Anno XXX, 1988, Numero 2, Pagina 134
LUDWIG DEHIO
Nonostante siano trascorsi ormai quarant’anni dal secondo conflitto mondiale, è convincimento ancora assai diffuso che i Tedeschi costituiscano una razza affatto particolare. Del resto è sulla loro terra che furono eretti i campi di sterminio, è lì che il genio satanico di Hitler incarnò il demone della guerra egemonica totale, è sempre lì che la volontà nichilista di potenza ordì il disegno della distruzione del sistema etico dell’Occidente. Tutto ciò non deve essere dimenticato. Andrebbe invece discusso se queste efferatezze siano state la naturale esplicazione di ciò che è stato chiamato la deutschtum.
E’ evidente che si tratta di una sciocchezza e nient’altro. Basti considerare che tedeschi erano Beethoven e Bach, Hoelderlin e Goethe, Kant e Marx, Holbein e Cranach; che, dal tempo della renovatio imperii, nello spazio tedesco è vissuta la più grandiosa esperienza giuridica e politica sovrannazionale che l’Europa abbia conosciuto dopo la caduta dell’impero romano; che, nel novero dei grandi Stati sovrani, la Germania è arrivata buon’ultima insieme all’Italia e che, insieme all’Italia, ha dovuto ispirarsi — nel bene, ma anche nel male — ad altri modelli già realizzati per costruire le istituzioni giuridiche e politiche dello Stato nazionale.
E’ un fatto comunque che, quando si parla della Germania, questi dati vengono messi tra parentesi; così come, quando si parla delle nazioni anglosassoni, le grandi patrie della libertà e della rule of law, si tende a mettere disinvoltamente tra parentesi la coscrizione non proprio volontaria nell’Inghilterra del Settecento, il triangolo degli schiavi, il lavoro minorile nelle miniere, il massacro dei pellirosse, la Chicago degli anni Venti; per non parlare di Dresda e di Hiroshima. E’ evidente che, in questi casi, ci si trova di fronte a vere e proprie rimozioni sul terreno della conoscenza storica. E, in verità, quando Renan sosteneva, e con buone ragioni, che l’idea di nazione (come rappresentazione dell’unità, naturale e non storica, di un gruppo che ha lingua, tradizioni, religione, ecc., in comune) si regge sull’ignoranza storica, si poteva, con altrettanto buone ragioni, replicargli che l’ignoranza storica si regge in larga misura sull’idea di nazione, un’idea che precostituisce il quadro di selezione dei fatti e il criterio della loro interpretazione.[1] Le grossolane falsificazioni di cui sono infarcite tutte le storiografie nazionali ne sono prova lampante.
Va da sé che la strada più diretta attraverso la quale l’umanità potrebbe conoscere le miserie del proprio passato nazionale al fine di poter fare i conti con le stesse coincide con quella indicata da Kant nella sua Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, un punto di vista che vede come soggetto della storia la specie umana, come campo della sua azione il mondo intero, come filo conduttore di vicende altrimenti senza senso la marcia dell’umanità sulla strada della propria autorealizzazione fino alla pace perpetua.
Se questo punto di vista fatica ad affermarsi, ciò dipende non solo dalla ragione, ovvia, che le idee non vincono mai da sole, ma anche dal fatto che il rifiuto della nazione come categoria della conoscenza storica implica il rifiuto della nazione come categoria dell’azione politica. Non si tratta, infatti, di atteggiamenti diversi. Senza pronunziarsi sulla questione, per altro non marginale, dei legami tra ragion teoretica e ragion pratica, è difficile non convenire con Lord Acton quando ricordava che «la storia universale è distinta dalla storia dei vari paesi»[2] e, persino, quando sosteneva al limite del paradosso che lo storico non è che «un politico con lo sguardo rivolto all’indietro»,[3] quasi a dire che la ricerca intorno alle cose del passato non può prescindere dall’atteggiamento che si assume di fronte alle cose del presente. Secondo questo punto di vista, dunque, ogni seria innovazione storiografica nel senso indicato da Kant implica una netta rottura con il comportamento nazionale.[4]
L’analisi storica di Ludwig Dehio ne è una prova.[5] Dehio non è stato un militante federalista. Ma ha saputo rompere con la Germania. Quando nel 1955 scriveva il saggio La politica tedesca al bivio, egli non aveva alcun dubbio sul fatto che tra il valore dell’unità e quello della libertà, che a sua volta implicava una scelta rigorosa e salda a favore della solidarietà europea e occidentale, occorreva schierarsi senza alcuna esitazione per la libertà.[6] Ma questo aspetto del problema tedesco quale si presentò nel secondo dopoguerra non era che un aspetto secondario rispetto alla questione che costituì il centro focale della sua riflessione storico-politica, una riflessione che lo ha condotto a una decisa rottura con la storiografia nazionale. La questione, infatti, che lo ha portato, in età ormai matura e dopo la fine del secondo conflitto mondiale, a occuparsi della grande storia è stata quella della «colpa della Germania». Dehio, che pur non s’è mai trovato compromesso con il nazismo, rifiuta categoricamente di riconoscerla. La tragedia della Germania è certo ascrivibile a tratti peculiari del passato tedesco, a quella società, a quella cultura, ecc. Ma la Germania — come del resto gli altri Stati che parteciparono al sistema europeo degli Stati — non ha mai costituito un quadro esclusivo del processo storico e neppure del processo politico e sociale.
Questo concetto era già stato svolto da Leopold von Ranke che aveva messo in evidenza come fosse il carattere delle relazioni esterne tra gli Stati a determinare gli aspetti fondamentali della loro costituzione interna piuttosto che questi quello. Ne conseguiva che il minore o maggiore accentramento del potere, la più o meno accentuata militarizzazione della società, il carattere autocratico o liberale delle istituzioni politiche e del diritto, e persino le condizioni della lotta di classe erano determinati dalla situazione — più o meno tesa — delle relazioni internazionali. Questo principio, che si richiamava alla teorica della ragion di Stato, cioè al primato che ogni Stato deve riconoscere, pena la scomparsa, al valore della sicurezza, rovesciava il principio aristotelico secondo cui il governo (e quindi anche la sua politica estera) è nient’altro che lo specchio di una società, un principio che è stato sostanzialmente accettato dalle ideologie liberale, democratica e socialista quando hanno imputato, in ultima istanza, gli atteggiamenti aggressivi o pacifici degli Stati nelle relazioni internazionali al carattere dei rispettivi regimi. Se la politica tedesca dunque non segnò soluzione di continuità con quella prussiana e fu autoritaria all’interno e all’esterno aggressiva sino a disporsi a una guerra totale, ciò si deve in primo luogo al fatto che, come la Prussia, il II Reich si trovò a operare, sin dalla nascita, in uno spazio circondato da grandi potenze (la Francia a ovest, l’Impero absburgico a sud e la Russia a est) e fu costretto pertanto da mere ragioni di sopravvivenza a realizzare nel modo più compiuto i principi di Federico Guglielmo I dello «Stato-caserma». Ciò valse, a più forte ragione, per il III Reich. Per converso, il Regno Unito, e per certi aspetti gli USA, poterono esperire il costituzionalismo, la rule of law, il sistema delle autonomie locali, la coscrizione volontaria, in poche parole, conservare un regime liberale, solo perché, isole politiche, potevano limitarsi ad affidare la custodia della propria sicurezza alla flotta e al suo primato sui mari.
La storia della Germania dunque non è altro, per Dehio, che un aspetto della storia del sistema europeo degli Stati. La vita di questo sistema, affermatosi sulle ceneri del sistema italiano degli Stati dopo che l’avanzata turca e la scoperta dell’America avevano dislocato il baricentro politico dal Mediterraneo all’Atlantico, non è regolata dal caso. La prima e fondamentale legge è quella dell’equilibrio e dell’egemonia. «Gli Stati liberi, sovrani e concorrenti del sistema europeo», osserva Dehio, «sono sempre stati concordi in un solo punto: quello di evitare l’unificazione dell’Occidente sotto l’egemonia di uno di loro e di perdere così la propria sovranità. Fosse la Spagna, la Francia, la Germania, vale a dire di volta in volta il più forte Stato del Continente che cercò di conquistare un’egemonia stabile, esso si trovò di fronte potenti coalizioni che in guerre generali annullarono i suoi tentativi. Quale fu la ragione profonda per la quale per quattro secoli, immancabilmente, queste coalizioni riportarono la vittoria? Il segreto sta nel fatto che le grandi coalizioni trovarono un invincibile appoggio nelle potenze marginali all’Europa, a ovest e a est: in primo luogo nelle potenze marittime dell’Occidente e in secondo luogo nelle grandi potenze periferiche dell’Oriente che misero a disposizione nella lotta contro la potenza egemonica le forze crescenti dei territori esterni al sistema europeo; nel primo caso le forze dei territori d’oltremare, nel secondo caso quelle del continente eurasiatico. Questo è il grande segreto della storia moderna degli Stati: che dalla periferia dell’Europa e dal mondo extra-europeo nuove forze potevano continuamente essere buttate sul piatto della bilancia delle grandi coalizioni fino a che il tracollo critico non veniva superato e l’equilibrio oscillante di nuovo ristabilito».[7]
La prima rilevante revisione storiografica che discende da questa osservazione è che la sete egemonica della Germania non fu altra cosa rispetto a quella di Carlo V, di Filippo II, di Luigi XIV o di Napoleone. Il suo carattere demoniaco dipese esclusivamente da due fattori affatto nuovi. Il primo riguardava lo sviluppo delle forze produttive che, con la crescita in estensione del processo sociale, dislocava il processo storico dai sempre più angusti spazi dell’Occidente europeo agli spazi ben più ampi dei mari e delle propaggini euroasiatiche del vecchio Continente, e che metteva a disposizione della potenza tedesca forze ben altrimenti distruttive. Il secondo riguardava la natura titanica della lotta che la crescita delle forze esterne al sistema imponeva a chi volesse intraprendere l’avventura egemonica, un’avventura che, proprio a cagione di quella crescita, non riguardava più soltanto il Continente. Non si tratta di fattori marginali: si tratta invece dei fattori che segnarono il passaggio dal sistema europeo al sistema mondiale degli Stati. Per quanto concerne il primo fattore, Dehio, mettendo a raffronto il carattere saldo dell’ordine istituito a Vienna con quello assai fragile di Versailles, dopo aver notato che è «di gran lunga più facile imporre un trattato di pace nell’epoca delle diligenze postali e anche in quella della ferrovia piuttosto che nell’epoca del motore a scoppio», osservava che «siamo di fronte alla dinamica della moderna civiltà che con le sue forze esplosive lacera le maglie sottili della vecchia rete delle frontiere statali europee».[8] Ma di rilievo ancor maggiore è il secondo fattore, un fattore che certo dipende dal primo ma che ha la sua autonomia. Dehio ce ne descrive il processo di maturazione in termini succinti e precisi. Già s’è detto delle due figure tipiche del sistema europeo degli Stati: da un canto, la spinta all’egemonia che si manifestava sul fronte degli Stati di volta in volta più forti, dall’altro, la controspinta all’equilibrio che si ristabiliva grazie alle coalizioni e, soprattutto, al contributo delle potenze laterali al sistema. Ma questo contributo delle potenze laterali non era senza prezzo. Era, infatti, nella natura delle cose che queste ne approfittassero e si espandessero sempre più potenti nel mondo esterno, senza cioè che lo stesso continente europeo perdesse la sua posizione dominante. La crescita a potenza mondiale del Regno Unito e dietro di esso degli Stati Uniti, e dall’altra parte il significativo sviluppo della Russia furono, in effetti, il prezzo pagato dal Continente per poter preservare la libertà delle proprie sovranità individuali e la libertà del suo sistema d’equilibrio.
