anche uno dei primi, nel nostro secolo, a fare questa proposta.
Quando, nel 1950, ricevette il premio Nobel per la letteratura, la commissione giudicatrice lo descrisse come «uno dei più brillanti messaggeri di razionalità e umanità del nostro tempo».
Russell era un matematico e un filosofo, consolidò la sua fama come fondatore della logica moderna attraverso il lavoro svolto fra l’inizio del secolo e la prima guerra mondiale e scrisse le sue opere più famose fra la prima e la seconda guerra mondiale. Egli cercò di utilizzare la tradizione filosofica collegandola ai problemi della vita umana in modo tale che si potesse trarne profitto per le proprie decisioni e per una maggiore pienezza di vita. Nei suoi libri si susseguono osservazioni attente, analisi perspicaci e saggi consigli. Di lui si è detto che non c’è stato alcun filosofo, dai tempi di Voltaire, che abbia avuto un pubblico di lettori cosi ampio, e ciò è senza dubbio dovuto alla sua chiarezza nello scrivere oltre che nel pensare.
Durante la prima guerra mondiale Russell svolse un’energica attività nel movimento contro la leva obbligatoria, attività per cui fu multato (e gli fu pignorata la biblioteca per il pagamento della multa), imprigionato e sospeso dal lettorato presso l’Università di Cambridge. Dopo che gli fu offerto un posto di insegnante ad Harvard, gli ritirarono il passaporto. Egli rifiutò il ruolo di commentatore distaccato e accademico e spesso fu in prima linea, prendendo posizione nei dibattiti politici sul tappeto, accettando dei rischi per difendere le proprie convinzioni e in particolare la causa della pace. Fu per tre volte nella sua vita candidato alle elezioni del Parlamento inglese, ma senza successo.
All’inizio della seconda guerra mondiale, si legge nella sua autobiografia, trovò sempre più difficile mantenere le sue convinzioni pacifiste. Considerava il nazismo un fenomeno «assolutamente ripugnante» e «intellettualmente odioso». Quando intravide la possibilità di una sconfitta inglese egli ritenne «questa possibilità intollerabile» e alla fine decise «consapevolmente e definitivamente di dare il suo appoggio a ciò che fosse necessario per la vittoria».[1]
A metà degli anni Cinquanta, angustiato dal clima sempre più grave di guerra fredda e dalla minaccia di catastrofe nucleare, iniziò una campagna a favore della cooperazione internazionale attraverso scritti e conferenze. In collaborazione con Albert Einstein, redasse un Manifesto che divenne un appello per una nuova forma di convivenza internazionale, conosciuto da allora come il Manifesto Russell-Einstein. Fondò il movimento Pugwash, affinché gli scienziati, al di là delle contrapposizioni ideologiche legate alla guerra fredda, unissero la loro voce in un unico appello a favore del disarmo nucleare.
La sua autobiografia contiene molti riferimenti al governo mondiale. Il libro cita, ad esempio, una lettera scritta nel 1942 a Ely Culbertson: «Per quanto riguarda il governo internazionale, penso che esso sia di gran lunga la questione più importante che il mondo ha di fronte. Sono pronto a sostenere qualunque progetto che possa verosimilmente mettere in larga misura la forza delle armi al servizio del diritto internazionale». In un altro passo egli parafrasa una conferenza tenuta alla Columbia University nel 1949: «Se vogliamo che il genere umano sopravviva, bisognerà affidare a uno Stato sovrannazionale il potere di fare la guerra nell’era della scienza. Ma ciò è così contrario alle abitudini mentali degli uomini che finora la grande maggioranza preferirebbe correre il rischio dello sterminio... La questione decisiva è se faremo in tempo o meno a creare un governo mondiale». Scrive inoltre: «Fra le prime organizzazioni che hanno dimostrato un serio interesse per le mie proposte c’erano i World Parliamentarians e, forse con un maggiore livello di serietà, la Parliamentary World Govemment Association, con cui ebbi molti incontri» .
In un compendio della sua vita, scritto all’età di ottant’anni, Russell esaminò l’attività che svolse nel corso di tre quarti del nostro secolo, testimone di due orribili guerre culminate nella divisione del mondo in due aree contrapposte.
