IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XLIV, 2002, Numero 2, Pagina 147

 

 

ALEXANDER HAMILTON
 
 
Quale dovrebbe essere lo scopo ultimo di una Convenzione costituente? Una risposta chiara a questa domanda fu data Hamilton nel 1780, ben prima che venisse convocata la Convenzione di Filadelfia, nella sua esposizione dei difetti della confederazione in una lettera a James Duane, allora membro del Congresso per lo Stato di New York, di cui vengono qui riportati i passi più significativi.[1] La Convenzione, che Hamilton auspicava venisse convocata nell’autunno di quello stesso anno, doveva servire per attribuire al Congresso continentale il potere di decidere in ultima istanza su tutte le questioni vitali per l’Unione, cioè per trasferire la sovranità dalle ex-colonie agli Stati Uniti. A partire da quel momento la creazione di un potere sovrano continentale costituì la stella polare dell’azione politica di Hamilton. Qualche anno dopo, nel suo intervento alla Convenzione, preoccupato dalla prospettiva di una riforma che mantenesse un debole potere esecutivo a livello continentale, egli non esitò a proporre un monarca elettivo a capo della federazione, al fine di garantire l’unicità e l’efficacia di governo. Il suo lealismo nei confronti dell’Unione, prevalente rispetto a quello verso il suo stesso Stato di provenienza, New York, spiega perché Hamilton non fu, come non è tuttora, considerato negli USA il vero interprete delle aspirazioni federaliste del popolo americano, e come questo ruolo venga attribuito solitamente più a Jefferson o a Madison. Fu però quel lealismo a portarlo a giocare un ruolo fondamentale nel fondare uno Stato federale sovrano su di un’area, quella delle tredici colonie, occupata da più soggetti che pretendevano di essere sovrani.
L’esperienza della guerra d’indipendenza delle colonie dalla corona britannica aveva insegnato ad Hamilton che senza uno Stato continentale prima o poi «qualcuno dei singoli Stati diventerà così potente rispetto agli altri (e noi siamo così lontani dagli altri popoli), che avremo tutto il tempo e le opportunità di tagliarci la gola a vicenda».[2] Per questo approvò e difese la nuova Costituzione quando si rese conto che essa rappresentava il mezzo per imporre alle ex-colonie un nuovo principio di governo, basato sull’«allargamento dell’orbita di governo sia rispetto alle dimensioni di un singolo Stato, sia rispetto alla unione di più Stati in una confederazione… La costituzione proposta, lungi dal prevedere l’abolizione dei governi degli Stati, li rende parti costituenti della nuova sovranità statuale, consentendo loro di essere rappresentati direttamente nel Senato, e lasciando loro importanti ed esclusive porzioni di sovranità. Questo corrisponde pienamente, sul piano del significato dei termini, all’idea di un governo federale».[3] Teoricamente nulla avrebbe impedito ad altri continenti, in primis all’Europa, di seguire l’esempio americano. Questo aveva chiesto, all’indomani della chiusura della Convenzione di Filadelfia, Benjamin Franklin con una lettera ad alcuni amici europei: «Vi invio la nuova proposta di Costituzione federale. Sono stato impegnato personalmente per quattro mesi della scorsa estate nella Convenzione che l’ha elaborata… Se avrà successo, non vedo perché voi non potreste portare a termine in Europa il progetto del buon Enrico IV, formando una unione federale ed una grande repubblica di tutti i vostri Stati e Regni, grazie ad una Convenzione simile a quella che abbiamo eletto noi per riconciliare i nostri diversi interessi».[4] Ma il fortunato esito della battaglia federalista in America non era destinato a ripetersi presto altrove.
Come sappiamo, non solo gli europei non seguirono l’esempio americano, ma ci vollero oltre un secolo e mezzo e due guerre mondiali prima che alcuni paesi, pacificati dall’intervento americano, avviassero un processo di unificazione del continente europeo. Un processo che tuttavia si è sviluppato così lentamente ed in modo tanto incerto da non essere ancora giunto, dopo oltre mezzo secolo, all’approdo della Federazione europea.
I difetti della confederazione americana denunciati da Hamilton sono i difetti dell’attuale Unione europea. L’impotenza del Congresso americano trova riscontro in quella delle istituzioni dell’Unione europea. Senza il trasferimento di sovranità dagli Stati all’Unione, non sarebbe stato possibile fondare in America un sistema di governo efficace e potente. Senza il trasferimento di sovranità dagli Stati alla Federazione europea, non sarà possibile rimuovere il principale ostacolo sulla strada dell’unificazione politica degli europei. Letta in questa ottica la lettera di Hamilton rappresenta non solo un’ulteriore testimonianza della lungimiranza politica del principale autore degli articoli del Federalist, ma anche un monito a quegli europei, Capi di Stato e di governo o semplici cittadini, che pur continuando a lamentare la debolezza dell’Europa, non sono ancora disposti a rinunciare alla sovranità nazionale.
 