Ciò non si manifestò in tutta chiarezza nei primi due secoli di vita del sistema, quando cioè le forze esterne, nutrite dalla discordia europea, apparivano esclusivamente come le garanti del sistema stesso. In quel torno di tempo, la lotta contro l’egemonia costituiva il momento culminante della storia europea. «Dal XVIII secolo», scrive Dehio, «dall’epoca cioè del rafforzamento della Russia, nell’avvallamento che fa intervallo alle due ondate egemoniche, si pose lentamente in luce un secondo momento che poco alla volta cominciò a oscurare il primo. E’ la rivalità tra le potenze laterali fra di loro, di fuori d’Europa, ma anche al suo interno. In particolare, le due potenze laterali tentarono di prevenire l’egemonia di una vecchia potenza continentale europea, per potersi nel frattempo espandere nel mondo. Ma la potenza laterale russa anelava nel contempo ad espandersi anche in Europa; essa apparteneva bensì al sistema politico dell’Occidente, ma era lontana dalla natura dell’Occidente e pezzo per pezzo incorporandone i territori, continuava a rosicchiare il margine orientale del mondo europeo. Sintetizzate in poche parole sono queste le linee fondamentali del gioco europeo che dal XVI secolo resistettero sino al 1945. Queste linee fondamentali sono sufficienti per identificare il momento nel quale il gioco doveva giungere alla fine: il momento in cui, cresciute ormai a tal punto nel mondo la potenza russa e le potenze anglosassoni, le potenze europee, costrette pur sempre nei loro vecchi confini, nonostante lotte accanite, si esaurirono e si ridussero alla dimensione dei nani. Questo momento si avvicinò tanto più rapidamente quanto più velocemente le potenze mondiali si impossessarono delle forze espansive della civiltà moderna, che non trovava più la dimensione necessaria per esprimersi proprio nello spezzettato campo europeo, ove pure era nata. Nel 1945 eravamo a questo punto. Il cambiamento fu repentino anche se preparato da tempo. Il piatto europeo della bilancia, ormai troppo leggero, fece un balzo verso l’alto e quello delle potenze mondiali si sprofondò per converso. Le posizioni relative dei due piatti si invertirono completamente. Gli avvenimenti europei non erano più il centro degli avvenimenti mondiali, al contrario, questi ultimi cominciarono a determinare i primi. Il primo momento fondamentale della storia moderna europea perse la sua forza, poiché una lotta egemonica condotta da una potenza del vecchio continente europeo esce ormai dal nostro orizzonte. Il secondo momento fondamentale, la rivalità degli anglosassoni e dei Russi, è ormai assurto a predominante senza discussione in Europa e nel mondo. Da una parte l’edificio europeo è diventato un mucchio di macerie senza forma, dall’altra si erge quale un rudere più o meno diroccato; ma il tetto comune del vecchio sistema di equilibrio è completamente scomparso».[9]
Per rigore, andrebbe osservato anche che Dehio, come ben risulta dal saggio che qui sotto riproduciamo in extenso, colse correttamente come il carattere, per certi efferati aspetti del tutto nuovo, del secondo tentativo egemonico tedesco, un carattere che corrisponde a quello del tutto nuovo del sistema politico in cui si venne a manifestare, si era già annunziato con la svolta guglielmina (basti pensare alla legge per la flotta del 1900), era già apparso in tutta chiarezza nel corso del primo conflitto mondiale con l’intervento americano del ‘17, ed era stato colto senza ambiguità, nel corso dei negoziati di pace, da Wilson quando formulò il progetto della Società delle Nazioni. E, in verità, se il paradosso non stesse, come purtroppo accade non di rado, dalla parte dei fatti, la soluzione a un conflitto d’estensione mondiale avrebbe dovuto consistere nell’instaurazione di un nuovo ordine anch’esso di estensione mondiale. Le cose non andarono così e, da un canto, il disimpegno americano dalla SdN e, dall’altro, l’incapacità della Russia, impegnata nella rivoluzione, di svolgere la funzione mondiale che le competeva ingenerarono negli Europei la folle illusione che i conti si potessero fare ancora una volta in Europa. E non va dimenticato che questa folle illusione contagiò dapprima la Francia, che — quasi si trattasse soltanto di rovesciare i termini della partita del 1870 — pensava di poter garantire l’ordine di Versailles con misure di carattere esclusivamente militare (prima le pesanti riparazioni di guerra e poi la linea Maginot); contagiò quindi l’Italia, la prima a mettersi sulla strada del cesarismo; e trovò infine in Germania, nella persona di Hitler, il personaggio più idoneo a interpretarla sin nelle sue pieghe più riposte. Non fu dunque la follia di Hitler a condurre la Germania alla follia, né la follia della Germania a condurre l’Europa alla sua autodistruzione. L’ordine di questa concatenazione causale va semplicemente rovesciato. Fu la follia dell’ordine europeo — che riproponeva vecchie situazioni e vecchi schemi per comprenderle e padroneggiarle in un mondo divenuto affatto nuovo — che condusse la Germania alla follia, una follia i cui caratteri demoniaci sono spietatamente denunziati nel saggio che qui riproduciamo. E la Germania non fece altro che collocare l’uomo giusto al posto giusto.
Il riferimento alle vecchie situazioni e ai vecchi schemi vale certamente anche per la Germania, anche se qui si manifestò una tragica combinazione di consapevolezza del nuovo (la dimensione mondiale del sistema politico) e di risposte viete (il meccanico riferimento a questa situazione del modello rankiano dell’equilibrio e dell’egemonia). Questa combinazione si ritrova con contorni assai netti nella storiografia tedesca che, nei primi due decenni del Novecento, finì per offrire al potere forti elementi ideologici giustificativi della politica guglielmina prima e di quella hitleriana poi. Proprio in quella utilizzazione analogica dello schema rankiano sta la radice di un errore fatale. Configurato il ruolo del Regno Unito nel sistema mondiale come un ruolo egemonico e quindi in quanto tale non diverso da quello svolto dalla Francia napoleonica nel sistema europeo, il problema della libertà degli Stati all’interno del sistema mondiale implicava semplicemente la lotta per istituire l’equilibrio a quel livello. Questa lotta fu pensata come la missione della Germania e in questa luce la storiografia rilesse il senso dell’esperienza di Federico il Grande al tempo della guerra dei Sette Anni. Otto Hintze scriveva al riguardo: «Si tratta di vedere se riusciremo ora a imporci come una delle potenze mondiali, come si trattava allora di diventare una potenza europea». Era speranza condivisa che chi avesse preso la guida di questa lotta avrebbe avuto la solidarietà di tutti i paesi oppressi nelle più disparate parti del globo. L’espressione più precisa di questa allucinazione la si ritrova ancora negli scritti di Hintze che giunse a dire: «Noi speriamo che prima o dopo anche altri popoli che ora sono sotto il giogo della supremazia inglese sul mare, si decideranno a scuotersi di dosso questo giogo. All’equilibrio della terraferma, bisogna aggiungere l’equilibrio sul mare». E ancora: «Gli effetti dell’armamento navale tedesco si riscontreranno dapprima ai margini del Pacifico. Il Giappone sta sviluppando la sua potenza e fra poco sentiremo la parola d’ordine ‘l’Asia agli asiatici’ . La rivolta dell’Islam va nella stessa direzione. II sogno di dominio mondiale della razza bianca sta per finire». Questi giudizi in ordine alla missione della Germania, erano in larga parte comuni a personaggi come Hans Delbrueck, Max Lenz, Hermann Olncken, Erich Marcks, e persino l’Ammiraglio Von Tirpitz e Friedrich Meinecke.