«Sono tuttora convinto di aver avuto successo», ha scritto. «Posso aver pensato che il percorso verso un mondo di libertà e di felicità fosse più breve di quanto lo è in realtà, ma non ho sbagliato nel pensare che un tale mondo è possibile e che vale la pena di vivere con lo scopo di avvicinarci sempre più ad esso».
Il saggio che qui presentiamo, in cui egli sostiene che una pace sicura dipende dalla volontà delle nazioni di rinunciare alla loro sovranità assoluta nelle relazioni internazionali e di accettare le decisioni di una qualche istituzione internazionale, fu scritto nel 1917. Esso avrebbe dovuto essere diffuso insieme a una serie di testi di conferenze la cui divulgazione fu però impedita dal British War Office, in seguito all’accusa di incitamento allo sciopero allo scopo di porre fine alla guerra.
Le conferenze furono invece pubblicate negli Stati Uniti, raccolte in un volume intitolato Political Ideals.[2]
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INDIPENDENZA NAZIONALE E INTERNAZIONALISMO
Nei rapporti tra gli Stati, come nei rapporti tra i gruppi nell’interno di un singolo Stato, è giusto desiderare l’indipendenza per ognuno di essi negli affari interni, e la legge, invece della forza, per quel che riguarda gli affari esterni. Ai gruppi nell’interno di uno Stato bisogna dare un’indipendenza interna, poiché è questa che manca: l’ubbidienza alle leggi è stata più o meno garantita fin dalla fine del Medioevo. Nei rapporti tra gli Stati invece mancano la legge e un governo centrale, poiché l’indipendenza esiste, tanto per gli affari interni, quanto per quelli esterni. Lo stadio che abbiamo raggiunto nelle faccende dell’Europa corrisponde allo stadio raggiunto dai nostri affari interni durante la guerra delle Due Rose, quando i baroni turbolenti impedivano il mantenimento della pace. Perciò, mentre la meta è la stessa in tutti e due i casi, i provvedimenti che vanno presi allo scopo di raggiungerla sono del tutto diversi.
Non può esistere un buon sistema internazionale finché i confini degli Stati non coincideranno fin dove è possibile con i confini delle nazioni.
Non è facile spiegare quel che si intende per nazione. Gli Irlandesi sono una nazione? Gli Home Rulers dicono di sì, gli unionisti dicono di no. Gli Irlandesi del Nord sono una nazione? Gli unionisti dicono di sì, gli Home Rulers dicono di no. In tutti i casi come questi è una questione di opinioni se chiamare o no nazione un gruppo. Un Tedesco vi dirà che i Russi polacchi sono una nazione, ma per quel che riguarda i Polacchi prussiani, no, naturalmente fanno parte della Prussia. E’ facile ingaggiare professori perché dimostrino, parlando di razza o di lingua o di storia, che un gruppo nei confronti del quale è sorta una disputa, è o non è una nazione, a seconda degli interessi che questi professori servono. Se vogliamo evitare tutte queste controversie dobbiamo prima di tutto preoccuparci di trovare una definizione alla parola nazione.
Una nazione non viene definita dalle affinità di linguaggio o da una comune origine storica, anche se queste cose spesso collaborano a formare una nazione. La Svizzera è una nazione, malgrado le diversità di razza, religione e lingua. L’Inghilterra e la Scozia ora formano un’unica nazione, mentre non lo erano ai tempi della guerra civile. E lo dimostrano le parole di Cromwell che, nel mezzo del conflitto, disse che avrebbe preferito essere soggetto al dominio dei realisti che non a quello degli Scozzesi. La Gran Bretagna era uno Stato prima di essere nazione; d’altra parte, la Germania era una nazione prima di essere Stato.
Sono sentimento e istinto che costituiscono una nazione, il sentimento di affinità e l’istinto di appartenere allo stesso gruppo o mandria. L’istinto è un’estensione dell’istinto che costituisce un gregge di pecore, o qualsiasi altro gruppo di animali socievoli. Il sentimento che si accompagna ad esso è una forma più tenue e più estesa di sentimento familiare. Quando torniamo in Inghilterra dopo essere stati sul continente, ci sentiamo in sintonia con gli usi noti, e ci è facile credere che gli Inglesi nel complesso siano virtuosi, ben diversi dagli stranieri, pieni di astuta perfidia.
