Anno XVII, 1975, Numero 1, Pagina 124
OBIETTARE AL SERVIZIO MILITARE*
Le ragioni morali e politiche del rifiuto del servizio militare.
Vi è un’unica motivazione, nello stesso tempo morale, filosofica e religiosa, che ispira l’obiezione di coscienza: il comandamento evangelico di «non uccidere», vale a dire il dovere di considerare i nostri simili come dei fini e non come dei mezzi.
Questo comandamento non cessa di essere predicato, ma viene continuamente violato da coloro stessi che lo predicano. Non è forse vero che persino la Chiesa accetta ed alimenta la scandalosa istituzione dei cappellani militari che, all’interno degli eserciti nazionali, incoraggiano i giovani ad abbracciare le armi per servire fedelmente la «Patria» e benedicono bandiere e cannoni in nome di un blasfemo «dio nazionale» che nega il diritto alla vita ai popoli stranieri? E non è forse vero che il diritto, affermato per la prima volta nella storia dalla Rivoluzione francese, di essere riconosciuti, al momento stesso della nascita, come cittadini di uno Stato, perciò con pari diritti e doveri nei confronti dei propri simili, è sistematicamente negato a coloro che non appartengono allo stesso Stato nazionale? Gli uomini prima di essere cristiani, liberali, democratici o socialisti sono connazionali o stranieri.
Lo strumento ideologico di questa discriminazione razziale è l’ideologia nazionale. Lo strumento materiale è l’esercito. Gli eserciti sono l’istituzione della violenza legalizzata dagli Stati nazionali per risolvere i contrasti fra le nazioni con «la legge del più forte»: con la minaccia o con l’impiego effettivo della forza fisica nella guerra. Per questo la professione militare è incompatibile con il rispetto della persona umana nei propri simili. Kant, per primo e con incomparabile lucidità, ha descritto nella «Pace perpetua» questa insanabile contraddizione. «Gli eserciti permanenti devono col tempo interamente scomparire. E ciò perché minacciano incessantemente gli altri Stati con la guerra, devono sempre mostrarsi armati a tale scopo, ed eccitano gli altri Stati a gareggiare con loro in quantità di armamenti in una corsa senza fine: e siccome per le spese a ciò occorrenti la pace diventa da ultimo ancor più oppressiva che non una breve guerra, così tali eserciti permanenti diventano essi stessi la causa di guerre aggressive, per liberarsi da questo peso. A ciò si aggiunga che assoldare uomini per uccidere o per farli uccidere è, a quel che sembra, fare uso di uomini come di semplici macchine e di strumenti nelle mani di un altro (dello Stato), il che non può conciliarsi col diritto dell’uomo alla propria persona».
Nazionalismo e cosmopolitismo.
Tuttavia, e la storia lo testimonia, i popoli che non hanno saputo difendere con la forza la loro indipendenza nazionale hanno finito per essere dominati da altri popoli, sono stati costretti ad accettare leggi e costumi non loro. Un popolo non può perseguire libertà e giustizia se non ha saputo conquistarsi prima pari dignità nei confronti degli altri popoli e pari responsabilità nella politica internazionale.
Questa affermazione è solo parzialmente vera. La Rivoluzione francese ha affermato il principio della indipendenza nazionale dei popoli. Ma la rivendicazione della indipendenza nazionale non avrebbe avuto alcun senso per la storia europea e mondiale se fosse stata considerata un fine in sé e non un mezzo per la realizzazione della libertà, della uguaglianza e della fratellanza per tutti gli uomini. Una umanità di nazioni libere e amiche era l’ideale dei rivoluzionari francesi, che non avrebbero mai considerato le loro conquiste rivoluzionarie come un «privilegio» dei francesi. Essi erano rivoluzionari perché cosmopoliti.
La storia europea ha però dimostrato che, nel corso delle loro lotte nazionali, i popoli europei, di quel messaggio rivoluzionario, hanno affermato egoisticamente solo il principio nazionale, ma hanno negato quello cosmopolitico. Per questo, verso la fine del secolo scorso si è assistito alla corsa delle grandi potenze europee verso un sempre maggior armamento ed all’affermarsi incontrastato della religione nazionalistica, che pretende di imporre un proprio «dio degli eserciti» al di sopra dei tradizionali valori del cristianesimo, della libertà e della giustizia per tutti gli uomini. Secondo questa religione è giusto offrire la propria vita a questa divinità pagana; ed al culto del «dio nazionale» si sono piegati vergognosamente tutti i seguaci dei partiti democratici europei che allo scoppio della prima guerra mondiale non hanno esitato ad affrontare sulle opposte trincee quelli che avrebbero dovuto essere i loro compagni di lotta. Il nazismo e il secondo conflitto mondiale hanno poi dimostrato quanto di demoniaco e di bestiale vi fosse nel mito nazionale.
Chi vuole oggi di nuovo raccogliere gli ideali cosmopolitici della Rivoluzione francese deve rifiutare il principio della sovranità nazionale, assoluta ed esclusiva, che ha portato innumerevoli maledizioni e sofferenze all’umanità.