La lettera a James Duane contiene diverse anticipazioni delle argomentazioni che Hamilton avrebbe in seguito utilizzato per sostenere la ratifica della Costituzione di Filadelfia e per rafforzare il governo federale. Essa conferma la preoccupazione principale di Hamilton: quella di far seguire sempre all’analisi dei fatti dei possibili rimedi. Non a caso questa lettera si apre con un perentorio «il difetto fondamentale», per lasciare spazio nella seconda parte ai «rimedi».
Hamilton conosceva l’influenza ed il prestigio di uno dei primi sostenitori della guerra di indipendenza contro la corona britannica. Spesso ne avrebbe chiesto l’aiuto anche negli anni successivi. Duane, come la maggior parte dei suoi compatrioti e colleghi nel Congresso, era consapevole dei limiti e dei difetti dell’Unione, ma non sapeva come superarli. Hamilton non esitò a metterlo di fronte al problema fondamentale, con rispetto, ma anche con decisione, rivolgendosi all’amico che occupava una posizione adeguata per «porre rimedio al disordine» e proponendogli una procedura per mettere Stati di fronte al problema della cessione della sovranità. Una procedura che avrebbe avuto successo solo dopo altri otto anni di lotte politiche. E’ appena il caso di aggiungere che l’uso della parola confederazione da parte di Hamilton per descrivere sia il sistema istituzionale da cambiare che quello nuovo non lascia adito a dubbi circa la natura pienamente federale dello Stato che egli ha in mente quando elenca i poteri sovrani da attribuire al Congresso. Poteri che, grazie alla battaglia di Hamilton, oggi sono pienamente esercitati dal sistema di governo federale degli Stati Uniti d’America.
 
