Anno XXIX, 1987, Numero 2, Pagina 168
IL FEDERALISMO AFRICANO
Alcuni intellettuali africani avevano percepito e posto fin dagli anni Trenta il problema della «balcanizzazione» dell’Africa. Grazie a ciò la realizzazione dell’unità africana ha costituito uno dei principali obiettivi del movimento nazionale e indipendentista africano. L’aspirazione unitaria era quasi universalmente diffusa fra i combattenti per l’indipendenza, senza tuttavia che essi riflettessero approfonditamente sulla forma e su tutte le implicazioni dell’unità africana. Soltanto Nkrumah, Nyerere e Cheik Anta Diop adottarono la formula di uno «Stato federale africano», ma l’unità da essi indicata non era che un auspicio, a cui non avevano dato come fondamento che qualche argomentazione d’ordine storico e culturale.
Lo stesso movimento politico panafricano, creato più tardi da Nkrumah, con base nel Ghana, frattanto divenuto indipendente, non fu infatti che un adattamento africano del movimento del «rinascimento negro», creato dai negri d’America all’inizio del secolo, nel corso della loro lotta, in America, per l’emancipazione razziale. La filiazione negro-americana del panafricanismo è provata dal fatto che i testi più importanti e i leaders principali, con la sola eccezione di Nkrumah, sono tutti dei negri americani (Edward Blyden, Marcus Garvey, Georges Padmore, Ras Makonnen, Harold Moody, Duse Mohamed, ecc.); e non è un caso che i principali leaders di questo movimento in Africa fossero intellettuali africani anglofoni vissuti negli Stati Uniti o a Londra e che coloro che svilupparono a Parigi il movimento culturale della négritude fossero intellettuali in contatto diretto con il colonialismo francese.
Fu così che i nazionalisti africani combatterono la loro battaglia per l’indipendenza dell’Africa in una grande oscurità ideologica. L’idea politica dell’unità africana non ha mai avuto nessun riferimento organizzativo: non c’è mai stata, invero, un’organizzazione che si desse come obiettivo principale quello di sostenere in modo autonomo la creazione e la difesa di istituzioni federali africane. I timidi tentativi di Nkrumah, Jomo Kenyatta, Wallace Johnson, Peters Abrahams, Obafémi Awolowo — culminati nell’organizzazione del V Congresso panafricano a Manchester, il 15 ottobre 1945 — non sfociarono nella costituzione di una solida organizzazione panafricana. In pratica, questo Congresso era l’ultima manifestazione politica dell’embrione di organizzazione costituito da Pan Africa Federation del 1944. Anche il viaggio di Nkrumah a Parigi, nel 1947, per stabilire contatti con gli intellettuali africani francofoni che si richiamavano alla négritude (Léopold Senghor, Lamine Griéye, Apithy, ecc.) non diede alcun risultato.
In conclusione, i nazionalisti negoziarono l’emancipazione dei territori coloniali in condizioni di totale assenza di un programma africano, che solo un’organizzazione politica federalista africana avrebbe potuto definire e difendere. Le loro rivendicazioni erano dunque confinate nei limiti territoriali che il sistema coloniale aveva loro imposto (gli Stati attuali). Così, quando i governi europei che perseguivano politiche colonialiste decisero di smembrare i loro imperi in Africa, nessuna voce si levò nei movimenti nazionalisti africani per opporsi a questa politica. Al contrario, i fatti provano che l’élite è stata complice di questa frammentazione territoriale, che essa si è completamente adattata a una situazione dalla quale sperava di trarre vantaggio. Ovunque nel continente furono issate bandiere, risuonarono inni, vennero redatte in tutta fretta costituzioni e fu celebrata l’Africa «indipendente».
Si potrebbe sostenere che questo atteggiamento indipendentista dei nazionalisti africani fosse giustificato come reazione estrema alla politica delle potenze coloniali d’allora, volta a formare delle federazioni con le loro colonie. L’idea dell’«Eurafrica» per la maggioranza dei dirigenti africani rappresentava un ulteriore tentativo delle potenze europee di contenere l’ondata del nazionalismo africano e il desiderio d’indipendenza. L’opposizione fra coloro che sono stati chiamati «repubblicani» e «federalisti» non era in realtà che l’espressione di questa contraddizione in seno al movimento nazionalista. Lo scacco del progetto «Eurafrica» in quanto entità politica, dunque, è essenzialmente imputabile ai governi di allora ancora sottoposti al dominio coloniale. E l’analisi delle differenti disposizioni costituzionali rivela che dietro le progettate strutture para-federali si nascondeva di fatto uno Stato accentrato. In tutta obiettività, c’era l’impossibilità storica di risolvere il problema coloniale attraverso il federalismo, perché è assolutamente evidente che il colonialismo, così come si è manifestato nella storia, è incompatibile con il principio di libertà, la cui affermazione e garanzia sono assicurate dal federalismo.
Il fallimento del progetto di federazione fra Senegal, Sudan, Alto Volta e Dahomey, elaborato nel 1958 da Senghor, la disgregazione della federazione del Mali, il fallimento degli sforzi dispiegati da Nkrumah per convocare la Conferenza panafricana di Accra nel 1958 e per avvicinarsi a Sékou Touré, sono imputabili alla mancanza di una autonoma iniziativa federalista durante tutto il periodo che ha preceduto l’indipendenza africana. Solo l’unione di Tanganika e Zanzibar (l’attuale Tanzania) è riuscita, grazie all’azione di Julius Nyerere. In verità nessuna unificazione politica era possibile senza che previamente venisse costituita una solida organizzazione federalista africana, che ponesse con la più grande chiarezza il problema dell’unità in tutti i suoi aspetti e che agisse senza la minima esitazione per la realizzazione di questi obiettivi: ma questo quadro organizzativo è mancato all’Africa in un momento decisivo della sua storia.
L’esigenza dell’unità africana non è quindi mai stata colta nelle sue implicazioni dai nazionalisti. L’unità da essi auspicata a parole non è uscita dallo stadio di un ideale che essi non hanno saputo tradurre in pratica. Accecati com’erano dal vento del nazionalismo, non l’hanno percepita come una necessità. I più pensavano che questi problemi avrebbero dovuto essere discussi «quando la nazione avrà conseguito la sua indipendenza».