E’ evidente che ciò che rendeva inefficace l’analogia con il sistema europeo degli Stati e fuorviante l’utilizzazione del modello rankiano era la sottovalutazione del ruolo determinante che le potenze laterali hanno avuto nel ristabilire l’equilibrio nell’ambito del sistema europeo. La prova dei fatti non si fece attendere. Il II Reich, per sfidare la potenza insulare, fu costretto ancora una volta a cercare l’unità del Continente, una unità che era indispensabile per dislocare la globalità delle forze dal fronte terrestre a quello marittimo. Ne conseguì che i primi atti di questa missione liberatrice furono l’apertura delle ostilità con la Francia e l’invasione del Belgio! Ma né questi fatti, che riproponevano con crudezza un copione tragicamente noto nella storia del sistema europeo degli Stati, né il persistente isolamento nel corso del conflitto, né infine la sconfitta militare valsero a imporre una profonda revisione dei termini fondamentali del problema tedesco nel quadro del problema europeo e, ormai, mondiale. Anzi, questa concezione della missione della Germania sopravvisse a Versailles proprio perché la storiografia tedesca si rifiutò di identificare le ragioni profonde della sconfitta preferendo, con la teoria degli errori riparabili o non ripetibili, persistere nella sua funzione di legittimazione del nazionalismo tedesco e delle sue aspirazioni egemoniche e imperialistiche.[10] Va per altro osservato che, se per un verso, questi tragici errori della storiografia tedesca costituirono il terreno di cultura in cui poterono prendere corpo «incredibili sentenze» come quelle di Max Weber e di Otto Hintze che sono riportate nel saggio qui riprodotto, per altro verso, la Germania seppe esprimere, insieme a Wilson, la coscienza della nuova dimensione mondiale del sistema politico e della dimensione conseguentemente mondiale che occorreva offrire ai nuovi problemi. La risposta tedesca si rivelò illusoria e quella di Wilson inadeguata. Ma è un fatto che i federalisti, da Luigi Einaudi a Lord Lothian a Lionel Robbins, quando, soli, nel periodo tra le due guerre mondiali, indicarono nella Federazione europea il solo obiettivo capace di pacificare l’Europa, istituire un equilibrio articolato e aprire la strada alla fondazione del governo mondiale, si riferirono proprio a quelle due posizioni. Il resto, in effetti, non erano che chiacchiere, tragiche chiacchiere di uomini del passato.
La Germania è dunque il nodo della tragedia europea. Ha sbagliato ed è stata annientata. Ma sorte non diversa è occorsa agli altri Stati europei, anche a quelli che «pur essendo usciti dalla guerra vincitori, sono parimenti dei vinti».[11] E «il vinto», osserva con perspicacia Dehio, «lascia troppo facilmente tutte le responsabilità al vincitore».[12] E ancora: «Troppo facilmente si tende verso un nichilismo arrogante e indolente, verso la combinazione di un orgoglio arrogante e di uno scetticismo lamentoso, verso il tentativo di rimanere da parte anche quando si tratta del proprio destino».[13] E infine, con parole che si riveleranno amaramente presaghe: «…la politica estera assume persino una fisionomia parassitaria nei confronti della potenza protettrice americana e si serve della copertura che la politica americana concede per sottrarsi alla stessa e servire un proprio particolarismo puramente egocentrico, nella vana speranza che questi vacillanti particolarismi possano aritmeticamente sommarsi inserendo una terza forza tra i giganti del mondo».[14]
«Il denominatore comune di tutti questi fenomeni scomposti», conclude Dehio, «è il concetto di agonia del sistema europeo degli Stati. Non è che un cumulo di rovine, ma il suo spirito continua a vivere… Così le macerie di questo ponte crollato emergono nel mezzo del fiume intralciando la navigazione senza riuscire a fare un guado utile per passare da una riva all’altra».[15]
Le conclusioni cui perviene Dehio sono precise. La prima concerne l’Europa, che deve creare senza indugi una unità politica che corrisponda a quella culturale,frutto dell’impronta comune dell’eredità classica e cristiana. Solo così potrà definitivamente liberarsi «dello spirito di un sistema di Stati in agonia che coi veleni cadaverici di strutture passate minaccia la creazione di nuove strutture».[16] La seconda concerne la storiografia: «Quando all’inizio abbiamo scritto che alla storia politica competeva nella vecchia Europa un compito imprescindibile, volevamo dire appunto questo: la storia non deve più additare la continuità, come un tempo, ma deve additare la rottura, e abbattere quello che deve cadere».[17] La terza concerne il mondo. Quando quest’ultima riflessione fu fatta ci si trovava nella fase più acuta della guerra fredda, la fase che caratterizzò la nascita del nuovo sistema — bipolare — mondiale degli Stati. Dehio ammoniva che occorreva guardarsi bene «dal dedurre, dai risultati della passata lotta tra due principî (quello dell’egemonia e quello dell’equilibrio), quale sarà l’esito di una possibile lotta futura» e soprattutto «dal prolungare semplicemente nel futuro quelle linee che nel momento risaltano». Ciò sta a dire che il compito dello storico termina qui per lasciare il campo alla speranza, alla fede e, possibilmente, all’impegno politico: «Sarebbe temerario il predire per quali vie dirette e indirette la tendenza all’unificazione del globo, che ogni giorno si fa più piccolo, potrebbe raggiungere la sua meta; soltanto è certo che non vi rinunzierà, dovesse pure avvenire questa cosa miracolosa: che l’umanità dappertutto nello stesso momento sperimentasse un cambiamento del modo di pensare e abbandonasse il cammino della civilizzazione e della lotta per il potere, sul quale essa, sferzata dallo scatenato demone della volontà di vivere, avanza furiosamente nonostante l’orrore da cui nel far ciò viene agitata».[18]
***
LA GERMANIA E L’EPOCA DELLE GUERRE MONDIALI *
La Germania, dopo anni di passività politica, ritorna ora in una posizione di più genuina responsabilità.[19] Più che mai oggi essa ha bisogno di una visione chiara di quell’epoca che precedette il suo distacco da ogni responsabilità, l’epoca delle due guerre mondiali. Se la discussione deve essere condotta davanti a questo foro, l’esposizione resterà nella brevità dell’aforisma; io fisserò perciò solo alcuni punti che nel loro insieme potranno disegnare un quadro approssimativo.
Mi si permetta di introdurre un concetto guida che mi sembra atto a fungere da punto centrale della nostra discussione odierna e fors’anche di ogni discussione su questo stesso tema se, andando più in là dell’accusa o della difesa di quanto è accaduto, si vuole costruire un quadro storico che sia coerente in sé stesso. Mi riferisco al concetto di lotta per l’egemonia. Le due guerre mondiali, infatti, si collegano vicendevolmente come due atti di uno stesso dramma, che portati alla loro espressione più avanzata, rivelano entrambi i ben noti segni caratteristici dei grandi conflitti cui sono associati i nomi di Carlo V e Filippo II, di Luigi XIV e di Napoleone I.
Fondare questa tesi su un’analisi comparativa degli avvenimenti esteriori, accaduti nel vasto ambito della politica europea generale, significherebbe superare i limiti di tempo che ci siamo posti. Basti qui trarre partito dalla loro conoscenza per considerare in particolare quello che è successo in Germania nel nostro tempo, tenendone presenti soprattutto gli sviluppi interni. A questo fine è necessario subito mettere in giusta luce un secondo concetto guida che si lega immediatamente e senza difficoltà al primo: la natura demoniaca del potere. Non è a caso che questo concetto è stato impresso in modo così tangibile nella nostra coscienza proprio durante l’ultima guerra mondiale, l’ultima guerra egemonica europea.
Proprio nel dare a questi concetti guida un’importanza dominante, io mi stacco già un poco da coloro che non ne accettano il significato, e in particolar modo da quanti considerano la storia tedesca della nostra epoca in una visione isolata, come se, obbedendo al determinismo secondo cui cresce un albero, anch’essa nascesse da radici puramente ed esclusivamente tedesche, e tralasciando perciò le implicazioni che questi fatti hanno col mondo circostante.
Mi distacco però non meno da coloro che, volgendo lo sguardo ad orizzonti più vasti, pongono l’accento soprattutto sulle analogie che ebbero modo di riscontrare altrove e per la stessa epoca. Entrambi questi modi di vedere contengono una parte di verità, tuttavia necessitano di un completamento. In particolare, la prima interpretazione che considera la Germania isolata, e che del resto è la più accreditata all’estero, tende troppo ad accentuare il carattere particolare tedesco, mentre la seconda, all’opposto, corre il rischio di ignorarlo del tutto. E tuttavia chi in Germania vorrà con noi fissare l’attenzione sulla natura della potenza egemonica del nostro tempo, potrà sperare di sfuggire ad entrambi i pericoli. Da una parte egli vedrà la Germania che nella sua funzione di potenza egemonica si distacca in modo singolare dalla famiglia dei popoli, ma dall’altra scoprirà ch’essa non possiede ab aeterno questa personalità distinta. Una considerazione ulteriore deve indurci ad essere prudenti nel giudizio: dobbiamo volgere lo sguardo indietro e considerare la storia di quelle potenze che hanno esercitato un ruolo egemonico. Questo punto di vista ci rende coscienti del fatto che molti dei tratti dominanti della Germania moderna, i quali sembrano essere peculiari del XX secolo, in realtà s’erano già manifestati presso quelle potenze nel corso dei secoli precedenti. Per contro, questo sguardo comparativo al passato pone in evidenza altresì che le due guerre egemoniche tedesche acquistano un loro significato particolare quando siano inserite nella catena delle guerre per l’egemonia in Europa, e che infine l’esame comparativo delle manifestazioni egemoniche, siano esse del passato o del presente, conduce a una visione più chiara e obiettiva.
Per quanto riguarda infine il principio della natura demoniaca del potere, che trascina la sua vittima nella spirale di una sempre più accentuata affermazione di sé e in un’amorale brama di combattimento, esso si mostra nella sua forma più comprensibile e più spinta, nelle contese più violente che la terra abbia mai vissuto, le guerre egemoniche. E dal momento che all’acme di queste guerre la potenza dominante del Continente, quella egemonica, è divenuta essa la solitaria figura del protagonista, ben si comprende che abbia subito una singolare tentazione demoniaca.