 
I DIFETTI DELL’ATTUALE SISTEMA
 
 
Signore,
conformemente alla vostra richiesta ed alla mia promessa, vi espongo le mie idee circa i difetti del nostro attuale sistema, e i cambiamenti necessari per salvarci dalla rovina. Forse esse sono solo le fantasticherie di un visionario e non l’assennato punto di vista di un politico. Giudicherete voi e ne farete l’uso che vorrete.
Il difetto fondamentale è la mancanza di potere del Congresso. E’ appena il caso di mostrare in che cosa ciò consista, poiché sembra universalmente ammesso. Né vale la pena sottolineare come ciò si sia verificato. La sola questione da porci è come porvi rimedio. Si può tuttavia osservare come questa mancanza ha almeno tre cause.
In primo luogo si è manifestato un eccesso di indipendenza da parte dei singoli Stati, gelosi di qualsiasi potere che non sia sotto il loro controllo. Questa gelosia li ha condotti ad esercitare il diritto di giudicare in ultima istanza la validità o meno di tutte le misure raccomandate dal Congresso, e ad agire sulla base di ciò che ritengono i loro interessi e le loro necessità. In secondo luogo il Congresso si è mostrato diffidente nei confronti dei suoi stessi poteri, comportandosi pavidamente e con indecisione, facendo continue concessioni agli Stati, accontentandosi di mantenere solo la parvenza del potere. In terzo luogo non sono stati forniti al Congresso sufficienti mezzi per rispondere alle esigenze del popolo, né abbastanza risorse per procurarseli. Tutto ciò ha reso il Congresso dipendente dai singoli Stati, e non dagli Stati nel loro insieme, nel far fronte alle esigenze militari, screditandolo nei confronti dell’esercito.
Si potrebbe argomentare che al Congresso non sono mai stati attribuiti dei poteri definitivi e che quindi esso non ne può esercitare alcuno, ma può al massimo rivolgere delle raccomandazioni. A questo proposito si può però osservare che il modo in cui il Congresso venne istituito avrebbe dovuto garantire, ai fini del bene pubblico, che i suoi membri si considerassero già investiti dei pieni poteri necessari per preservare la repubblica dal male. Questi hanno in effetti compiuto molti atti sovrani che erano loro stati richiesti — la dichiarazione di indipendenza, la dichiarazione di guerra, la creazione di un esercito e di una marina, battere moneta, fare alleanze con potenze straniere, nominare un generale in capo, ecc. Tutti questi atti sovrani non sono mai stati contestati, e avrebbero dovuto essere considerati come il comportamento normale del governo. In fondo i poteri indefiniti sono poteri discrezionali, limitati solo dallo scopo per il quale sono attribuiti, nel nostro caso l’indipendenza e la libertà dell’America. Lo stesso si può dire della confederazione che, dal momento che non è stata ancora accettata da tutti, non può agire. Invece il Congresso è venuto meno all’autorità che gli derivava dallo spirito dell’atto che lo ha istituito, mentre i singoli Stati non si sono mai riconosciuti in questo atto più di quanto non sia loro convenuto. Ci vorrebbe troppo per entrare in particolari che, se presi singolarmente, potrebbero addirittura apparire inconsistenti. Ma nel complesso essi sono molto significativi. Con questo non voglio esprimere un biasimo, ma semplicemente attirare l’attenzione su di un nodo cruciale.
E’ la stessa confederazione che non funziona e che deve essere corretta: essa non serve né per fare la guerra, né per mantenere la pace. L’esercizio della sovranità assoluta da parte di ogni Stato sulla propria milizia, renderà inutili tutti gli eventuali poteri attribuiti al Congresso, e debole e precaria la nostra unione. In innumerevoli casi sono necessari provvedimenti a tutela del bene comune che ricadono sotto la competenza del Congresso, che interferiscono con il Stati, e ci sono casi in cui gli Stati, grazie ai loro poteri sulle milizie, possono efficacemente, anche se indirettamente, contrastare le disposizioni congressuali. Esempi di ciò si sono manifestati, e credo che li ricorderete senza che mi ci soffermi.
La confederazione lascia dunque ai singoli Stati troppo potere sulla politica militare, mentre essi non dovrebbero avere niente a che fare con essa. Sia la formazione che il collocamento delle forze militari dovrebbero infatti essere prerogativa del Congresso. Ciò è un fattore essenziale di coesione dell’unione, e pertanto il Congresso dovrebbe promuovere ogni politica tesa a contrastare nell’esercito il sentimento di lealtà verso singoli Stati e a rivendicarlo per sé. Per questo motivo tutte le nomine, le promozioni e tutti i provvedimenti militari dovrebbero dipendere dal Congresso.
Si potrebbe obiettare che un simile stato di cose sarebbe pericoloso per la libertà. Ma nulla mi appare più evidente del fatto che si corrono più rischi con un governo federale disunito e debole, che non con uno che in futuro potrebbe usurpare i diritti del popolo: oggi assistiamo al fatto che i reparti militari obbedirebbero più volentieri ordini dei loro rispettivi Stati che non a quelli del Congresso, nonostante tutti gli sforzi che abbiamo compiuto per preservare l’unità dell’esercito (solo l’influenza personale del Generale ha impedito che ciò avvenisse, e ciò è di scarsa consolazione).
Per chi teme per le libertà si può osservare che le costituzioni dei singoli Stati sapranno garantire sempre l’influenza di questi nell’Unione e renderanno sempre difficile a qualunque governo generale piegarli completamente all’interesse comune. In definitiva, per i nostri Stati sarà sempre abbastanza facile opporsi a provvedimenti che non approvano e formare coalizioni contro l’interesse comune. Esiste infatti una grande differenza tra la nostra situazione e quella di un impero controllato da un unico centro di governo, articolato sì in contee, province e distretti, ma senza organi legislativi autonomi e con organi di controllo e di esecuzione delle leggi che dipendono in ultima istanza da un unico sovrano. In questo caso il pericolo risiede proprio nel fatto che il sovrano detiene un potere sufficiente per opprimere tutte le parti dell’impero. Ma nel caso di un impero composto da Stati confederati, ciascuno con un governo completamente organizzato e con tutti i poteri necessari per governare sui suoi sudditi, il pericolo è esattamente l’opposto: qui il comune sovrano rischia in ogni momento di non avere poteri sufficienti per tenere insieme l’unione e per mettere le forze comuni al servizio dell’interesse e della felicità di tutti.
 