Allorché si presentò un’occasione storica, la Conferenza di Addis Abeba del 1963, i capi di Stato ivi riuniti adottarono un documento che stabili i principi politici e le regole giuridiche della nuova unità africana. Dopo una lunga discussione, nel corso della quale emersero idee nettamente contrapposte, furono proclamati, come base della nuova unità, il principio del «rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale dello Stato», nonché quello dell’«intangibilità delle frontiere africane ereditate dal colonialismo». Questi principi andavano interpretati, secondo la maggioranza dei capi di Stato, nel senso del mantenimento dello status quo territoriale ereditato dal colonialismo: nacque cosi l’OUA come organizzazione per la cooperazione interstatale, consacrando definitivamente il fallimento del panafricanismo. La divisione dell’Africa in una pluralità di sovranità statali venne sancita per la seconda volta nella storia, ma con la non piccola differenza che questa volta l’iniziativa storica non proveniva dall’esterno ma dagli Africani stessi.
Per questo, se la costituzione dell’OUA segna una tappa importante nella storia dell’Africa, essa però significa anche l’affermazione in questo continente del modello dello Stato nazionale accentrato dell’Europa del XIX secolo. Il conseguente nazionalismo che imperversa in Africa da più di un quarto di secolo mette all’ordine del giorno con particolare urgenza il problema del federalismo e apre una nuova fase nella battaglia federalista africana.
Per queste ragioni pubblichiamo in questa rubrica alcune pagine tratte dagli scritti dei «padri fondatori» della nuova Africa, nella speranza di dimostrare che indipendenza e federalismo hanno una stretta relazione e che bisogna riprendere su nuove basi la battaglia interrotta. L’Africa si unirà soltanto se emergerà un soggetto politico in grado di lottare per questo obiettivo.
Invitiamo tutti coloro che vogliono lavorare per la Federazione africana a unirsi (scrivendo alla redazione de Il Federalista) al gruppo di giovani africani impegnati nella fondazione del Movimento federalista africano.
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Abbiamo visto, nel caso degli Stati Uniti, come gli elementi dinamici all’interno della società compresero la necessità dell’unità e combatterono una dura guerra civile per mantenere l’unione politica che era minacciata dalle forze reazionarie. Abbiamo anche visto, nel caso dell’Unione Sovietica, come la creazione dell’unità continentale, insieme al mantenimento delle sovranità nazionali degli Stati federali, abbia raggiunto un dinamismo che ha elevato una delle società più arretrate al livello delle più potenti unità, in un breve spazio di tempo. Dagli esempi contemplati, in Europa e negli Stati Uniti d’America, è perciò evidente che in Africa abbiamo le risorse, attuali e potenziali, per creare quel tipo di società che siamo ansiosi di costruire. Si calcola che, alla fine di questo secolo, la popolazione dell’Africa eccederà probabilmente i cinquecento milioni.
Il nostro continente è al secondo posto nel mondo per quanto riguarda la superficie. Le ricchezze naturali dell’Africa si pensa siano maggiori di quelle di qualsiasi altro continente del mondo. Per trarre il massimo dai nostri mezzi, attuali e potenziali, per giungere all’abbondanza e a un sano ordine sociale, dobbiamo unificare i nostri sforzi, le nostre risorse, le nostre capacità e i nostri intenti.
L’Europa, al contrario, deve rappresentare una lezione per tutti noi. Troppo avvinghiata ai suoi nazionalismi esclusivi, è decaduta, dopo secoli di guerre intercalate a intervalli di difficile pace, ad uno stato di confusione semplicemente perché non è riuscita a costruire una solida associazione politica e una base di reciproca comprensione. Solamente ora, spinta dalla necessità delle scelte economiche e dalla minaccia di una nuova riabilitazione industriale e militare della Germania, l’Europa sta tentando, senza successo, di trovare un modus operandi per contenere la minaccia. Si spera, invano, che la Comunità europea realizzi questo miracolo. Ci sono volute due guerre mondiali e il crollo degli imperi per imparare la lezione, solo parzialmente digerita per ora, che la forza sta nell’unità.
Mentre noi in Africa, che consideriamo l’obiettivo dell’unità come supremo, stiamo lottando per concentrare i nostri sforzi in questa direzione, i neocolonialisti stanno facendo sforzi spasmodici per sconvolgerli, incoraggiando la formazione di comunità fondate sulla lingua dei precedenti colonizzatori. Non possiamo permetterci di essere così disorganizzati e divisi. Il fatto che io parli inglese non mi rende cittadino inglese. Similmente, il fatto che alcuni di noi parlino francese o portoghese non li rende cittadini francesi o portoghesi. Noi siamo africani e basta; e come africani il nostro più alto interesse può essere servito solo unendoci in una comunità africana. Né il Commonwealth, né una Comunità franco-africana possono rappresentare un sostituto.
Per noi, l’Africa, con le sue isole, è semplicemente l’Africa come un tutto unico. Respingiamo l’idea di qualsiasi suddivisione. Da Tangeri o Il Cairo nel nord, a Città del Capo nel sud, da Capo Guardafui a est, alle isole di Capo Verde nell’ovest, l’Africa è una e indivisibile.
So che quando si parla di unione politica, i critici sono lesti nel considerarla come un tentativo di imporre una leadership e di abrogare delle sovranità. Ma noi abbiamo potuto vedere, dai molti esempi di unione illustrati, che l’uguaglianza degli Stati viene gelosamente salvaguardata in ogni costituzione e la sovranità conservata. Vi sono differenze fra i poteri assegnati al governo centrale e quelli conservati dagli Stati, così come vi sono differenze nelle funzioni dell’esecutivo, del legislativo e del giudiziario. Ciascuno di essi ha un commercio e una politica economica comuni. Ciascuno di essi è laico, affinché la religione non possa intromettersi fra i molti problemi connessi al mantenimento dell’unità e sia assicuralo il massimo sviluppo possibile.