Questo basti come considerazione introduttiva. Passiamo ora ad esaminare con pochi tratti come la Germania sia entrata a far parte della cerchia ristretta delle potenze egemoniche.
L’elemento fondamentale di tutti i conflitti per l’egemonia europea (si tratta qui solo di essi) è da riscontrarsi nelle guerre che la potenza di volta in volta più forte del Continente (escluse le sue propaggini più orientali) ha condotto contro la maggior potenza marittima. Non si riscontrano conflitti di questo genere nella storia tedesco-prussiana prima dell’edificazione delle flotte. Essa mostra semmai i caratteri più distintivi del tipo puro di potere continentale: un’ascesa strepitosa che forse non trova l’eguale nel suo tempo per vigore e veemenza giovanile. L’espansione della Prussia verso occidente ringiovanì fino nel profondo la nazione stagnante che dalla zona periferica dell’Oriente, povera di storia e di cultura, trasse una veemenza incontenibile che si trasfuse in vitalità nuova, sul terreno biologico, culturale ed economico, ma, soprattutto, politico. Qui si plasmano la guida ardita, l’organizzazione sistematica e l’umanità disciplinata, ossia la trinità che doveva forgiare in modo indelebile il pensiero della nuova Germania. Il prussiano Stato di potenza, che quanto a forza di suggestione non la cedeva certamente di fronte al vecchio Occidente, divenne il simbolo educativo di quel trionfo della volontà che, partito da origine oscura e modesta, attraverso una successione impressionante di tappe vittoriose, l’aveva fatto entrare nel cerchio delle grandi potenze.
Con l’inizio del nostro secolo questa evoluzione esce dall’ambito ristretto delle vicende continentali e con guizzo repentino si affaccia al vasto campo delle decisioni di importanza europea e mondiale, quelle decisioni che, nonostante l’imponenza delle lotte sul Continente, vengono prese più sul mare che sulla terraferma. A questo punto ci chiediamo non già da quale occasione sia nata la guerra mondiale, ma come essa sia stata resa possibile. Come guerra mondiale, rispondiamo, non è dubbio ch’essa sia stata causata dalla spinta espansionistica della Germania rinnovata (la potenza russa allora non avrebbe ancora potuto tanto): il fatto poi che essa divenne una classica guerra per l’egemonia dell’Europa è senz’altro da imputarsi alla reazione dell’Inghilterra.
Come un tempo la Prussia era penetrata nel sistema dell’equilibrio europeo, così noi tedeschi abbiamo tentato di uscire dallo stretto ambito europeo e di inserirci nel nuovo sistema dell’equilibrio mondiale. Il metodo è sempre lo stesso, il genuino metodo prussiano dell’organizzazione sistematica, questa volta però applicato all’armamento navale.
Tutto ciò peraltro non sarebbe stato possibile senza urtare le esigenze tradizionali del sistema europeo e nello stesso tempo dell’Inghilterra, vale a dire senza privare questa del suo ruolo di garante dell’equilibrio europeo e detentrice della potenza egemonica sui mari. Quale fu la conseguenza inevitabile delle nostre aspirazioni? Imboccammo una strada senza uscita che portava alla guerra mondiale: noi e soltanto noi minacciammo il centro del sistema nervoso della potenza inglese. Questo fu il tratto singolare del nostro già tipico imperialismo, anche se all’esterno, nei territori coloniali, la forza espansiva di altri imperialismi tenne vive ragioni di frizione ben più acute di quanto, noi non facessimo.
Noi avevamo posato il nostro sguardo incerto sul mondo intero, non badando a conseguire singoli successi, ma con l’aspirazione di cambiare radicalmente lo status quo a spese del nostro rivale, il quale, frattanto, cercava di mantenere le proprie posizioni difendendo quel sistema dell’equilibrio europeo che a noi sembrava cosa ormai antiquata grazie alla posizione semi-egemonica che il Reich di Bismarck si era conquistata sul Continente. Con la sua politica di accerchiamento l’Inghilterra ci spinse gradualmente verso la posizione isolata di un potenziale aspirante all’egemonia europea, nel pieno senso della parola, benché il nostro imperialismo, senza toccare la supremazia inglese sui mari, aspirasse ancora soltanto a fare della Germania una potenza mondiale accanto alle altre. Entrambi i rivali, in nome del concetto di equilibrio, contrastarono così la reciproca posizione egemonica, ma ognuno di essi per egemonia ed equilibrio intendeva qualcosa di completamente diverso dall’altro.
Già prima del 1914 e sotto la spinta dell’accerchiamento, incominciammo a dubitare della ragionevolezza dei calcoli ottimistici da noi stessi fatti intorno all’inizio del secolo. Avevamo pensato che l’Inghilterra, tenuta in scacco dal nostro armamento navale, avrebbe rinunciato pacificamente alla sua posizione chiave. Decisivo rimase però il fatto che, nella nostra giovanile esuberanza, non riuscimmo a trarre da quella situazione le sue logiche conseguenze.
Nel 1913 Plehn poteva scrivere: «E’ coscienza generale di tutta la nazione che la libertà di partecipare alla politica mondiale noi la potremo raggiungere unicamente attraverso una grande guerra europea».[20]
Così si arrivò alla grande guerra europea, che doveva diventare una guerra mondiale. Solo allora il minaccioso capovolgimento della nostra situazione divenne terrificante realtà, solo allora diventammo una potenza egemonica europea. Per la più potente compagine del Continente il superamento del vecchio equilibrio era logicamente legato alla conquista dell’egemonia in Europa, nonostante noi cercassimo di nascondere a noi stessi e agli altri questa naturale indicazione. Soltanto allora, sotto la spinta della nuova situazione, presero forma alcuni tratti completamente nuovi del nostro essere, la cui semplice retrodatazione non è possibile, anche se essi presupponevano tutta la nostra storia anteriore, allo stesso modo che il nuovo piano di una costruzione presuppone l’esistenza di quelli sottostanti.
La comprensione del corso degli avvenimenti ci sarà facilitata se per un momento facciamo astrazione da essi e consideriamo il tipico destino delle potenze egemoniche che ci hanno preceduto. Ognuna di queste ha recitato una parte solitaria di tragica grandezza. Le spaventose vicende delle guerre europee sono tutte illuminate dai bagliori delle loro aspirazioni di dominio, coscienti o incoscienti che queste fossero. Tanto più queste aspirazioni di potenza assurgono alle manifestazioni più estreme, tanto più pronta, sotto la guida delle potenze esterne insulari, è la reazione delle grandi coalizioni di tutti gli Stati che si sentono minacciati. Nello stadio finale è sempre la potenza egemonica che da sola combatte contro una molteplicità di avversari. Ma essa non teme i propri avversari proprio perché allo zenit del suo destino è accecata dalla sensazione di avere una mossa di vantaggio nel confronto di tutti i vicini. Preoccupazioni e pericoli ormai non la possono più fermare, anzi stimolano ancor di più l’autocoscienza di non dover perdere la grande occasione ormai sopraggiunta. E’ abbacinata dal premio che avranno tutti i suoi sforzi: un nuovo passo verso la realizzazione di sé e l’imposizione del proprio potere, che sovrasta la turba dei nemici, i quali combattono soltanto per mantenere posizioni già acquisite. Ma non appena la potenza egemonica nella sua ascesa entra in conflitto con la potenza insulare e cozza contro la barriera delle grandi coalizioni, il solido terreno delle sue esperienze continentali le crolla sotto i piedi e travolge la sua ragion di Stato. A questo primo elemento che caratterizza il potere, se ne aggiunge un secondo e più specifico, la cecità nell’uso del potere. L’operare congiunto di entrambe porta al potere demoniaco che ritroviamo in ogni potenza egemonica. Non che la violenza della contesa non susciti anche presso le altre potenze decisi elementi demoniaci a seconda delle loro tradizioni e situazioni particolari, ma vi si manifestano piuttosto come reazioni e in ogni caso, perché giunga al culmine la demonicità del potere, mancano in quelle potenze i due momenti che caratterizzano la potenza egemonica. Questo è chiaro in modo particolare per la potenza insulare, la cui ragion di Stato trova nelle guerre egemoniche il fondamento più stabile, e la cui forza soltanto col prolungarsi di queste guerre cresce fino alla completa potenza sotto il controllo della tradizionale saggezza. Al di là del Canale il suo avversario porta invece sempre in sé i caratteri di un apprendista inesperto, che non fa tesoro delle esperienze dei suoi predecessori, né le comunica ai suoi successori. Nonostante la preparazione militare pianificata egli sciupa, in improvvisazioni senza respiro, la sua potenza gigantesca che non si appoggia alla saggezza di un piano politico stabile.
Egli aspira bensì a dare alla sua opera un significato duraturo con una vittoria globale e definitiva, ma appena questa sfuma vede l’incompiuta opera propria crollare in un mucchio di rovine. Questa vicenda si ripete con sempre più limpida chiarezza all’andare dei secoli, sia pure con sfumature differenti. La potenza egemonica, all’inizio del conflitto, vive il culmine della propria storia e cristallizza trionfante nei successi iniziali il proprio essere, in modo impareggiabile e grandioso. Ma l’ascesa euforica diventa eccesso demoniaco, a mano a mano che la lotta spossante continua. I tempi si stringono. I detentori del potere, come giocatori d’azzardo che non hanno più un’idea chiara del gioco che stanno facendo, buttano sul tappeto ormai anche i fondamentali valori morali e materiali. Fino all’ultimo momento essi sventolano le speranze che servono ormai soltanto a nascondere a sé stessi il definitivo insuccesso.