[…]
 
L’esperienza fatta dovrebbe essere sufficiente per farci capire a che punto siamo arrivati. Abbiamo sperimentato la difficoltà di reperire le risorse necessarie cercando di indurre gli Stati a ripartire equamente fra loro gli oneri per sostenere la causa comune. L’insuccesso del nostro ultimo tentativo è illuminante: alcuni Stati hanno fornito un grosso contributo, altri un piccolo o addirittura nessun contributo. Inoltre le dispute fra gli Stati sui confini esistenti testimoniano delle scarse prospettive di pace che abbiamo se non diamo vita in fretta ad una confederazione capace di risolvere i conflitti e di imporre l’obbedienza ai propri membri.
L’attuale confederazione continua a lasciare il potere della borsa interamente nelle mani degli Stati, mentre dovrebbe garantire l’autonomia finanziaria del Congresso attraverso l’imposizione di una imposta fondiaria e di una tassa pro capite o quant’altro necessario. Tutte le imposte sul commercio dovrebbero essere stabilite dal Congresso e da questo stanziate per gli usi che desidera. Senza entrate certe, nessun governo ha alcun potere effettivo: è chi ha il potere di stringere i cordoni della borsa che deve governare. Se non conquista questo potere, il Congresso non potrà avere alcuna autorità.
 
[…]
 