Noi, che in Africa stiamo lottando per l’unità, siamo profondamente consapevoli della validità dei nostri propositi. Ci occorre la forza complessiva delle nostre popolazioni e delle nostre risorse per metterci al riparo dal pericolo reale del ritorno del colonialismo sotto forme differenti. Ci occorre questa forza per combattere gli interessi nascosti che dividono il nostro continente e mantengono soggiogati milioni dei nostri fratelli. Ci occorre questa forza per assicurare la liberazione totale dell’Africa. Ci occorre per portare avanti la costruzione di un sistema socio-economico che consenta alla gran massa della nostra popolazione, sempre in aumento, di raggiungere dei livelli di vita paragonabili a quelli dei paesi più avanzati.
Ma non possiamo mobilitare le nostre risorse attuali e potenziali senza uno sforzo concentrato. Se sviluppiamo le nostre potenzialità di uomini e di risorse naturali in gruppi isolati e divisi, le nostre energie saranno presto dissipate nella lotta per superarci a vicenda. I contrasti economici fra noi africani ci condurranno certamente a spiacevoli rivalità politiche, come quelle che per molti anni hanno impedito la crescita e lo sviluppo dell’Europa.
Attualmente, molti Stati africani indipendenti si stanno muovendo in una direzione che ci espone ai pericoli dell’imperialismo e del neocolonialismo. Ci occorre, perciò, una base politica comune per l’integrazione delle nostre politiche di programmazione economica, di difesa delle relazioni estere e diplomatiche. Questa base di azione politica non richiede la violazione dell’essenza della sovranità dei singoli Stati africani. Questi Stati continueranno ad esercitare una autorità indipendente, ad eccezione di settori definiti e riservati all’azione comune, nell’interesse della sicurezza e dell’ordinato sviluppo dell’intero continente.
A mio parere, perciò, un’Africa unita — cioè l’unificazione economica e politica del continente africano — dovrebbe mirare a tre obiettivi.
In primo luogo, dovremmo avere una programmazione economica globale su base continentale. Questo fatto aumenterà il potenziale industriale ed economico dell’Africa. Nella misura in cui restiamo balcanizzati, regionalmente o territorialmente, resteremo preda del colonialismo e dell’imperialismo. La lezione delle Repubbliche del Sud America di fronte alla potenza e alla solidità degli Stati Uniti d’America, tutti la possono constatare.
Le risorse dell’Africa possono essere usate nel modo migliore e per il massimo beneficio di tutti, solamente se entrano a far parte di uno sviluppo programmato su scala continentale. Un piano economico complessivo, che riguardi un’Africa unita su basi continentali, aumenterà il nostro potenziale industriale ed economico. Dovremmo, perciò, pensare seriamente già da ora ai mezzi e ai modi di costruire un Mercato comune di un’Africa unita e non lasciarci allettare dai dubbi vantaggi dell’associazione al cosiddetto Mercato comune europeo. In Africa, abbiamo atteso troppo a lungo lo sviluppo della nostra economia e dei nostri trasporti. Cominciamo ad occuparci del continente africano per il suo sviluppo complessivo. La nostra rete di comunicazioni è stata progettata durante la dominazione coloniale con la finalità di raggiungere l’Europa e altri continenti, invece di sviluppare le comunicazioni fra le nostre città e i nostri Stati. L’unità politica dovrebbe darci il potere e la volontà di operare questi mutamenti. In Africa abbiamo innumerevoli risorse agricole, minerarie ed idriche. Queste ricchezze pressoché favolose possono essere pienamente sfruttate e utilizzate nell’interesse dell’Africa e del popolo africano, solamente se verranno gestite dal governo dell’Unione degli Stati africani. Questo governo dovrà gestire una moneta comune, una zona monetaria e una banca centrale di emissione. I vantaggi di questi accordi finanziari e monetari saranno inestimabili, poiché le transazioni monetarie fra i nostri numerosi Stati saranno facilitate e si accelererà certamente lo sviluppo dell’attività finanziaria. Una banca centrale di emissione è una necessità ineliminabile, al fine di riorientare l’economia dell’Africa e sottrarla al controllo straniero.
In secondo luogo, dovremmo mirare alla creazione di una strategia militare e di difesa unificata. Non vi è molto senno né saggezza nei nostri sforzi separati di costruire o mantenere vaste forze militari per l’autodifesa che, in ogni caso, saranno incapaci di contenere un massiccio attacco ai nostri Stati divisi. Se esaminiamo questo problema realisticamente, dobbiamo porci questa domanda essenziale: quale singolo Stato in Africa, oggi, può proteggere la sua sovranità contro un aggressore imperialista? A questo proposito, si dovrebbe ricordare che i leaders anti-apartheid sostengono che il Sud Africa sta creando una grande forza militare con tutti i più recenti mezzi di distruzione, al fine di soffocare le rivolte nazionali in Africa. Né questo è tutto. Vi sono serie indicazioni che certi governi coloniali in Africa hanno già approfittato della pericolosa corsa agli armamenti e si stanno ora armando essi stessi fino ai denti. Le loro attività militari costituiscono una seria minaccia non solo alla sicurezza dell’Africa ma anche alla pace del mondo. Se queste rivelazioni sono vere, solamente l’unità africana può impedire al Sud Africa e a questi altri governi di raggiungere i loro diabolici obiettivi.
Se non ci uniamo e non congiungiamo le nostre risorse militari per una difesa comune, gli Stati individuali, sentendosi insicuri, potrebbero essere spinti a contrarre patti di difesa con potenze straniere che metterebbero in pericolo la sicurezza di tutti noi.
Vi è pure l’aspetto economico di questo problema. Il mantenimento di un’ampia forza militare impone un pesante fardello finanziario persino agli Stati più ricchi. Per i giovani Stati africani, che hanno un gran bisogno di capitali per lo sviluppo interno, è ridicolo — in verità, suicida — che ogni Stato, separatamente e individualmente, si assuma un oneroso bilancio per l’autodifesa, quando il peso di questo bilancio può essere facilmente alleggerito dividendolo fra tutti. Alcuni tentativi sono già stati fatti dalle potenze di Casablanca e dall’Unione afro-malgascia in materia di difesa comune, ma quanto sarebbe stato meglio e più efficace se, invece di due, vi fosse stato un solo (per terra, mare e aria) Comando di difesa per l’Africa.