Questi sentimenti facilitano l’organizzarsi di una nazione in Stato. Di regola, non è difficile accettare gli ordini di un governo nazionale. Sentiamo che è il nostro governo e che i suoi decreti sono più o meno gli stessi che emaneremmo noi stessi se fossimo governatori. Un’istintiva e solitamente inconscia sensazione di avere uno scopo comune anima i membri di una nazione, e questa sensazione diventa particolarmente viva quando c’è la guerra o un pericolo di guerra. Tutti coloro che, in questi momenti, si oppongono agli ordini del loro governo affrontano un conflitto interiore, sentimento del tutto diverso da quello che proverebbero nell’opporsi agli ordini di un governo straniero sotto il cui potere potrebbe capitar loro di trovarsi. Se resistono al loro governo lo fanno con la speranza più o meno cosciente che col tempo esso finisca col pensarla nel loro stesso modo; mentre per opporsi a un governo straniero questa speranza non è necessaria. L’istinto di gruppo, comunque nasca, costituisce una nazione e per questa ragione è importante che i confini delle nazioni siano anche i confini degli Stati.
Il sentimento nazionale è un fatto e le istituzioni dovrebbero tenerne conto. Quando è ignorato, si intensifica e diventa fonte di irrequietezza. Lo si può rendere innocuo soltanto lasciandogli campo libero, finché non diventa aggressivo. Ma in sé stesso non è un sentimento buono o ammirevole. Non c’è niente di razionale e di desiderabile in una simpatia limitata ad un determinato settore della razza umana. Le diversità di educazione, di usi e di tradizioni sono, nell’insieme, una buona cosa perché permettono a nazioni diverse di produrre diversi tipi di eccellenza. Ma in un sentimento nazionale c’è sempre, latente o esplicito, un sentimento di ostilità per gli stranieri. Il sentimento nazionale, come lo conosciamo, non potrebbe esistere in una nazione che fosse completamente libera da pressioni esterne di carattere ostile.
E il sentimento di gruppo produce una sorta di moralità limitata e spesso dannosa. Gli uomini finiscono con identificare il bene con quel che serve gli interessi del loro gruppo e il male con quel che agisce contro questi interessi, anche se fosse nell’interesse dell’umanità nel suo insieme. Questa moralità di gruppo appare molto evidente durante la guerra e viene solitamente accettata per buona. Gli Inglesi considerano desiderabile la sconfitta della Germania per il bene del mondo, e tuttavia per la maggior parte onorano un Tedesco che combatte per il suo paese, perché non vien loro fatto di pensare che le sue azioni dovrebbero essere guidate da una moralità più alta di quella del gruppo.
E’ giusto, di regola, che un uomo si preoccupi più degli interessi della propria nazione che non di quelli di altre, perché è molto più probabile che i suoi atti abbiano importanza per la sua nazione. Ma in tempo di guerra, e in tutte le faccende che sono di uguale interesse tanto per la sua nazione, quanto per le altre, si dovrebbe prendere in considerazione il benessere universale, e non limitare l’indagine all’interesse, o supposto interesse, del proprio gruppo o nazione.
Finché esiste il sentimento nazionale è molto importante che ciascuna nazione possa governarsi da sola, per quel che riguarda gli affari interni. Il governo può agire soltanto con l’uso della forza e della tirannia se i suoi sudditi lo considerano con occhi ostili, e lo considereranno così se sentono che appartiene ad una nazione che non è la loro. La situazione diventa più difficile dove uomini di nazioni diverse vivono fianco a fianco nella stessa zona, come accade in certe parti dei Balcani. Le difficoltà sorgono anche in luoghi che, per ragioni geografiche, sono di grande importanza internazionale, come il Canale di Suez e il Canale di Panama. In questi casi i desideri puramente locali degli abitanti potrebbero dover cedere di fronte a interessi più vasti. Ma in generale, sempre per quel che riguarda le comunità civili, il principio che i confini delle nazioni dovrebbero coincidere con i confini degli Stati ha pochissime eccezioni.