Questi sono dunque i principali difetti dell’attuale sistema che mi vengono in mente. Sicuramente ce ne sono molti altri, ma minori, nell’organizzazione di particolari dipartimenti e nell’amministrazione che potrebbero ancora essere ricordati. Ma sarebbe un esercizio fastidioso e noioso elencarli. Se riuscissimo a porre rimedio ai principali difetti che ho segnalato, gli altri verrebbero facilmente corretti.
Vorrei quindi incominciare a proporre quei rimedi che mi sembrano necessari per uscire dalla situazione deplorevole in cui ci troviamo, partendo dalla constatazione che il primo passo da compiere dovrebbe consistere nell’attribuzione al Congresso dei poteri adeguati per affrontare la crisi. Questo potrebbe essere fatto in due modi: o il si riappropria ed esercita i poteri discrezionali di cui è stato originariamente investito per la salvezza degli Stati, facendo appello ai cittadini ed allo stato di necessità; oppure si convoca immediatamente una Convenzione generale investita dell’autorità necessaria per decidere del destino della confederazione. In quest’ultimo caso gli Stati dovrebbero essere preventivamente messi di fronte alle conseguenze derivanti dall’impotenza del Congresso e dall’impossibilità di far fronte alla situazione mantenendo le cose così come sono, in modo che i delegati si facciano un’idea precisa del compito loro assegnato e dell’autorità conferita alla Convenzione. Il mandato dovrebbe includere il potere di attribuire al Congresso la proprietà totale o parziale delle terre ancora non occupate, al fine di consentirgli di dotarsi di un patrimonio autonomo, pur riservando agli Stati ai quali appartenevano l’amministrazione.
Il primo progetto penso che sarebbe considerato dal Congresso troppo ardito perché in verità finora la sua condotta ha dimostrato che esso è lungi dal rivendicare potere per sé, e quindi difficilmente si può sperare nel successo di un simile esperimento.
Non vedo invece alcuna controindicazione nell’attuare il secondo progetto, che ha un’importanza pari almeno alle ragioni per realizzarlo. La Convenzione dovrebbe riunirsi il prossimo 1° novembre: prima sarà, meglio sarà. I disordini interni sono ormai troppo violenti per essere affrontati con provvedimenti ordinari o indugiando ulteriormente. Le ragioni per cui ritengo necessario che i membri della Convenzione siano investiti di pieni poteri, risiedono essenzialmente nel fatto che non ci possiamo permettere ritardi e che abbiamo bisogno di decisioni immediate. Una Convenzione può accordarsi sulla natura della confederazione, cosa che difficilmente gli Stati separatamente sarebbero disposti a fare. Abbiamo inoltre bisogno di un evento decisivo e forte se vogliamo avere successo ora e garantirci la futura felicità.
Come ho già detto, per convincere gli Stati che questa è la strada da seguire, il Congresso dovrebbe confessare subito apertamente e con una sola voce che non abbiamo gli strumenti per governare e che è necessaria un’Unione solida e capace di imporre le proprie decisioni. Chiedo che la Convenzione abbia il potere di attribuire al Congresso la proprietà parziale o totale delle terre non ancora occupate, proprio perché è necessario che esso disponga subito di un patrimonio da cui trarre le proprie risorse finanziarie e non vedo al momento altra via per fornirgliele.
La confederazione dovrebbe in definitiva attribuire al Congresso una sovranità completa, escludendo le funzioni di sicurezza interna che sono in relazione con i diritti di proprietà ed individuali e il potere di imporre tasse locali: questi aspetti possono continuare ad essere regolati attraverso le legislazioni statali. Il Congresso dovrebbe invece essere completamente sovrano in materia di guerra e di pace, di commercio, di gestione delle finanze, di politica estera e per quanto riguarda l’allestimento dell’esercito e la nomina dei suoi ufficiali, la loro paga e la loro assegnazione. Il Congresso dovrebbe inoltre avere il potere: di allestire flotte, di ordinare la costruzione di fortificazioni, arsenali, magazzini ecc., di stipulare trattati di pace alle condizioni che ritiene più opportune, di stabilire con quali paesi è opportuno mantenere relazioni commerciali oppure no, di imporre e revocare proroghe sui diritti di importazione ed esportazione, di imporre dazi per favorire le esportazioni e di disporre come meglio crede di queste entrate, di far credito agli Stati nei confronti dei quali questi dazi sono imposti in relazione alle disponibilità di bilancio, di istituire un tribunale militare della marina, di battere moneta ed istituire una banca che possa costituire riserve proprie e agire autonomamente sul mercato internazionale ecc. ecc.
 
[…]
 
Come potete vedere, Signore, questa lettera è scritta un po’ frettolosamente e in modo confidenziale, non come converrebbe rivolgersi ad un membro del Congresso già afflitto dai crescenti clamori, ma come ci si rivolge ad un amico che può porre rimedio al disordine, che non desidera altro che la verità e che accetta di essere informato anche da chi è forse meno in grado di lui stesso di giudicare. Non ho neppure il tempo di correggere e ricopiare questo mio scritto. Posso solo aggiungere che resto sinceramente e affettuosamente Vostro obbedientissimo servitore Alexander Hamilton.
 
(a cura di Franco Spoltore)


[1] «Alexander Hamilton to James Duan», 3 settembre 1780, in Hamilton Writings, New York, The Library of America, 2001, p. 70.
[2] Ibidem, pp. 72-3.
[3] Alexander Hamilton, The Federalist N. 9.
[4] Catherine Drinker Bowen, Miracle at Philadelphia, Boston, Back Bay Books, 1986, p. 281.

 

 

 

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