Il terzo obiettivo che ci dovremmo proporre per l’Africa è una conseguenza dei primi due che abbiamo già discusso. Se in Africa creiamo una organizzazione per la programmazione unificata dell’economia e una strategia unificata, militare e di difesa, diventerà necessario che si adotti un’unica politica estera e diplomatica, al fine di dare una direzione politica ai nostri sforzi congiunti per la difesa e lo sviluppo economico del nostro continente. Per di più, vi sono circa sessanta singoli Stati in Africa, circa trentadue dei quali sono attualmente indipendenti. Il peso di una rappresentanza diplomatica da parte di ciascuno Stato solo nel continente africano sarebbe, schiacciante, per non parlare della rappresentanza al di fuori dell’Africa. La desiderabilità di una politica estera comune, che ci consentirebbe di parlare con una sola voce nelle assemblee mondiali è così ovvia, vitale ed imperativa, che ogni commento si rende superfluo.
Ho fiducia che sia possibile elaborare una costituzione applicabile alle speciali condizioni dell’Africa, che non sia necessariamente modellata nei termini delle costituzioni esistenti in Europa, in America o in altri paesi e tale che ci consenta di raggiungere gli obiettivi che ho definito e nello stesso tempo conservi, in una certa misura, la sovranità di ciascuno Stato all’interno dell’Unione degli Stati africani.
Potremo redigere, in un primo momento, un tipo di costituzione che inizi con quegli Stati che vogliono creare un nucleo, e lasciare la porta dell’Unione aperta ad altri che vogliano unirsi o raggiungere quella libertà che consenta loro di farlo. Questo tipo di costituzione dovrebbe essere aperta in ogni momento ad aggiustamenti ed emendamenti che fossero richiesti dall’opinione pubblica. Può darsi che si possa anche dare una concreta espressione alla nostra idea di creare un parlamento continentale che si esprima in una Camera bassa ed una Camera alta; una per consentire la discussione dei molti problemi che l’Africa deve affrontare da parte di una rappresentanza basata sulla popolazione; l’altra che assicuri l’uguaglianza degli Stati associati, indipendentemente dalla dimensione e dalla popolazione, con una rappresentanza uguale e limitata per ciascuno di essi, e che elabori una politica comune in tutti i campi riguardanti la sicurezza, la difesa e lo sviluppo dell’Africa. Essa potrebbe, attraverso un comitato selezionato allo scopo, esaminare eventuali soluzioni ai problemi dell’Unione e redigere una forma definitiva di costituzione, accettabile per tutti gli Stati indipendenti.
La sopravvivenza di un’Africa libera, l’indipendenza crescente di questo continente e lo sviluppo verso quel sereno futuro che noi auspichiamo e speriamo, dipendono dall’unità politica.
Con una completa unione politica dell’Africa emergerà un’Africa unita, grande e potente, nella quale i confini territoriali, che sono i relitti del colonialismo, diventeranno obsoleti e superflui; essa consentirà la completa e totale mobilitazione in funzione del piano economico sotto una direzione politica unificata. Le forze che ci uniscono sono molto maggiori delle difficoltà che attualmente ci dividono e il nostro obiettivo deve essere il raggiungimento della dignità, del progresso e della prosperità dell’Africa.
Abbiamo pertanto la certezza che l’unione continentale dell’Africa è un obiettivo necessario, se siamo veramente decisi a realizzare le nostre speranze e i nostri progetti per la costruzione di una società moderna che darà ai nostri popoli l’opportunità di godere di una vita piena e soddisfacente. Le forze che ci uniscono sono intrinseche e maggiori delle influenze sovrapposte che ci separano. Queste sono le forze che dobbiamo reclutare e consolidare, per rispetto della fiducia delle migliaia di uomini che guardano a noi — loro leaders — per aiutarli ad uscire dalla povertà, dall’ignoranza, dal disordine creato dal colonialismo e per andare verso un’unità ordinata, in cui la libertà e l’amicizia possano fiorire insieme al benessere.
Questa è la sfida che il destino ha lanciato ai dirigenti politici dell’Africa. Tocca a noi capire che è un’occasione eccezionale per provare che il genio del popolo africano può superare le tendenze separatiste delle sovranità nazionali, unendosi rapidamente, per amore della grandezza dell’Africa e di un inesauribile benessere, in una Unione di Stati africani.
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Un nuovo Stato.
I presupposti dell’unità africana e i suoi scopi comportano necessariamente la formazione di una nuova entità internazionale che si sostituisca alle attuali entità internazionali esistenti nel nostro continente. Fino a che non avremo realizzato tutto ciò, noi non saremo in grado di utilizzare le risorse dell’Africa per il popolo africano e non ci libereremo del timore che ci incute il resto del mondo. Deve essere fondato uno Stato di dimensioni continentali, unico ed indivisibile, che non possa venire spezzato, in virtù del fatto di essere un’unità e non un insieme di unità.
Questo fatto non significa che debba essere uno Stato unitario, con un unico governo, dotato di tutti i poteri. Esso deve avere un governo unificato, che detenga un potere superiore ed esclusivo in certi settori fondamentali. Oltre a questo, possono benissimo esserci altre autorità, altri governi, con poteri minori, altrettanto esclusivi e derivanti da una costituzione, non dal governo centrale. Questo significa semplicemente che la nuova Africa può essere uno Stato federale, con una divisione di poteri fra il centro e le parti componenti, stabilita sulla base delle aspirazioni dei fondatori e delle generazioni future.
Tuttavia, alcune cose devono essere competenza esclusiva del governo centrale. Esse comprendono gli affari esteri, la difesa, la cittadinanza, la moneta, le dogane, il commercio estero e le risorse minerarie, come minimo. Ci sono certe altre cose su cui il governo centrale deve avere poteri concorrenti e superiori in caso di conflitto; queste comprendono altre questioni centrali per lo sviluppo economico, come pure la polizia, le comunicazioni, la sanità, l’educazione, ecc. Quanto più forte sarà il governo centrale, tanto più grande risulterà il potenziale dell’Africa, poiché i poteri possono essere trasmessi secondo le necessità che emergono in pratica; tuttavia, solo con difficoltà un’autorità inferiore li cede ad una più alta. E’ anche importante comprendere che, una volta presa la decisione di unirsi, sono le nazioni più piccole e più povere ad avere il maggiore interesse nel sostenere un centro forte; solo così è possibile distribuire uniformemente i benefici e gli oneri su tutto il continente. Questo non significa che i piccoli Stati troveranno più facile porre al primo posto la decisione dell’unificazione. Al contrario, la loro paura di essere dominati da potenze più forti e più grandi può renderli più sospettosi e più difficili durante i negoziati.