Questo schema tipico, che ogni nazione egemonica ha colorito con i suoi tratti particolari, caratterizza anche lo sviluppo della Germania nella prima guerra mondiale. La differenza sta soltanto nel fatto che per la nazione del Centroeuropa, minacciosa e minacciata da tutte le parti, fondamentalmente impreparata, posta nel mezzo di un continente sull’orlo del declino e della sommersione, tutto questo si svolge in modo più violento, più precipitoso e più distruttivo che mai, sotto la spinta dell’atmosfera esplosiva di una civiltà galoppante. Non nel corso di decenni, ma nel giro di qualche anno, vengono toccate le altezze più eccelse e le profondità più oscure. Abbiamo visto il nostro essere distinguersi dagli altri in una ascesa fortunosa nel 1914, tra l’odio e la calunnia di «un mondo di nemici»; ma l’improvviso isolamento spirituale che seguì all’isolamento politico, già portava il germe dell’eccesso che seguì. Questo isolamento, uscito dalla mente di pochi, e del quale si impadronisce la passione accumulata dei più, fa vacillare l’equilibrio spirituale della nazione che, circondata dall’odio, risponde con altro odio. Nella solitudine disperata di una lotta infelice e gloriosa l’apparato statale e la società si logorano, le tradizioni si sfigurano, vengono a galla e si diffondono le idee più estremiste e megalomani, che in tempi tranquilli avrebbero forse continuato la loro esistenza marginale.
E’ appassionante osservare come i più consapevoli tra di noi cercarono di rompere questo circolo vizioso, facendo appello all’oracolo della ragion di Stato che aveva governato la nostra politica interna, ma le sue oscure risposte non fecero che accrescere la confusione generale. La guerra dei Sette Anni non era stata una guerra egemonica e la strategia di spossare l’avversario in terraferma perse ogni valore non appena la stessa strategia, applicata da nemico sul mare, prese il sopravvento. Nonostante la loro nobile moderazione anche i portavoce di una pace negoziata non riuscirono a strappare un ultimo velo dai loro occhi, anche essi non seppero valutare adeguatamente il nemico, che godeva di una posizione insulare; e intanto sputavano delle incredibili sentenze. Ecco le parole di Max Weber: «Ci odino pure, fintantoché hanno paura di noi», oppure la minaccia di Otto Hintze: «Nel peggiore dei casi ci lasceremo sotterrare dalle macerie della cultura europea».
Abbiamo riascoltato simili sentenze in quello che sarebbe stato il nostro futuro, tuttavia in complesso possiamo ben dire che la natura demoniaca del nostro potere egemonico ha raggiunto nella prima guerra mondiale soltanto il suo primo stadio. Essa non arriva a distruggere la compagine della società e del costume del nostro Stato e della sua tradizione, che in ogni caso già vacillava sotto la spinta della civilizzazione tecnica, ma la scuote soltanto. Queste forze demoniache rimasero lealiste e non furono rivoluzionarie, esse risvegliano il ricordo delle lotte dei monarchi francesi e spagnoli piuttosto che quello della Rivoluzione francese e di Napoleone.
Il quadro muta radicalmente nei primi anni di pace: la natura demoniaca delle aspirazioni egemoniche tedesche raggiunge il suo secondo stadio. Come mai si è potuto verificare l’insospettabile? Perché, al contrario, la catastrofe del 1918 non ha prodotto effetti moderatori? Per darsi ragione di questi interrogativi bisogna insieme esaminarie quello che successe della Germania e nella Germania.
Dopo la fine delle precedenti guerre egemoniche numerose generazioni avevano goduto la calma. Ma in che modo i vincitori del 1919 avrebbero potuto instaurare una pace duratura con la vecchia formula, vale a dire con severità unita al perdono, come si era riusciti a fare ancora nel 1815? Proprio la base dei precedenti trattati di pace era stata seriamente compromessa: il sistema europeo degli Stati. Da una parte una Russia ingigantita e perciò diventata più che mai un grande pericolo per l’Occidente, dall’altra un’America, trascinata per la prima volta nel conflitto, quando ormai l’Europa aveva dimostrato di non saper più padroneggiare da sola la minaccia egemonica nata nel suo seno. Come costruire qualcosa di duraturo in una situazione mondiale così torbida? Forse era possibile cominciare a costruire qualcosa a occidente, ma non senza il contributo della potenza dell’Occidente che aveva deciso la guerra, l’America, e non senza l’apporto di una nuova idea creatrice. Fu Wilson a portarci quest’idea. Non il rinnovamento del sistema europeo con le sue guerre egemoniche, non la costruzione di un sistema mondiale con i suoi relativi pericoli, ma addirittura il superamento di ogni politica estera nel vecchio senso della parola, vale a dire il superamento della molteplicità delle sovranità bellicose e al loro posto la pacifica unione in un grande Commonwelth esteso al mondo intero sotto la leadership degli anglosassoni. Quale fantastica trasformazione si stava annunciando! O tutto questo non era destinato invece a restare nel regno della fantasia? Fino allora l’elemento insulare, rappresentato dall’Inghilterra, aveva avversato ogni nuovo venuto che si affacciasse dal Continente, ed ora proprio l’America, un nuovo venuto essa stessa, rappresentava questa attitudine insulare, sia pure con ideali che agli uomini di Stato europei contemporanei sembravano per lo meno semplicistici e alle masse addirittura vangelo, e che per i Tedeschi in particolare significavano la liberazione dal giogo attraverso la pacifica demolizione del vecchio sistema oppressivo. In poche parole, la soluzione del problema tedesco attraverso un miracolo. Ma il miracolo restò un sogno e per questo fu tanto più pericoloso per il nostro già scosso equilibrio spirituale.
Alla catastrofe della guerra seguì quella della pace. La vecchia Europa si risollevò contro il nuovo venuto, l’America, e sotto la spinta della necessità il suo sistema ormai desueto venne rinnovato. La soglia sulla quale ci si trovava non fu varcata in avanti, ma indietro. Qui è la spiegazione più profonda del disastro che ne sarebbe seguito. Nello stretto ambito del vecchio sistema indebolito, il problema tedesco non si poteva risolvere né con la severità, né con la tolleranza. Dove mai si potevano reperire sul nostro continente quelle potenze che in altri casi, nei grandi trattati di pace, avevano fatto da naturale contrappeso alla potenza egemonica vinta? Soltanto durissime condizioni imposte al vinto, che in questo rinnegavano tutta la tradizione precedente, potevano farne le veci e incatenare artificiosamente la Germania. La situazione politica e psicologica si mutò in un baleno. Il fronte dei vincitori occidentali si spezzò. L’opinione pubblica mondiale voltò le spalle, vergognandosi di quelle dure condizioni che poco prima avevano rivendicato a gran voce, e condannò la Francia, ormai isolata, che, mediante l’esecuzione coatta e violenta del trattato, cercava invano di sostituire la garanzia fornita dagli anglosassoni sentendosi tradita dal ritiro dell’America. La Francia temeva la revanche tedesca con la stessa istintività con la quale Bismarck aveva temuto quella francese dopo il 1871. Come si poteva sperare che questo trattato di pace, messo insieme in modo contraddittorio da proposizioni generali di stampo idealistico e da paragrafi realistici, potesse aver un effetto diverso da quello di suscitare la reazione della Germania, nel caso che questa avesse ancora una certa volontà di difendersi? Il trattato non era né tollerante verso il vinto, quanto a possibilità che gli lasciava o gli apriva, né era garantito da un fronte unitario dei vincitori. La ricaduta del vincitore nel superato sistema europeo doveva come minimo portare con sé il pericolo di una ricaduta del vinto nell’altrettanto superato spirito della lotta per l’egemonia.
Che poi questa ricaduta dovesse veramente verificarsi, dipendeva dal gioco generale che le influenze della politica mondiale avrebbero provocato sulla vita interna della nostra nazione. Se nella nostra fantasia ricostruiamo lo stato di umiliazione nel quale la sconfitta ricacciò le antiche potenze egemoniche, vediamo che esse rimasero per un periodo prolungato in uno stato di relativa tranquillità. Ciò avveniva in parte per la spossatezza provocata da decenni di lotta, e in parte perché esse ne approfittavano per sviluppare le possibilità di esistenza che, nonostante tutto, erano loro rimaste. Perdurava sempre l’accecamento proprio della natura demoniaca dell’egemonia, che nutre i risentimenti pretenziosi e i sogni revanchisti, ma per quanto sopravvissute a una sconfitta del genere, quelle società mancavano ormai della forza necessaria per rinnovare seriamente l’ascesa verso l’egemonia, e nulla del resto le spingeva imperiosamente a fare salti nel buio.
Ben altro accade in Germania dopo il 1918. Entrambi gli elementi dell’egemonia demoniaca, sia la cecità che il senso di potenza, mantengono inalterato il loro potere. E’ significativo che proprio qui i risentimenti e i sogni revanchisti trovino il terreno più fertile, aggiunti poi a due ulteriori stimoli di peso notevole: il bisogno e il conseguente progressivo dissolvimento del tradizionale ordine sociale.
La cecità si mostra nel nostro atteggiamento contro ogni riconoscimento dei veri motivi della nostra sconfitta, esattamente come successe in Francia dopo il 1815. Nonostante le nebulose critiche di dettaglio, né durante la guerra, né durante il periodo di accerchiamento che la precedette, né, quanto meno, negli anni del dopoguerra, si impose mai una spiegazione critica delle nostre limitate possibilità di esercitare un’azione politica di forza.