Però questo principio non stabilisce come devono essere regolati i rapporti tra gli Stati, né come dev’essere deciso un conflitto di interessi tra Stati rivali. Oggigiorno, tutti i grandi Stati esigono una sovranità assoluta non solo per quel che riguarda i loro affari interni, ma anche per quel che riguarda le loro azioni esterne. Questa pretesa di assoluta sovranità entra in conflitto con altre pretese simili da parte di altri grandi Stati. I conflitti di questo genere possono essere decisi soltanto dalla guerra o dalla diplomazia, e la diplomazia, in sostanza, altro non è che la minaccia di guerra. Non c’è una maggiore giustificazione alla pretesa di sovranità assoluta da parte di uno Stato di quanta non ce ne sarebbe ad una simile pretesa da parte di un individuo. La pretesa di sovranità assoluta è, in realtà, la pretesa che tutti gli affari esterni vengano regolati soltanto con la forza e che quando due nazioni o gruppi di nazioni sono interessati ad una questione, la decisione debba dipendere unicamente da chi è, o viene creduto, il più forte. Questa non è altro che anarchia primitiva, «la guerra di tutti contro tutti», che secondo Hobbes era lo stato originale dell’umanità.
Non può esservi sicurezza di pace nel mondo, né possono essere prese decisioni nelle questioni internazionali secondo il diritto internazionale, se gli Stati non sono disposti a rinunciare alla loro sovranità assoluta per quel che riguarda i rapporti esterni affidandone la gestione ad uno strumento internazionale di governo.[3] Un governo internazionale dovrà avere compiti sia legislativi che giudiziari. Non basta l’esistenza del tribunale dell’Aja che decide secondo un sistema di diritto internazionale già esistente; è necessario creare un’istituzione capace di mettere in pratica il diritto internazionale, che abbia il potere di trasferire territori da uno Stato all’altro, quando è convinto dell’esistenza di ragioni adeguate per questo trasferimento. Gli amici della pace commetteranno un errore se glorificheranno indebitamente lo status quo. Alcune nazioni crescono, mentre altre diminuiscono; la popolazione di una zona può mutare nelle proprie caratteristiche in seguito all’emigrazione e all’immigrazione. Non esiste una buona ragione per la quale gli Stati dovrebbero risentirsi di mutamenti nei loro confini, in queste condizioni, e se non c’è un’autorità internazionale fornita del potere di fare cambiamenti di questo genere, le tentazioni di scatenare una guerra possono diventare irresistibili.
L’autorità internazionale dovrebbe possedere un esercito e una marina, e queste dovrebbero essere l’unico esercito e l’unica marina esistenti. L’unico uso legittimo della forza deve avere lo scopo di ridurre globalmente l’uso della forza nel mondo. Finché gli uomini saranno liberi di abbandonarsi ai loro istinti predatori, alcuni uomini o gruppi di uomini approfitteranno di questa libertà per opprimere e depredare. Proprio come la polizia è necessaria per impedire l’uso della forza da parte di privati cittadini, così una polizia internazionale sarà necessaria per impedire l’uso illegale della forza da parte dei singoli Stati.
Ma considero ragionevole sperare che se mai venisse creato un governo internazionale, fornito dell’unico esercito e dell’unica marina del mondo, il bisogno della forza per ottenere l’obbedienza alle sue decisioni sarebbe temporaneo. In breve tempo i benefici risultanti dalla sostituzione della legge all’anarchia diventerebbero così ovvi che il governo internazionale acquisterebbe un’autorità indiscussa e nessuno Stato si sognerebbe di ribellarsi alle sue decisioni. Appena questo stadio sarà raggiunto, l’esercito e la marina internazionali diventeranno inutili.