La costituzione della nuova unità sarà, inevitabilmente, un prodotto degli atteggiamenti politici e delle condizioni economiche e sociali che si riscontrano oggi in tutte le diverse parti dell’Africa. Solo due cose sono essenziali per il suo successo.
In primo luogo, il nuovo Stato continentale dovrà essere capace di attirare e di mantenere la lealtà diretta del popolo. Esso deve, perciò, basarsi non tanto sugli Stati membri, quanto sul popolo stesso. In nessun altro modo può sperare di resistere alle tensioni dei primi anni e di sviluppare l’intera Africa al massimo delle sue potenzialità. Ciò non esclude che ci sia anche la lealtà nazionale, ma la lealtà verso gli Stati-nazione deve essere secondaria rispetto all’identificazione con l’Africa. Ciò significa un rovesciamento della attuale tendenza in Africa; dieci anni fa, un africano a cui si fosse chiesta la nazionalità, avrebbe scritto: «africana, Tanganica»; oggi scriverebbe: «Tanzania-Africa» — ammesso che aggiunga il nome del continente.
In secondo luogo, l’esecutivo dello Stato continentale deve avere la consapevolezza di essere responsabile verso l’Africa intera e non solo verso una parte di essa; e deve avere il potere di agire e di assumersi le responsabilità che gli competono. La libertà individuale non è considerata in Africa come l’opposto dell’autorità della Comunità. Noi non realizzeremo mai la presenza internazionale politica ed economica cui aspiriamo, assediando l’esecutivo con «pesi e contrappesi» al centro, che paralizzano l’azione.
La formazione dell’unità.
Ma tutto ciò è lo scopo. E’ probabile che non sorgano molte controversie intorno a ciò, inteso come obiettivo; il problema concreto nasce intorno alla via da seguire ed all’urgenza di incamminarsi su questa strada.
La prima cosa da accettare è la nostra situazione attuale. In Africa abbiamo trentasei Stati-nazione indipendenti, con una popolazione oscillante da 300.000 a 40.000.000 di abitanti. Queste nazioni, non solo hanno lingue ufficiali diverse e forme di amministrazione ereditate differenti, ma hanno anche allacciato dei rapporti con le potenze non africane, che sono incompatibili fra di loro. Esse hanno economie più competitive che complementari, le loro costituzioni variano per forma e per complessità; alcune hanno adottato una religione di Stato, mentre altre sono coscientemente laiche. Tutte queste, e numerose altre, differenze conflittuali giungono all’apice cogli sforzi nazionali, intensi e deliberati, volti a creare delle lealtà nazionali incentrate su singoli capi, oppure su bandiere o altri simboli delle sovranità. Queste sono le nazioni che devono essere incorporate in un’Africa unita.
Questo elenco imponente di difficoltà ed ostacoli all’unità, è controbilanciato dalla logica della necessità di unità dell’Africa e dalla generale determinazione dell’Africa di liberarsi dal colonialismo e dall’oppressione razziale. C’è un sentimento di «africanità», che è una forza positiva. Esso ha già consentito la costituzione dell’Organizzazione per l’Unità Africana; ha, inoltre, già permesso che molte commissioni specializzate iniziassero i loro lavori e che fosse istituita una Banca per lo sviluppo. L’Africa ha compiuto più conquiste in direzione dell’unità di qualunque altro continente. Le sue difficoltà ed i suoi errori servono solo a definire la strada su cui ci si sta avviando. Ma, dove stiamo andando?
Secondo un modo di procedere ideale, nei trentasei Stati indipendenti ognuna delle autorità competenti dovrebbe decidere per l’unificazione e, poi, inviare ad una Convenzione dei rappresentanti autorizzati ad elaborare la Costituzione degli Stati Uniti dell’Africa. Quando fosse trascorso un certo periodo per la ratifica e per elezioni a livello continentale, si giungerebbe alla fondazione del nuovo Stato.
Parte di questa procedura dovrà, in definitiva, essere seguita, poiché la decisione di unificarsi è una decisione politica che deve essere presa. Non esistono metodi alternativi di cooperazione o di integrazione economica che possono sostituire quell’atto politico. Questi possono condurre ad esso, ma non di più, perché il potere deve essere ceduto da organi sovrani e ceduto definitivamente, senza possibilità di restituzione e senza limiti di tempo. Questo è, nella sua essenza, un atto politico.
Per quanto riguarda il nostro paese, il governo della Repubblica unita della Tanzania è pronto a dare inizio a questo processo ed è più che probabile che il popolo dell’Unione appoggi calorosamente questa azione.
Sarebbe, tuttavia, stupido pretendere che ogni paese o ogni governo di questo continente sia, attualmente, nella stessa condizione. Discussioni in occasione di incontri panafricani ed affermazioni di diversi leaders africani hanno messo chiaramente in luce che le cose non stanno così. Non c’è nessuna virtù nell’esser pronti e neppure nessuna vergogna nel non esserlo. Noi siamo tutti, in larga misura, il prodotto delle nostre società e delle nostre storie. Ciò che bisogna fare è accettare questo fatto, come abbiamo accettato gli altri; alcuni Stati africani non sono, per ora, disposti a compiere questo passo finale.
Questo non significa, tuttavia, che l’obiettivo debba essere rifiutato. Certamente, sotto certi aspetti, esso diventa tanto più difficile da raggiungere quanto più lunga è l’attesa. Tuttavia, se si abbandonasse l’obiettivo, sarebbe colpa di chi desidera avvicinarvisi attraverso la cooperazione funzionale o con altri mezzi, prima di fare il passo finale.