Vassallaggio nazionale e indipendenza europea.
Vi è poi una seconda ragione per cui oggi occorre respingere il feticcio della sovranità nazionale. Dopo la seconda guerra mondiale gli Stati europei sono caduti, a occidente, nell’orbita americana e, a oriente, nell’orbita sovietica. Di fatto, il mondo è diviso dalle superpotenze in due grandi zone di influenza e gli Stati europei non sono nemmeno più in grado di garantire la propria difesa.
L’esercito italiano, per esempio, è integrato nella N.A.T.O. ed ha perso completamente la capacità di armarsi autonomamente, senza chiedere pareri ed aiuti al suo più potente alleato americano, né decide da solo della strategia di difesa dell’Italia. Per questo chi oggi si fa paladino, nei partiti di destra come in quelli di sinistra, della difesa della sovranità italiana rende obiettivamente un servigio all’imperialismo americano in Europa, perché ormai la sovranità italiana è una finzione giuridica che nasconde un reale rapporto di subordinazione.
Luigi Einaudi scriveva nel 1954, mentre era Presidente della Repubblica, che gli Stati nazionali europei sono «polvere senza sostanza». Discutere sul mantenimento della sovranità nazionale in queste condizioni è o vuoto formalismo giuridico o pura follia. Senza l’unità europea, scriveva Einaudi, presto gli Stati nazionali europei sarebbero caduti definitivamente sotto l’egemonia americana e sovietica. «Nessuno Stato è in grado di sopportare il costo di una difesa autonoma. Solo l’unione può farli durare. Il problema non è fra l’indipendenza e l’unione; è fra l’esistere uniti e lo scomparire… Esisterà ancora un territorio italiano; non più una nazione, destinata a vivere come unità spirituale e morale solo a patto di rinunciare ad una assurda indipendenza militare ed economica».
Oggi l’unità dell’Europa è necessaria per garantire di nuovo l’indipendenza e l’autonomia degli europei nei confronti delle superpotenze. Oggi non ha più senso prestare il proprio servizio ad una «Patria» che non è più il quadro istituzionale entro il quale possono essere difese le libertà e le conquiste sociali degli italiani.
Il diritto di non uccidere.
L’avanzata inarrestabile dell’interdipendenza dei rapporti umani a livello mondiale rende ormai anacronistica la divisione politica dell’umanità in Stati nazionali indipendenti e sovrani. Sta emergendo una società di dimensioni mondiali, ma si continua a pretendere il lealismo assoluto dei cittadini nei confronti di poteri nazionali sempre meno in grado di affrontare e risolvere i reali problemi della società.
Al principio nazionale, cioè alla cultura della divisione politica del genere umano, occorre contrapporre il principio federalistico, cioè la cultura dell’unità nella diversità di tutti i popoli. Nello Stato federale i popoli non rinunceranno alle rispettive individualità nazionali; al contrario lo Stato federale riconosce il diritto delle nazionalità spontanee (di lingua, tradizione, religione, ecc.) di autogovernarsi. Ma per quanto riguarda i rapporti fra i popoli, nello Stato federale essi saranno regolati da leggi, così come all’interno di uno Stato sono regolati da leggi, e non dalla forza, i rapporti fra individui: gli Stati membri di una federazione rinunceranno perciò ai loro eserciti ed alla loro sovranità assoluta in politica estera.
Lo Stato federale è lo strumento per la realizzazione del diritto di non uccidere. Oggi i rapporti fra le nazioni sono regolati dalla forza; per questo si impone ai cittadini il dovere di servire in armi la Patria e di assecondare la politica di potenza del governo nazionale. Ma gli Stati membri di una federazione rinunceranno a risolvere i conflitti fra loro per mezzo delle armi e non costringeranno perciò i loro cittadini a prestare il servizio militare. Una Federazione mondiale garantirebbe una convivenza pacifica fra i popoli ed estirperebbe per sempre le radici della guerra e della violenza istituzionalizzata. Sono queste le indicazioni date da Kant nella «Pace perpetua» sul futuro ordine pacifico dell’umanità.
Oggi la Federazione mondiale è irrealizzabile, ma è possibile compiere un passo in questa direzione. Oggi è possibile battersi per la costruzione di uno Stato federale europeo. La sua realizzazione indicherebbe all’umanità la via verso l’eliminazione degli eserciti nazionali, la smilitarizzazione della società e l’instaurazione di un ordine internazionale non-violento. Degli Stati nazionali, storicamente consolidati, per la prima volta nella storia, rinunceranno spontaneamente alloro potenziale militare per sottoporsi al vincolo federale. Battersi per la Federazione europea significa anche battersi per la realizzazione in Europa del diritto di non uccidere.
Tuttavia la Federazione europea si fonderà su principi istituzionali imperfetti e contraddittori. Essa sarà pur sempre uno Stato in un mondo di Stati indipendenti e sovrani: dovrà pertanto negare agli altri popoli il diritto ad una convivenza pacifica che gli europei avranno già conquistato fra di loro. Per questo i federalisti che si oppongono a qualsiasi politica di potenza e lottano per la scomparsa di tutti gli eserciti, annunciano fin da ora la loro opposizione al governo federale europeo, in nome dell’unità federale di tutto il genere umano.