Noi non volevamo strapparci le bende dagli occhi, non volevamo insudiciare il ricordo del culmine eroico della nostra storia recente, non volevamo toglierci le speranze di una ricostruzione. Si incominciò, a dire che la nostra catastrofe era stata prodotta da fatti del tutto anormali. Ne avevano colpa le seduzioni e gli inganni del nemico, gli errori e i tradimenti interni. Gli illuminanti paralleli con le precedenti guerre egemoniche, la funzione della potenza marittima, la potenza interiore degli Stati insulari, rimasero temi estranei alla pubblica opinione, ora come un tempo, e incompreso rimase anche l’intervento dell’America. Nessuna meraviglia! Erano gli stessi Americani a far credere di essere intervenuti soltanto per questioni di propaganda e di interesse. Pochi furono coloro che compresero che era stata la pura e semplice ragione di Stato americana a spingere sotto sotto l’intervento, ossia che in ultima analisi, era stato il loro interesse ad evitare che l’unione dell’Europa sotto una potenza egemonica potesse significare un’eventuale minaccia per gli spazi esterni d’oltremare. In modo del tutto paradossale, ne scaturì un rafforzamento e non una diminuzione della nostra autocoscienza, una nostra accresciuta fiducia nella nazione, che invece di sparire, meraviglia nostra e del mondo, si era conservata. Che cosa sarebbe potuto succedere sotto la spinta di una guida decisa ad andare fino in fondo? Noi riflettevamo sulla nostra sconfitta, non per cercare di scoprirne una spiegazione, ma per farla sembrare ai nostri occhi come una sconfitta ingiusta, come una conseguenza di errori evitabili, e non di una concezione generale portata all’eccesso.
Intanto gli anni del dopoguerra mostrarono che, dopotutto, la nostra forza come popolo era ancora capace di mettere nell’ombra tutte le altre nazioni della vecchia Europa. Anche uno sguardo retrospettivo ai secoli precedenti, portava a riconoscere che la Francia all’inizio del XIX secolo e la Spagna all’inizio del XVII disponevano di una forza ben più infiacchita della nostra all’inizio del XX secolo. Ne deducevamo di aver ancora delle chances malgrado l’abisso nel quale eravamo caduti, il che peraltro non basterebbe ancora a segnare il punto di partenza della nostra nuova impresa egemonica se non entrasse in conto il potente stimolo del nostro stato di bisogno.
Sulle prime la tensione del nostro spirito battagliero portò nelle masse un inevitabile senso di stanchezza. Ma attraverso piccoli gruppi che venivano fuori dalla diaspora politica che prosperava nel sottobosco dell’illegalità, riprendeva a farsi strada la volontà di infiltrarsi nel terreno avversario e di contrattaccare. Questa volontà trovò appoggio nel nostro popolo di soldati al solo ricordo dell’eroica tragedia della guerra, esattamente come nel 1815 trovò appoggio tra i Francesi, anch’essi, in quel tempo, un popolo di soldati. Qui come là, l’eroismo tradito degli sradicati e dei «proscritti» si trasformò in odio crescente non solo contro i nemici esterni, ma anche contro quelli interni. Si dice che la Francia dopo il 1815 si sia divisa in due nazioni distinte, quella dei vincitori e quella dei vinti di Waterloo che agitavano due diverse bandiere. Lo stesso si può dire per la Germania dopo il 1919. Solo che da noi, stando al ritmo proprio della nostra storia, l’attivismo nazionale prese le sembianze della restaurazione e non della rivoluzione. Non che per questo si disdegnassero i metodi rivoluzionari, come del resto nessun altro metodo; l’idealismo si unì al delitto, e la volontà nichilista di potenza preparò la strada senza ritegno alla distruzione del sistema etico dell’Occidente.
Dapprima, alle estreme conseguenze di questa evoluzione, si spinsero soltanto piccole bande di truppe d’assalto, solo più tardi si vide fino a che punto anche piccoli gruppi di fanatici potevano avere influenza nella caotica labilità dell’opinione delle masse. Il pendolo della pubblica opinione cominciò a scivolare paurosamente all’indietro. La repubblica tedesca era nata, ben diversamente dalla terza repubblica francese e dalla giovane repubblica russa, dal momentaneo rilassamento delle vecchie energie e non dal sorgere di nuove, e, di fronte ai nemici, non in atteggiamento difensivo, ma anzi in arrendevole abbandono. In questo può venire paragonata alla restaurazione borbonica del 1815. Anche alla repubblica tedesca mancava l’alone in voga della mitologia nazionale, e per di più essa non si poteva richiamare a un grande passato come invece avevano potuto i Borboni. Inoltre, mentre questi avevano contato sulla moderazione usata nei loro confronti dai vincitori, la repubblica tedesca, schiacciata sotto il peso crudele del trattato di Versailles, rivelò di colpo il vizio che aveva caratterizzato la sua nascita. Ben presto, ai due momenti accennati, se ne aggiunse un terzo, forse di tutti il più pericoloso: la disgregazione sociale, provocata dallo stato di bisogno nelle sue molteplici manifestazioni. Al rilassamento nazionale seguì il declassamento sociale. Della concorrenza coi comunisti approfittarono i nazionalisti, influenzando la grande massa dei disperati e facendo presa sul generale stato di disagio, conseguenza del crollo che l’intero ordine costituito dell’Occidente aveva subito nel 1919. Il nazionalismo fuse insieme la suggestiva tradizione di potenza prussiana (ed ora tedesca), sradicata dalla sua origine sociologica, con uno scomposto spirito rivoluzionario di violenza. Ne venne fuori la nuova dinamica del fascismo. In questa dinamica si inserì la lava infuocata delle passioni popolari, che al di là delle frontiere traeva origine dall’irredentismo razzista, che mai avrebbe potuto svilupparsi sotto la guida autoritaria dello Stato prussiano.
Vien da chiedersi se il toglier di mezzo la classe degli junker e l’industria pesante non avrebbe servito a ostacolare il corso tragico degli eventi. Così sembrano spesso pensare molti critici del tempo passato. Ma a maggior ragione, quel modo di procedere avrebbe gonfiato l’ondata dei declassati e aggravato l’instabilità economica. Chi possiede qualcosa agisce come elemento di quiete, mentre chi non ha nulla ha sempre da guadagnare e nulla da perdere. Da lungo tempo lo spirito nazionalista non era più un privilegio delle classi possidenti. Il nazionalismo può infiammare di sé una società disorganizzata più facilmente che una società solida, anzi forse esso fa presa sugli strati medi e inferiori della società proprio quando ormai sta per abbandonare gli strati superiori. Già con l’abbandono della monarchia era andato perduto un elemento moderatore degli estremismi. L’ascesa in Italia del nuovo cesarismo che, barcamenandosi tra rivoluzione e restaurazione, sembrava riempire con un nuovo spirito di autorità il vuoto che era andato formandosi, fu per noi come una frustata sulla schiena. Tuttavia l’ora non era ancora suonata, e i nostri attivisti dovevano consolarsi constatando che, con l’andar del tempo, di fronte a loro si aprivano possibilità di espansione incomparabilmente maggiori di quelle offerte al resto delle nazioni. Nell’animo di ognuno, e in particolar modo dei vecchi soldati, prendeva corpo l’aspirazione di riscattare una sconfitta, che per noi era stata più amara che per chiunque altro.
Era chiaro che la revanche non fosse più da cercare sui mari. Peraltro la catastrofe, proprio sul continente e vicino a noi, aveva aperto delle prospettive allettanti: la generale balcanizzazione, l’isolamento della Francia e soprattutto la bolscevizzazione della Russia, terra dell’enigma e del destino. Quest’ultima poteva servire alla rinascita della Germania: in funzione di amica, come pensava qualcuno (Seeckt), o in funzione di nemica, come altri credeva (Ludendorff).
Questo programma di rinascita, appoggiato pressoché da tutti i partiti, aveva i seguenti punti fondamentali: restaurazione delle frontiere con l’Est e Anschluss con l’Austria. Il fine ultimo non era la restaurazione pura e semplice, ma l’espansione verso il continente (Grossdeutschland) , visto che l’espansione verso l’oceano era fallita (Kleindeutschland), e ancora, il completamento dell’unità nazionale secondo i sogni del 1813 e del 1848, quando la nazione bambina era ancora sulla soglia del suo terribile destino. Dunque, un poderoso piano di conquista in risposta alla minaccia mortale, la volontà di elevarsi ad un ordine di grandezza irraggiungibile da ogni altro Stato europeo e men che meno dalla Francia grigiamente senile. In altre parole, la conquista di quella sicura base continentale, che, secondo un’interpretazione critica del tempo, Guglielmo II avrebbe voluto assicurarsi prima di spiccare il salto verso la grande politica mondiale.
Ma per quale via realizzare questo programma? Con l’aiuto dell’Oriente contro l’Occidente? Con l’aiuto dell’Inghilterra contro la Francia? Oppure oscillando tra Oriente e Occidente? La completa distruzione dell’ordine instaurato nel 1919 era in ogni caso un’assoluta necessità.
Nelle strettoie del moribondo sistema era lecito sperare al più di ostacolare di tanto in tanto l’ascesa del più grande e più vitale popolo d’Europa, non certo però di rappacificarlo durevolmente.
Eppure l’Europa conobbe ancora il raggio di sole di Locarno! Ma più che di una visione chiara e di una forza interiore dell’Europa, Locarno fu opera del rinnovato interesse dell’America per l’Europa. Questo andare e venire dell’America divenne la causa fondamentale delle alte e basse maree che caratterizzano il succedersi degli avvenimenti in Europa. Quel felice intervallo di tempo parve segnare l’antitesi agli anni dopo il 1919, quando l’America aveva abbandonato l’Europa a sé stessa. Dopo mezzo decennio di disordine politico, sembravano affacciarsi promettenti prospettive di ordine, tanto più fondate nella prospettiva di un ritorno degli Stati Uniti volto al terreno economico più che a quello politico. Il successo di Stresemann va riportato alle solide basi auree dei prestiti americani. Gli effetti furono però limitati. I demoni indietreggiarono soltanto di un passo, al liberatore della Renania non si disse neppure grazie. Questi del resto si guardò bene dal fare una chiara scelta per l’Occidente, che avrebbe ostacolato non poco la realizzazione del programma irredentista, ed agì piuttosto nel senso di approfittare al massimo della libertà di gioco tra Oriente e Occidente. Tutti i magnifici piani di un’unione europea rimasero nella regione dei sogni. Le nazioni europee, nell’ambito del vecchio sistema restaurato nel 1919, sono portate alla violenza e al sospetto reciproco. La loro solidarietà riaffiora solo quando vi è da opporsi alle aspirazioni egemoniche di un membro della loro famiglia.