Nel frattempo, non è necessario lasciarsi trasportare indietro lontani l’uno dall’altro. Noi dobbiamo, invece, muoverci più gradualmente attraverso la cooperazione panafricana, fino al limite dell’accordo; l’Organizzazione per l’Unità Africana è un’espressione di tale azione in progressione e la sua importanza consiste nei principi su cui si fonda e nell’apparato che è stato istituito per favorire un’ulteriore cooperazione.
Inoltre, incontri congiunti di rappresentanti di tutti i diversi Stati possono contribuire, in alcuni casi, come nelle conferenze internazionali, ad un’unità pratica di approccio. Ciò non è sempre possibile, però in genere le differenze sono almeno attenuate. Molto spesso si realizza una cooperazione più limitata su specifici problemi, che interessano direttamente un numero più ristretto di Stati nazionali; un serio esame delle procedure e dei trattati operanti nelle diverse regioni rivelerebbe l’esistenza di un ampio grado di tale cooperazione funzionale.
Il grave pericolo della cooperazione funzionale limitata è che essa può influire negativamente sulle altre parti dell’Africa e complicare ulteriormente il compito finale dell’unificazione. Ciò è particolarmente vero riguardo agli accordi con paesi o gruppi non africani e l’esempio più ovvio, anche se non il solo, è dato dallo speciale rapporto esistente tra alcuni paesi africani e il Mercato comune europeo.
Tuttavia, in alcune zone dell’Africa si può compiere un passo che renderebbe più semplice l’unificazione definitiva. Non c’è ragione per cui gli attuali Stati nazionali debbano essere considerati come le componenti necessarie dell’unità. La fusione o la federazione fra due o più di essi in una nuova entità sovrana, avrà due effetti. In primo luogo, consentirà all’area interessata di raggiungere velocemente almeno i benefici di una maggiore unità e di una maggiore forza. In secondo luogo, ridurrà il numero degli Stati che dovranno incontrarsi per accordarsi sulle forme definitive dell’unificazione africana. Se fosse possibile la fusione, per accordo volontario di tutto il popolo, di differenti zone dell’Africa in nuovi Stati federali, la conferenza finale di unificazione potrebbe avvenire fra dieci o dodici rappresentanti, invece che fra trenta o quaranta. Se ciò fosse possibile, la conferenza finale sarebbe certamente facilitata nel raggiungimento dell’intesa. Questo era il nostro scopo allorché in Africa orientale il Kenia, l’Uganda e il Tanganica decisero di federarsi. Ma i negoziati si sono interrotti e, negli ultimi diciotto mesi, i tre paesi hanno perseverato negli sforzi per ottenere un elevato grado di cooperazione economica, senza compiere il passo politico necessario per garantirla. Di conseguenza, ci siamo trovati di fronte ad una difficoltà dopo l’altra e, sotto certi aspetti importanti, noi abbiamo un’integrazione economica inferiore rispetto al 1963. Ciò è avvenuto, non perché qualcuno dei tre Stati abbia incominciato ad avversare l’unità, bensì perché ogni governo ha, in primo luogo, la necessità di realizzare lo sviluppo della sua area e deve compiere i passi necessari a questo scopo. In assenza di un’autorità responsabile verso il popolo del Kenia, dell’Uganda e della Tanzania e che possa, quindi, agire in modo da garantire lo sviluppo di tutti e tre, ognuno dei governi interessati deve intraprendere quelle azioni che ritiene essenziali per il suo sviluppo. Ne sono già risultati una estensione delle restrizioni alla libera circolazione delle merci fra i tre paesi e un vistoso mercanteggiamento riguardo alle decisioni necessarie — con la conseguenza che molti servizi essenziali hanno risentito di questo processo.
Per l’Africa, la lezione che si può trarre dall’esperienza dell’Africa orientale è che la cooperazione economica può protrarsi a lungo senza integrazione politica, ma che si giunge ad un punto in cui si deve o andare avanti, o retrocedere — avanti verso la decisione politica o retrocedere verso forme ridotte di cooperazione economica. Ciò è inevitabile quando i governi — come tutti quelli africani — hanno per scopo la loro attiva partecipazione alla vita economica del paese.
L’unione fra il Tanganica e lo Zanzibar mostra uno sviluppo opposto. Malgrado la vicinanza ed i vecchi vincoli, i due paesi hanno sviluppato differenti forme di governo e di amministrazione e diversi livelli di tasse e di imposte. Tuttavia, una decisione politica di fondersi dipende dalla capacità di procedere verso l’uniformità in quei settori in cui la sovranità internazionale della nuova unità era interessata. Nel compiere questi passi amministrativi, si sono evitati i pericoli di azioni volte alla disgregazione da parte dei neocolonialisti. Lo Zanzibar non può essere usato come base da chi è ostile al Tanganica, né quest’ultimo può esserlo per chi osteggia la rivoluzione nello Zanzibar. Noi ora siamo un unico popolo e, come tale, siamo pronti e capaci di entrare nei futuri negoziati per l’unità africana.
Sono state presentate delle obiezioni contro lo sviluppo di nuove federazioni in Africa. Si dice, fra l’altro, che si creeranno nuovi lealismi locali che opereranno contro il lealismo nei confronti dell’Africa. E’ difficile prendere sul serio questa obiezione. Negli ultimi dieci anni il nostro popolo ha dovuto estendere il suo lealismo tribale fino a comprendervi la nazione. Sarà molto più facile per esso provare un lealismo nei confronti dell’«Africa», che non divide la loro tribù e che, rispetto alla loro esperienza, è molto meno lontana di quanto spesso non lo siano le loro nazioni. L’introduzione, attraverso una federazione, di un altro passo intermedio verso l’unità non costituisce una grave complicazione; potrebbe, in realtà, impedire lo sviluppo di un nazionalismo insulare che, più tardi, potrebbe ostacolare un lealismo più ampio.
Altrettanto semplicistica è l’ipotesi secondo cui sarebbe impossibile che un’Africa unita fosse costituita da più federazioni, in quanto si tratterebbe di un federalismo «a tre stadi». Ci sono già delle federazioni in Africa; il problema esiste dal tempo dell’indipendenza della Nigeria. Tuttavia, la soluzione di questo problema costituzionale non è al di fuori della portata dell’intelletto umano. Ci sono molti metodi alternativi che vengono in mente.