Abbiamo ancora una lunga strada da percorrere prima di arrivare all’instaurazione di un’autorità internazionale, ma non è molto difficile prevedere i passi attraverso i quali il risultato potrà essere gradatamente raggiunto. E’ molto probabile che gli Stati finiscano col prendere l’abitudine di sottomettere le dispute all’arbitrato e che si diffonda la convinzione che i cosiddetti conflitti di interessi tra i diversi Stati sono soprattutto illusori. Col tempo deve diventare ovvio che anche quando esiste un reale conflitto di interessi, nessuno degli Stati in questione tanto soffrirebbe nel cedere, quanto soffrirebbe combattendo. Con le continue invenzioni, è certo che la guerra diverrà sempre più distruttiva. I popoli civili del mondo si troveranno di fronte all’alternativa della cooperazione o della reciproca distruzione. La guerra attuale rende quest’alternativa ogni giorno più evidente. Ed è difficile credere che, quando le inimicizie che essa ha generato avranno avuto il tempo di placarsi, gli uomini civili decideranno volontariamente di distruggere la civiltà piuttosto che accordarsi per l’abolizione della guerra.
Le questioni sulle quali gli interessi delle nazioni di solito entrano in conflitto sono soprattutto tre: le dogane, che sono un’idea fissa; lo sfruttamento delle razze inferiori, che è un delitto; l’orgoglio del potere e del dominio, che è una follia da scolaretti.
Le ragioni di carattere economico contro le dogane sono note e non le ripeterò. Esse non riescono ad avere il sopravvento soltanto a causa dell’inimicizia tra le nazioni. Nessuno pensa di stabilire dogane tra Inghilterra e Scozia, o tra il Lancashire e lo Yorkshire. E tuttavia gli argomenti con i quali viene sostenuta la necessità delle dogane tra le nazioni potrebbero essere usati altrettanto bene per sostenere la necessità di dogane tra le contee. Il libero commercio universale apporterebbe senza dubbio benefici economici all’umanità e lo si potrebbe adottare domani se non fosse per l’odio e il sospetto che le nazioni provano l’una verso l’altra. Dal punto di vista della conservazione della pace nel mondo, il libero commercio tra i diversi Stati civili non è tanto importante quanto lo è la porta aperta per quel che riguarda le loro clientele. Il desiderio di mercati esclusivi è una delle più potenti cause di guerra.
Sfruttare quelle che vengono chiamate «razze inferiori» è diventato uno dei principali obiettivi degli Stati europei. Non si mira soltanto, o soprattutto, al commercio, ma alle occasioni di investimenti; la finanza è più interessata all’argomento di quanto non lo sia l’industria. I diplomatici rivali molto spesso sono i servi, coscienti o meno, di gruppi rivali di finanzieri. I finanzieri, pur non appartenendo ad una particolare nazione, conoscono l’arte di appellarsi al pregiudizio nazionale e di indurre i contribuenti ad affrontare spese delle quali essi raccolgono il beneficio. I mali che provocano nell’interno, e la devastazione che diffondono tra le razze che sfruttano, fanno parte del prezzo che il mondo è costretto a pagare per la propria acquiescenza al regime capitalista.
Ma dogane e finanzieri non riuscirebbero a provocare guai seri se non fosse per il sentimento d’orgoglio nazionale. L’orgoglio nazionale potrebbe essere benefico se prendesse la forma di emulazione nelle cose che sono importanti per la civiltà. Se andassimo fieri dei nostri poeti, dei nostri uomini di scienza o della giustizia e umanità del nostro sistema sociale, potremmo trovare nell’orgoglio nazionale uno stimolo ad utili imprese. Ma queste cose hanno una parte minima. L’orgoglio nazionale, come esiste ora, si preoccupa quasi esclusivamente di potere e di dominio, dell’estensione del territorio posseduto dalla nazione e della sua capacità di far valere la propria volontà contro l’opposizione delle altre nazioni. In questo è appoggiato dalla moralità di gruppo. A nove cittadini su dieci sembra assiomatico che, ogni volta che la volontà della loro nazione è in contrasto con quella di un’altra, la loro nazione abbia ragione. E anche se non l’avesse nella particolare questione, rappresenta sempre ideali tanto più nobili di quelli rappresentati dall’altra nazione, che qualsiasi accrescimento del suo potere non può essere se non per il bene dell’umanità. Poiché tutte le nazioni sono ugualmente convinte di questo a proposito di sé stesse, tutte sono altrettanto ugualmente pronte a sostenere la vittoria della propria parte in qualsiasi conflitto nel quale credono di avere una buona probabilità di vittoria. Finché sussiste questo atteggiamento, la speranza di una collaborazione internazionale rimane vaga.