Questa occasione si sarebbe ripresentata presto. Per i Francesi fu la terrificante verifica delle loro profezie, per gli anglosassoni invece, una generale sorpresa. Già ai tempi di Locarno un acuto osservatore della politica mondiale, quale T.E. Lawrence, aveva pronosticato che, dopo la Spagna, la Francia e la Germania, forse la Russia avrebbe tentato a sua volta la via della dominazione continentale. Non aveva potuto prevedere che, anticipando ancora sulla Russia in qualità di potenza egemonica mondiale, la Germania avrebbe posseduto ancora tanta forza e tanta volontà da presentarsi al centro della scena politica mondiale. La Germania subì una grande metamorfosi che, in modo del tutto particolare, fu il risultato di un nuovo cambiamento della politica americana. Al culmine della grande crisi economica mondiale, l’America si ritirò per la seconda volta al di là dell’oceano, lasciando nel mondo occidentale un disordine ben più profondo di quello lasciato la prima volta. Di qui partì l’impaziente spinta revanchista della Germania.
Al centro della confusione generale essa vide via libera davanti a sé, come se un terremoto avesse distrutto ogni barriera. La prima guerra egemonica della Germania era maturata in un periodo di crescente benessere e prosperità, la seconda nacque dal bisogno e dall’angoscia. Al confronto una scaramuccia confusa era stata la prima, la seconda diventò un contrattacco ben diretto che aveva origini profonde. La grande speculazione al ribasso che puntava sulla disgregazione del mondo borghese dell’Occidente, che rappresentava la risorsa segreta delle truppe d’assalto sia comuniste che fasciste, si mostrò ora in tutta la sua chiarezza, nella politica internazionale non meno che in quella nazionale. Sul terreno della politica internazionale, le piccole e grandi potenze del vecchio sistema europeo in decadenza che controllavano la Germania, rimasero mute e incoscienti, spaesate e ignare. La pacifica Francia rimase paralizzata di fronte al pericolo reale che la sua fantasia aveva da tempo prefigurato e che la sua politica precedente aveva cercato di procrastinare. La fatale esperienza della Ruhr e l’atteggiamento tenuto dagli Inglesi la immobilizzavano. Per evitare il peggio avrebbe dunque dovuto usare la forza di cui disponeva, quella che le aveva conferito l’ormai abbastanza criticato trattato di Versailles. Interventi di questo genere hanno effetti imprevedibili sui sentimenti nazionali già turbati. Si sarebbe forse giunti a una situazione meno preoccupante se fosse stata accettata la proposta di Churchill di mantenere il disarmo unilaterale della Germania? Porsi la domanda, vuol già dire dubitare di una risposta affermativa. Nella politica nazionale, comunque, la speculazione al ribasso raggiunse completamente il proprio scopo. Già dieci anni prima i sintomi premonitori del disordine sociale avevano servito a rafforzare l’attivismo nazionalista, ora erano milioni di persone di ogni ceto che correvano a inquadrarsi nel rispettivo esercito. Non appena la sicurezza internazionale e i legami col mondo democratico vennero a mancare, sembrò che la salvezza potesse giungere soltanto lungo i sentieri già percorsi un tempo verso l’ascesa nazionale: autorità all’interno, forza verso l’esterno. La magica trasformazione dell’angoscia in sicurezza, della dissonanza sociale nell’armonia sociale, si compì nel segno di queste mitiche parole. Che poi questo ritorno al passato dovesse assumere le forme del cesarismo anziché quelle del legittimismo, era nell’aria.
Già da tempo il cesarismo fuori della Germania s’era dimostrato un modo di governo capace in periodi di crisi di organizzare una terza forza di concentrazione nazionale, tenuta tra l’agguato del comunismo da una parte e la confusione della borghesia dall’altra. Un punto è da mettere ben in chiaro: come prima del 1914 la forma dell’imperialismo adottata dalla Germania aveva assunto un nuovo carattere particolare nella lotta per l’egemonia, anche la nuova forma del cesarismo doveva trasformarsi per logica consequenzialità. Il dittatore tedesco, cioè il capo carismatico già sognato segretamente dagli imperialisti, fu una figura di grandezza incomparabilmente maggiore di tutti gli altri dittatori della vecchia Europa (Russia esclusa). I mezzi impiegati da Hitler, anche se già forgiati in qualche altra parte dell’Occidente, toccarono con lui i livelli più impressionanti dell’orrore. La demonicità del potere egemonico conquistò le posizioni di comando a tutti i livelli, ma la conquista del potere non agì da freno, come invece si aspettavano molti di coloro che avevano contribuito al suo successo. Al contrario, anzi, il successo spinse l’elemento demoniaco del potere verso le vette più impensate, trascinando seco l’intera nazione in una marcia febbrile per un sentiero di sangue. In Hitler si concentra e da Hitler si diparte la demonicità del potere, egli è l’incarnazione del demone della guerra egemonica totale; anzi, nella misura in cui è possibile giudicarlo, egli è la premessa dell’ultima vampata dello spirito egemonico europeo. Non è possibile immaginarsi come la Germania avrebbe ancora potuto innalzarsi ad altezze così vertiginose, senza la guida di un tale genio satanico. Egli si sentì portato in alto dall’oscuro vortice della crisi e dalle forze incontenibili della civiltà che minacciavano di far saltare il piccolo mondo degli Stati, troppo vecchio e soffocante. Per di più trovò un rivale, il bolscevismo, che con le sue aspirazioni mondiali non faceva altro che soffiare sul fuoco. Come un giacobino, fidando completamente sul suo potere totalitario, all’interno, poté credere che nulla gli fosse irraggiungibile all’esterno. Come un sonnambulo egli si arrampicò tra gli abissi lungo sentieri che nessun altro avrebbe scoperto, facendosi schermo del contrasto tra Oriente e Occidente in attesa di poter ergersi fra loro quale terza forza, salvo riunirli poi contro di sé appena divenne pericoloso a entrambi. Sprofondò così nello stesso baratro che aveva inghiottito prima l’imperatore dei Francesi e poi il Kaiser dei Tedeschi.
Si rividero le scene delle guerre egemoniche precedenti, questa volta a un livello più elevato. Ancora una volta trionfi di terraferma nel vecchio Continente, ancora una volta sconfitte di fronte alle riserve morali e materiali delle potenze insulari, eternamente sottovalutate. Per di più questa volta le potenze insulari buttarono sulla bilancia il forte peso delle armi russe, senza badare alle differenze di carattere ideologico in una lotta disperata per l’esistenza. La natura demoniaca delle lotte per l’egemonia europea fece la sua ultima vittima. La catastrofe della Germania fu caratterizzata fino all’ultimo istante da una totale e terribile volontà di potenza. Nel presentimento della fine, il demone nichilista buttò tutti nell’abisso, quanti più poté, prima di cadervi lui stesso allo stremo delle forze.
Fin qui il nostro sguardo panoramico, affannoso e veloce come una corsa. Esso non ci può tuttavia bastare. Per por fine al corso dei nostri pensieri dobbiamo esporre una considerazione finale, già preannunciata nelle nostre parole introduttive.
Abbiamo visto la Germania che, spinta in alto dalla sua vitalità, raggiunge un livello estremo mai toccato in precedenza da altri, né nell’epoca dell’imperialismo, né in quella posteriore del cesarismo, ed entrambe le volte l’abbiamo vista subire il destino fatale della potenza egemonica. Abbiamo anche osservato come il suo ruolo, così singolare nelle manifestazioni del presente, assumesse caratteri particolari anche nel vasto ambito degli eventi trascorsi. Ci rimane ora da tratteggiare il significato che i due atti dell’avventura egemonica tedesca assumono nella lunga catena delle guerre per l’egemonia europea. La risposta si riassume in una frase: il tentativo egemonico della Germania è stato l’ultimo anello della catena. A noi sembra che un fenomeno di questo genere non potrà più ripetersi sul suolo della vecchia Europa. Per chi accetta questa conclusione, il significato di questa guerra mondiale nel vasto quadro della storia europea recente diventa sempre più chiaro e logicamente conseguente. E’ impossibile considerare questa guerra come una semplice variante di quelle precedenti, malgrado quel tanto di vero che anche questa teoria può serbare. Le guerre egemoniche furono il catalizzatore che spinse verso una nuova costellazione di dimensione mondiale e questa è il dato nuovo odierno che pur si venne preparando a passo a passo dal secolo XVIII in poi. Solo dopo il 1945 la rivalità tradizionale russo-anglosassone poteva diventare realtà nella sua forma definitiva di lotta per l’egemonia mondiale, dopo insomma che l’ultima guerra per l’egemonia europea era stata decisa. Prima di allora il pericolo di un’egemonia europea aveva avuto sempre il diritto di precedenza. Le potenze mondiali, arroccate nei loro giganteschi spazi continentali, si videro costrette a lasciare in seconda linea le loro divergenze fino a che esistesse la minaccia di un’Europa integrata sotto la spinta di una potenza egemonica, riunendo le loro forze per ridurre alla ragione la Germania da una parte e, per altri motivi, il Giappone dall’altra. Ma appena questo gioco riuscì, finì anche la storia moderna d’Europa nella sua ultima manifestazione e il vecchio Continente cessò di essere il perno centrale degli avvenimenti mondiali. La via era aperta per una nuova era, l’era della storia mondiale.