L’unica argomentazione contro il tentativo di progredire verso l’unità attraverso successive federazioni politiche, che abbia qualche consistenza, è che la federazione darà vita a gruppi di popolazioni e ad aree sufficientemente ampi per consentire lo sviluppo di economie di per sé vitali, ma impedirà al continente, come un tutto, di raggiungere le sue massime potenzialità. Questa possibilità esiste; il fatto che diventi o meno un pericolo reale dipende, in pratica, dai leaders delle nuove unità e dalla volontà degli altri Stati di compiere passi definitivi verso l’unità di tutta l’Africa. Ma, comunque, è abbastanza strano dedurre che l’unità africana contribuirà ad un progressivo indebolimento dell’Africa. La nostra esperienza ci ha già dimostrato che le cose non stanno così. Un paese debole e piccolo deve prendere gli aiuti dove e quando può: se ciò comporta, come è successo sino ad ora, l’entrare in rapporti economici e di altra natura con degli Stati non africani, il piccolo Stato deve fare così. Di conseguenza, esso sarà trascinato e legato sempre più strettamente a gruppi esterni al nostro continente e non cercherà di recidere o di compromettere i rapporti che lo incatenano, perché è consapevole di non poter esistere da solo. Se una federazione potesse ridurre questa necessità di dipendenza esterna, essa offrirebbe un grande contributo alla realizzazione dell’unità finale.
L’unità deve essere realizzata.
Tutta la discussione su come si debba realizzare l’unità, se con un processo di «piccoli passi», oppure se con una decisione politica, è, in realtà, futile. In ultima istanza è necessaria una decisione politica; senza di essa l’unità non può essere realizzata. Ma, nel frattempo, dobbiamo semplicemente attendere, sperando in un miracolo, mettendo a repentaglio per sempre il nostro sviluppo o la nostra indipendenza, oppure dobbiamo compiere tutti i progressi possibili? Certo, la risposta deve essere chiara; gli Stati africani devono cooperare ed intraprendere delle attività comuni in ogni caso e per tutti i fini in cui ciò sia possibile. Soprattutto, ognuno di essi deve fare tutto ciò che è possibile per salvaguardare ed alimentare lo spirito ed il sentimento di unità.
Finiamo ritornando al punto da cui siamo partiti; soltanto con raccordo si può realizzare un’Africa unita. Il ventesimo secolo è costellato dalle rovine delle federazioni che sono fallite, in quanto non basate sulla volontà del popolo interessato, oppure perché non sufficientemente forti per resistere alle bufere della politica e dell’economia internazionali.
Deve essere chiaro per ognuno che il raggiungimento dell’unità non risolverà da solo i problemi dell’Africa. Semplicemente, porrà le condizioni per cui essi potranno essere risolti dall’Africa. All’inizio l’efficacia del governo panafricano sarà limitata; avrà più responsabilità che poteri. Esso dovrà procedere organizzando e discutendo ogni passo del cammino e crescendo in statura gradualmente — così come il governo federale degli Stati Uniti sta tuttora crescendo rispetto ai governi degli Stati, in conseguenza delle necessità del popolo e del mondo. In effetti, l’avvio degli Stati Uniti dell’Africa non comporterà automaticamente un periodo di buon governo e di prosperità per il popolo africano; noi non diventeremo in quel giorno ricchi e potenti come gli Stati Uniti d’America. Saremo, però, in grado di cominciare il lavoro, consapevoli che un tale futuro è possibile.
Quindi, nonostante tutte queste difficoltà — anzi a causa di esse — l’Africa deve unirsi. E deve procedere il più velocemente possibile, compatibilmente con le difficoltà del cammino. Oggi il popolo africano, e in particolare i suoi leaders, ha nei confronti dei suoi antenati e dei suoi discendenti un dovere, che non deve mancare di assolvere.
L’uomo, il cui contributo meriterà solamente una nota a pie’ di pagina nella storia dell’unità africana, meriterà più riconoscenza in futuro di colui la cui ostinazione, paura o superbia, ostacola o allontana il giorno in cui quella storia potrà essere scritta. lo credo che il popolo dell’Africa sarà degno della sua grande occasione.
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…E’ essenziale in Tanzania che noi, in quanto società, riconosciamo la necessità di compiere passi particolari, al fine di rendere temporanea la nostra attuale situazione e combattiamo con determinazione l’intensificarsi di quell’atteggiamento che potrebbe, al limite, annullare il nostro bisogno sociale di dignità umana e di uguaglianza. Noi dobbiamo operare con la prospettiva di una situazione in cui ogni essere umano comprenda che i suoi diritti nella società — al di là delle esigenze primarie di ogni individuo — devono essere subordinati al bisogno superiore di garantire a tutti la tutela della dignità umana; e dobbiamo istituire un tipo di organizzazione sociale che riduca al minimo le tentazioni personali.
La diffusione di simili atteggiamenti e l’introduzione di queste istituzioni deve rappresentare un obiettivo importante per la politica del governo tanzaniano. Esso è stato definito come un obiettivo socialista, poiché la deliberata regolamentazione della società, allo scopo di realizzare l’uguaglianza ed il benessere umano, è propria della dottrina socialista. Ma noi siamo «socialisti africani»; agiamo in Africa ed il cammino verso il nostro obiettivo sarà in gran parte determinato dalle condizioni economiche e sociali esistenti oggi in questo continente. Ciò non significa rivendicare un valore particolare al «socialismo africano»; noi lo adottiamo in quanto dobbiamo incamminarci verso l’obiettivo socialista dell’uguaglianza e della dignità umana, seguendo la strada più adatta per noi. Si tratta, semplicemente, di riconoscere che, se due persone vanno in India, una partendo dall’Africa e l’altra dal Giappone, la prima partirà da est e la seconda da sud-ovest. La destinazione di tutti i veri socialisti è probabilmente la stessa, ma il sentiero è fortemente determinato dal punto di partenza.