Se gli uomini potessero spogliarsi del sentimento di rivalità e di ostilità tra le diverse nazioni, capirebbero che le questioni nelle quali gli interessi delle diverse nazioni coincidono superano incommensurabilmente quelle nelle quali contrastano; capirebbero, tanto per incominciare, che il commercio non va paragonato alla guerra; che l’uomo che vende loro la merce non li offende. Nessuno pensa che il macellaio e il panettiere siano suoi nemici perché gli chiedono del denaro. E invece, quando le merci vengono da un altro paese, siamo portati a credere che nell’acquistarle subiamo un terribile danno. Nessuno ricorda che le acquistiamo per mezzo di merci esportate. Ma nel paese nel quale esportiamo, le merci mandate da noi vengono considerate pericolose, e la merce che comperiamo viene dimenticata. Il concetto degli scambi, impostoci dagli industriali che temono la concorrenza straniera, da trusts che desiderano assicurarsi monopoli e da economisti avvelenati dal virus del nazionalismo è assolutamente e completamente falso. Gli scambi derivano soltanto da una suddivisione del lavoro. Un uomo non può da solo fabbricare tutte le merci che gli occorrono e di conseguenza deve scambiare i propri prodotti con quelli di altri. Quel che vale per l’individuo vale esattamente nello stesso modo per la nazione. Non c’è ragione di desiderare che una nazione produca da sola tutte le merci delle quali ha bisogno; è meglio che si specializzi in quelle che può produrre col maggior vantaggio e che scambi il sovrappiù col sovrappiù di altre merci prodotte da altri paesi. Non serve a niente esportare merci se non lo si fa allo scopo di riceverne altre in cambio. Un macellaio che è sempre desideroso di vendere la propria carne, ma si rifiuta di prendere il pane dal panettiere, o le scarpe dal calzolaio, o gli abiti dal sarto, finirebbe col trovarsi in breve tempo a malpartito. E tuttavia non sarebbe più sciocco del protezionista che vuole mandare merce all’estero senza ricevere un pagamento sotto forma di merci importate dall’estero.
Il sistema salariale ha portato la gente a credere che ciò di cui l’uomo ha bisogno è il lavoro. Questo è naturalmente assurdo. L’uomo ha bisogno delle merci prodotte dal lavoro, e meno lavoro ci vuole per produrre una determinata quantità di merci, meglio è. Ma a causa del nostro sistema economico, ogni innovazione nei metodi di produzione permette ai datori di lavoro di licenziare alcuni dei loro dipendenti, provocando disagi, mentre un sistema migliore produrrebbe soltanto un aumento di stipendio o una diminuzione delle ore di lavoro, senza la corrispondente diminuzione di stipendio.
Il nostro sistema economico è capovolto. Mette l’interesse dell’individuo in conflitto con l’interesse della comunità, in mille modi, un conflitto che non dovrebbe esistere. Sotto un sistema migliore i benefici del libero scambio e i mali delle dogane sarebbero ovvi per tutti.
A parte gli scambi, gli interessi delle nazioni coincidono in tutto quel che comprende ciò che chiamiamo civiltà. Le invenzioni e le scoperte portano benefici a tutti. Il progresso della scienza è una questione che riguarda tutto il mondo civile. Non ha una vera importanza il fatto che un uomo di scienza sia inglese, francese o tedesco. Le sue scoperte sono a disposizione di tutti e per trame profitto non occorre niente di più dell’intelligenza. Il mondo dell’arte, della letteratura e del sapere è internazionale; quel che vien fatto in un paese non vien fatto per quel paese, ma per l’umanità. Se ci domandiamo quali cose elevano l’umanità al di sopra delle bestie, quali cose ci permettono di considerare la razza umana più importante di qualsiasi specie animale, scopriremo che non sono cose delle quali una nazione può avere la proprietà esclusiva, ma sono tutte cose che il mondo intero può spartirsi. Coloro che ci tengono, coloro che desiderano vedere l’umanità feconda nel lavoro che soltanto gli uomini possono fare, non baderanno gran che ai confini nazionali e si cureranno ben poco di sapere a quale Stato un individuo deve fedeltà.