Il significato della lotta tedesca per l’egemonia può tuttavia essere colto da un’altra prospettiva. Quella lotta spinse al massimo grado la violenza distruttiva sia nel campo dei valori morali, sia in quello dei valori materiali. La violenza si riversò contro la stessa potenza egemonica che la impiegava, e questa volta non solo nel momento finale della lotta come era sempre successo. Essa divenne in ultima analisi una specie di nemico sotterraneo. Forte della tecnica raffinata della nostra civiltà, essa annientò instancabilmente vite e opere umane. La tecnica perfezionò gli strumenti del terrore e della propaganda, il veleno corrosivo dei più profondi valori dell’uomo occidentale. La forza del vecchio Continente rimase infiacchita in tal modo da finire definitivamente messa in ombra dalle grandi potenze mondiali. Il sistema europeo si spezzò in due, proprio come la potenza egemonica che gli si era scagliata contro. Il crollo liberò la parte occidentale dell’Europa dal pericolo egemonico, ma gettò la parte orientale nelle mani del totalitarismo. Anche questo è da ascriversi tra i risultati delle aspirazioni di potenza dei Tedeschi, a prescindere dalle circostanze particolari che influirono poi sul corso degli eventi. In questo modo anche l’unico risultato della prima guerra mondiale andò distrutto. Nel 1918, infatti, Max Weber cercava di consolarsi della sconfitta subita, asserendo che dopotutto la Germania poteva ancora vantarsi di aver salvato l’Europa dal flagello russo. Il 1939 ci tolse anche questa consolazione. Da ultimo, la seconda guerra mondiale accelerò il processo di disgregazione della dominazione occidentale sui popoli di colore, fatto questo che avrà imprevedibili conseguenze.
Ma passiamo oltre. Le precedenti guerre egemoniche, oltre a un aspetto terribile, ne ebbero anche uno fecondo. Esse furono condotte in periodi di civiltà in progresso. Le potenze egemoniche erano state sempre portatrici di valori spirituali, fosse la crociata della controriforma, o l’esempio vivente dell’ordine aristocratico, oppure la fiamma delle aspirazioni rivoluzionarie. Anche quando suscitavano queste reazioni, sprigionavano nuove energie spirituali. Quale traccia di aspetti positivi si potrà mai trovare nella lotta scatenata dai Tedeschi in modo particolare nella sua ultima fase? Nessuna missione positiva presso altri popoli era contenuta nel crescere demoniaco del nostro spirito di potenza, nella nostra disperata protesta contro il corso di eventi mondiali che non riuscivamo neppure a capire. L’ideologia del cesarismo nazionalista non era merce d’esportazione. Essa incominciò a perdere ogni forza di attrazione non appena divenne chiaro che in suo nome si minacciava la libertà di altre nazioni, che essa si serviva sempre più spesso dei metodi cari al bolscevismo, e infine quando si capì nel 1939 che essa cercava di trovare con questo una via di accordo. Questo fu il suicidio.
Ma allora ci vien fatto di chiedere: avevamo noi forse nella prima guerra mondiale un’idea capace di suscitare delle energie vitali? L’espansione della potenza prussiana aveva portato al risultato che la sfera del potere e la sfera della cultura nella giovane nazione tedesca si staccassero in modo ben più netto di quanto accadeva presso altri popoli di ben più ricca tradizione. Non ci sono argomenti che possano provare il contrario. Già gli imperialisti si erano trovati nell’imbarazzo di giustificare sul piano della cultura l’espansione della potenza tedesca. Essi cercarono un appiglio nelle opere dei grandi che nel periodo di fioritura della nostra vita culturale avevano esaltato la potenza dell’individuo. A sentir loro la nostra missione sarebbe consistita nella difesa della multiforme vita individuale dei singoli popoli contro l’uniformità piatta della società anglosassone e del burocraticismo russo, ma anche questa rivendicazione incominciò a non convincere più quando, nella prima guerra mondiale, ci incamminammo risolutamente sulla strada di una conquista di stampo napoleonico. Vi era una contraddizione interna insormontabile nel cercare di giustificare un’espansione egemonica in Europa. In passato la Germania aveva espresso due idee forza: la riforma e il marxismo, ma esse rimasero sempre estranee alla politica tedesca.
Riassumendo, queste ultime due guerre non furono soltanto di gran lunga più violente e distruttive delle precedenti, ma apparvero prive di quell’aspetto positivo che in un certo modo nel passato aveva compensato le disgrazie che le guerre apportavano. Questo è il quadro cui oggi siamo di fronte. Qual è dunque il giudizio che possiamo dare per il futuro? Queste guerre potranno forse trovare la loro contropartita in un rinascimento della cultura occidentale e nella creazione di un nuovo ordine politico per tutto il mondo occidentale. Ci chiediamo se anche il nostro popolo parteciperà allo sforzo creativo di reazione alle forze della distruzione. Molti Tedeschi nutriranno delle speranze in questo senso. Comunque, anche se le speranze degli altri dovessero andare in una direzione diversa, il presupposto indispensabile di ogni reazione creativa della Germania al periodo delle due guerre mondiali è il riconoscere incondizionatamente il ruolo terribile che essa ha svolto nel corso degli eventi come potenza egemonica di questo decadente continente europeo: l’ultima ma anche la più demoniaca.
(a cura di Luigi V. Majocchi)
[1] «L’oubli, et je dirai même l’erreur historique, sont un facteur essentiel de la création d’une nation, et c’est ainsi que le progrès des études historiques est souvent pour la nationalité un danger». Cfr. Ernest Renan, «Qu’est-ce-qu’une nation?», in Discours et conférences, Calmann Levy, Paris, 1887, p. 284.
[2] Cfr. Lord Acton, Cambridge Modern History: its Origin, Authorship and Production, Cambridge, 1907, p. 14.
[3] Cfr. Lord Acton, «Inaugural Lecture on the Study of History», in Essays on Freedom and Power, New York, 1960, p. 25.
[4] Cfr. Mario Albertini, «Per un uso controllato della terminologia nazionale e supernazionale», in Il Federalista, III (1961), pp. 1-18; e «Il mito della Nazione», in Il Federalista, I (1959), pp. 21-38.
[5] Ludwig Dehio è nato a Koenigsberg nel 1888. Nel periodo tra le due guerre mondiali ha lavorato negli archivi di Stato prussiani a Berlino e Charlottemburg. Dopo il 1945 ha diretto l’archivio di Stato di Marburg, e l’annessa scuola archivistica, è stato professore onorario di Storia medioevale e moderna nell’Università di Marburg e direttore della Historische Zeitschrift, la più autorevole rivista storica tedesca. E’ morto a Marburg, nel 1963. La sua opera di maggiore impegno è Gleichgewicht oder Hegemonie, Scherpe Verlag, Krefeld 1948 (trad. it., con prefazione di Sergio Pistone, Equilibrio o egemonia, Bologna, Il Mulino, 1988). Sui temi fondamentali di questa opera Dehio è ritornato anche in una serie di saggi pubblicati tra il 1950 e il 1955 e raccolti nel volume Deutschland und die Weltpolitik im 20. Jahrhundert, Monaco, Verlag R. Oldenbourg, 1955 (trad. it. La Germania e la politica mondiale del XX secolo, Milano, Comunità, 1962. Il giudizio federalista su questo volume è stato formulato da Alessandro Cavalli nella sua recensione apparsa in Il Federalista, III (1961), pp. 175-177. Tra i saggi di questo volume si trova anche «L’agonia del sistema europeo degli Stati», che questa rivista ha riprodotto integralmente, nella sua edizione italiana (cfr. III (1961), pp. 152-163). Questa rivista ha anche pubblicato in versione integrale, nella sua edizione francese, il saggio «La continuité de l’histoire germano-prussienne de 1640 à 1945» (cfr. IVème année, pp. 162-179); e la recensione al volume di Hans Kohn Wege und Irrwege (cfr. Vème année, pp. 72-74). Essa si è già occupata diffusamente del contributo di Ludwig Dehio con il saggio di Sergio Pistone, «Les classiques du fédéralisme: Ludwig Dehio», (cfr. VIème année, pp. 171-205). Sergio Pistone è senz’altro colui che ha studiato più a fondo Dehio. Si veda in proposito la sua monografia, Ludwig Dehio, Napoli, Guida, 1977.
[6] Cfr. «La politica tedesca al bivio», in La Germania, cit., passim.
[7] Cfr. «L’agonia del sistema europeo degli Stati», in La Germania, cit., pp. 111-112.
[8] Cfr. «Versailles 35 anni dopo», in La Germania, cit., pp. 98-99.
[9] Cfr. «L’agonia del sistema europeo degli Stati», cit., pp. 113-114.
[10] Questi giudizi sulle responsabilità della storiografia tedesca sono formulati in termini crudi e perentori da Dehio in due saggi «Ranke e l’imperialismo tedesco» e «Considerazioni sulla missione della Germania: 1900-1918», in La Germania, cit. pp. 33-96.
[11] Cfr. «L’agonia del sistema europeo degli Stati», cit., p. 124.
[12] Cfr. Ibidem, p. 124.
[13] Cfr. Ibidem, p. 124.
[14] Cfr. Ibidem, p. 125.
[15] Cfr. Ibidem, p. 125.
[16] Cfr. Ibidem, p. 126.
[17] Cfr. Ibidem, p. 126.
[18] Cfr. Equilibrio o egemonia, cit., p. 242.
* Questo saggio è il primo del volume La Germania e la politica mondiale nel XX secolo, cit. Lo si trova, nella traduzione di Alessandro Cavalli, alle pagine 9-32.
[19] Il saggio che segue sviluppa, in una versione un po’ più elaborata, i temi di un rapporto presentato alla XXI Assemblea degli storici tedeschi nel settembre del 1951.
[20] Tratto da Deutsche Weltpolitik und kein Krieg, p. 1.