In realtà, persino parlare di socialismo «africano», significa utilizzare una definizione non appropriata. Poiché l’Africa è stata organizzata in Stati nazionali e poiché essi si sono sviluppati in modo diverso, ci saranno differenze anche nel socialismo africano. Infatti, sebbene le nazioni africane siano creazioni artificiali dell’uomo (in particolare, degli Europei), sessant’anni di storia fanno sì che esse rappresentino le società di base da cui deve partire il nostro sviluppo oggi. Dobbiamo riconoscere resistenza di circa quaranta Stati sovrani separati di società separate che, pur essendo accomunate geograficamente, economicamente e — per ora — psicologicamente, sono tuttora separate. Ognuna di queste nazioni è attualmente la «società» entro cui devono avvenire le trasformazioni.
Ciò comporta serie implicazioni. Infatti, nonostante che non ci sia razionalità negli Stati nazionali, essi rimangono delle entità entro cui la società si organizza e si protegge. I modelli di comportamento operano solo all’interno di questi confini; solo al loro interno possono essere fatti rispettare. Il che significa che i rapporti fra queste «società» e fra individui membri di società diverse, sono regolati solo dall’interesse particolare dei rispettivi gruppi. Ogni nazione, quindi, ritiene necessario dar vita ad un sistema di auto-difesa — intendendo, con ciò, la difesa dei suoi propri interessi — e spendere tempo e denaro per proteggersi dall’eventualità di essere utilizzata da altre nazioni più potenti. In realtà, gli Stati nazionali costruiscono la loro unità interna creando o esasperando la loro separazione dalle altre nazioni.
Perciò oggi abbiamo una situazione mondiale caratterizzata da un gran numero di piccole società differenti, ognuna delle quali cerca di realizzare una forma propria di organizzazione sociale, separatamente e persino in contrapposizione rispetto ad altri gruppi sociali, mentre non esiste alcun codice di comportamento tra i gruppi universalmente accettato. Al suo interno, ogni Stato cerca di armonizzare o, al limite, di controllare i rapporti fra i suoi cittadini ed i residenti. All’esterno regna la legge della giungla, temperata solo da considerazioni sui vantaggi di lungo termine, contrapposti a quelli immediati.
Tutto ciò è, ovviamente, assurdo. La tecnologia del ventesimo secolo unisce il mondo e ancora noi cerchiamo di far funzionare delle relazioni sociali come se le frontiere nazionali creassero delle barriere impenetrabili fra i popoli. E’ essenziale che il nostro concetto di società sia adattato alla realtà presente; solo allora ognuno degli attuali raggruppamenti sociali sarà veramente libero di perseguire la sua politica. Le nazioni, oggi, agiscono come degli individui che non hanno formato una società; esse resistono all’invito perché si rendono conto che formare una società significa rinunciare a certe libertà per guadagnarne altre. Tuttavia, progressivamente la necessità di avere una società organizzata diventa sempre più chiara; rimane il problema di sapere se essa sarà realizzata prima del disastro.
Per ora, parlare di un «governo mondiale» — che è ciò che implica una società mondiale — significa sognare ad occhi aperti. E’ un sogno molto logico e necessario, ma non ha alcuna probabilità di diventare presto una realtà. In tutto il mondo gli Stati nazionali hanno avuto un tale successo nel creare delle idee di unità interna, che quasi tutti i popoli oggi sono terrorizzati dal pensiero che qualcuno venuto da «fuori» possa avere un potere su di loro; essi non sembrano capaci di comprendere che anche loro avrebbero potere sugli altri. Ciò significa che, per quanto necessario, noi non creeremo un governo mondiale in questo secolo — a meno, naturalmente, che qualche evento imprevedibile non trasformi gli atteggiamenti umani attuali.
Noi dobbiamo perciò, da questo punto di vista, come da altri, operare a questo fine, partendo dalla posizione attuale. Dobbiamo essere contenti di avere un’organizzazione, l’ONU, per quanto molto imperfetta, e lavorare per rafforzarla. Attualmente essa vacilla a causa delle diseguaglianze fra i suoi membri e perché non c’è stato alcun accordo fra di essi per darle una forza indipendente. Tuttavia, è un’istituzione che si può cominciare a rendere operante sin da oggi e, proprio come l’uomo più debole è colui che nel breve periodo ha più da guadagnare dall’organizzazione della società umana, così pure, nel breve periodo, le nazioni più piccole e deboli sono quelle che più urgentemente hanno bisogno della creazione di una società mondiale. Sono, quindi, paesi come la Tanzania a dover compiere il maggiore sforzo necessario per far sì che le Nazioni Unite abbiano successo nei loro attuali tentativi, così che questa organizzazione possa crescere o essere sostituita più tardi da un’entità più forte, secondo le circostanze.
C’è più di un modo in cui le attuali società africane possono ridurre i pericoli derivanti loro dalla proliferazione degli Stati nazionali. Operiamo per l’unificazione mondiale, creando l’unità del nostro continente. Ora, se l’unità africana è ancora un passo troppo grande da compiere subito, noi possiamo creare delle entità africane, più grandi delle attuali, attraverso unioni, federazioni o fusioni degli Stati nazionali esistenti, così da ridurre il numero di società sovrane in Africa.
Questi passi preliminari non sono necessariamente dei sogni ad occhi aperti. Se abbiamo coraggio e intelligenza, essi possono diventare una realtà nel futuro immediato. Ed essi sono indiscutibilmente essenziali per far sì che il cittadino africano vinca la povertà di cui è preda oggi ed aumenti il suo livello di sicurezza personale, perché questo è, e deve essere, l’obiettivo di unità più ampie in Africa, come altrove. Non si tratta di una dimensione fine a sé stessa, ma di una forza e di un potere impiegati per difendere le libertà reali dell’uomo comune e per aiutarlo a progredire nella sua conquista di libertà.
(a cura di Fall Cheikh Bamba)
[1] Si tratta del cap. XXI del volume Africa must unite, Heinemann, London, 1963, pp. 216-22.
[2] Dal saggio tratto da Freedom and Unity, London, Oxford University Press, 1967, pp. 334-350.
[3] Dalla Introduzione a Freedom and Unity, London, Oxford University Press, 1967, pp. 17-20.