L’importanza della cooperazione internazionale al di fuori del campo della politica mi è stata dimostrata dalla mia stessa esperienza. Fino a poco tempo fa ero occupato nell’insegnamento di una nuova scienza che pochi uomini al mondo erano in grado di insegnare. Il mio lavoro si basava soprattutto sull’opera di un Tedesco e di un Italiano. I miei allievi venivano da tutto il mondo civile: Francia, Germania, Austria, Russia, Grecia, Giappone, Cina, India e America. Nessuno di noi era cosciente di un senso di diversità nazionale. Ci sentivamo un avamposto della civiltà, occupati a costruire una strada nella foresta vergine dell’ignoto. Tutti collaboravano all’impresa comune e nell’interesse di questo lavoro le inimicizie politiche delle nazioni sembravano insignificanti, temporanee e futili. Ma non è soltanto nell’atmosfera piuttosto rarefatta di una scienza astrusa che la collaborazione internazionale è vitale per il progresso della civiltà. Tutti i problemi economici, la questione di garantire i diritti della manodopera, le speranze di libertà in patria e di umanità fuori, poggiano sulla creazione di una buona volontà internazionale.
Finché odio, sospetto e paura dominano i sentimenti degli uomini, non possiamo sperare di sfuggire alla tirannia della violenza e della forza bruta. Gli uomini devono imparare ad essere coscienti degli interessi comuni dell’umanità, sui quali tutti concordano, piuttosto che dei cosiddetti interessi dai quali le nazioni sono divise. Non è necessario, e neanche desiderabile, eliminare le differenze di educazione, di usi e di tradizioni tra le diverse nazioni. Queste differenze danno ad ogni singola nazione la possibilità di dare un contributo caratteristico alla civiltà del mondo nel suo complesso.
Ciò che bisogna desiderare non è il cosmopolitismo, non è l’assenza di caratteristiche nazionali che si nota nei couriers, negli inservienti dei vagon-lits e in altri uomini le cui particolarità sono state eliminate dal continuo contatto con gli uomini di tutte le nazioni civili. Questo vuol dire perdere qualcosa, non acquistarla. Lo spirito internazionale che vorremmo veder nascere dovrebbe essere qualcosa da aggiungere all’amor patrio, non da togliere. Il patriottismo non impedisce di provare affetto per la propria contea, ma in certo qual modo altera il carattere di questo affetto. Le cose che desidereremo per il nostro paese non saranno più quelle che possono essere acquistate soltanto a spese degli altri, ma soltanto quelle nelle quali l’eccellenza di un qualsiasi paese va a vantaggio del mondo intero. Desidereremo che il nostro paese sia grande nelle arti della pace, eminente nel pensiero e nella scienza, che sia magnanimo e giusto e generoso. Desidereremo che porga il suo aiuto all’umanità sulla strada verso un mondo migliore, un mondo di libertà e di concordia internazionale che dobbiamo creare se l’uomo vuole avere ancora la possibilità di essere felice. Non desidereremo per il nostro paese i trionfi transitori di una ristretta avidità, ma il trionfo duraturo dell’aver collaborato a infondere alle faccende umane un po’ di quello spirito di fratellanza che Cristo ha insegnato e che le Chiese cristiane hanno dimenticato. Vedremo che questo spirito non rappresenta soltanto la più alta moralità, ma anche la più vera saggezza, e l’unica strada per la quale le nazioni, lacere e sanguinanti per le ferite che la pazzia scientifica ha loro inflitto, potranno affacciarsi a una vita dove lo sviluppo è possibile e la gioia non è bandita dal richiamo frenetico di doveri irreali e fittizi. Gli atti ispirati dall’odio non sono doveri, qualunque dolore e sacrificio richiedano. Soltanto negli atti d’amore sarà possibile trovare vita e speranza per il mondo.
(a cura di Dieter Heinrich)
[1] Questa e le citazioni che seguono sono tratte da Bertrand Russell, Autobiography, Londra, Unwin Paperback, 1975.
[2] B. Russell, Political Ideals, Londra, Allen & Unwin, 1963 (trad. it. Le idee politiche, Milano, Longanesi, 1983).
[3] Per uno schema particolareggiato di un governo internazionale vedi: L. Woolf, Governo internazionale, Allen & Unwin.