È nostro dovere batterci, là dove possibile, per giungere alla Federazione mondiale, attraverso il superamento di tutte le sovranità assolute e l’abolizione degli eserciti. Per questo, obiettare oggi al servizio militare è, seppure in modo imperfetto, attuare fin da ora il nostro diritto di non uccidere.
Comunitarismo e servizio civile.
La storia degli Stati del continente europeo è stata caratterizzata da continui contrasti e tensioni, sfociati spesso in guerre sanguinose, nel tentativo di affermare l’egemonia di uno Stato sugli altri. In questa situazione era inevitabile che i governi degli Stati europei accentrassero il più possibile tutti i poteri nelle proprie mani, al fine di poter mobilitare in brevissimo tempo tutte le energie disponibili nella nazione per affrontare e sconfiggere il nemico. In sostanza l’obiettivo principale del potere nazionale è sempre stato quello di inculcare, con tutti gli strumenti possibili, in ogni cittadino, il convincimento che la suprema virtù civica fosse quella di dare la propria vita per la Patria; esso tentava cioè di realizzare l’equazione cittadino = soldato. Così si spiega la scuola di Stato, realizzata da Napoleone ma ancora attiva oggi, in cui i programmi sono rigidamente fissati e gli insegnanti selezionati dal potere centrale. Così si spiega la leva obbligatoria per tutti i giovani validi, che, quasi a completamento della loro formazione morale e civile dopo il curriculum scolastico, subiscono il lavaggio del cervello della disumana disciplina militare. Così si spiega la mancanza assoluta di autonomia degli enti locali, a cui non è nemmeno concesso di fare vere elezioni (tanto che sono dette «amministrative») per i propri organi e a cui si impone la tutela del prefetto che assicura che le direttive del governo centrale vengano rispettate.
Bisogna negare l’equazione cittadino = soldato ed affermare il principio che è possibile, e anche più degno, dedicare il proprio impegno civile al servizio di comunità disarmate. Bisogna pertanto anche rifiutare qualsiasi tentativo di organizzare il servizio civile a livello nazionale, magari alle dipendenze del Ministero della Difesa. La lotta per la realizzazione del diritto di non uccidere per tutti gli uomini è anche la lotta per l’affermazione dei valori di quel comunitarismo che già nel secolo scorso Proudhon ha predicato, indicando nel «Principio federativo» la via per la organizzazione di libere comunità spontanee legate fra di loro da vincoli di amicizia (e non di potere).
Oggi, il servizio civile volontario può rappresentare uno strumento per spezzare il monopolio statale della vita pubblica e preparare la via a quella più perfetta vita comunitaria che sarà possibile solo nella Federazione mondiale. Il divario fra le istituzioni create dallo Stato burocratico ottocentesco e le esigenze della società civile contemporanea non è mai stato tanto profondo. Lo sviluppo incontrollato dell’economia e dell’urbanizzazione e la crisi della famiglia patriarcale hanno fatto emergere problemi sociali di dimensioni tali che, se irrisolti, rischiano di vanificare le altre conquiste economiche e sociali. I bambini vengono in misura sempre crescente abbandonati alle cure poco attente di istituti assistenziali antiquati e quelli handicappati spesso non riescono ad ottenere nemmeno le cure indispensabili. Gli anziani vengono emarginati in ricoveri inospitali o in ghetti cittadini insalubri. Il patrimonio artistico e culturale giace praticamente incustodito e, quando non viene definitivamente danneggiato, resta sconosciuto al pubblico. I beni naturali vengono devastati dalla furia della speculazione, con la complicità di autorità poco attente alla loro difesa.
Un servizio civile volontario, organizzato dai governi locali, consentirebbe di mettere la società di fronte alle proprie responsabilità e trovare le energie morali per avviare a soluzione questi problemi. Queste finalità non sono realizzabili con il lavoro remunerato. Non si può pagare un infermiere per assistere «amorevolmente» un bambino o un ammalato. Non si può affidare la cura del patrimonio artistico e naturale a chi non sa valutare come insostituibili questi beni. L’etica del lavoro remunerato è, e non può essere diversamente, un’etica privata: chi lavora e fatica per una ricompensa è interessato al proprio benessere. L’etica del servizio civile è un’etica pubblica; è un lavoro fatto in vista del benessere della comunità.
Il servizio civile volontario pertanto, da un lato, consente alle energie sociali più consapevoli di superare la rigida divisione in ruoli imposta dalla divisione del lavoro e dalla organizzazione attuale della società industriale sia nella sua versione burocratica sia in quella capitalistica, d’altro lato, prefigura l’organizzazione di comunità autogovernate in cui gli uomini non siano finalmente più considerati come strumenti nelle mani del potere.
Guido Montani
* Si tratta di un opuscolo edito nel gennaio 1975 dalla G.F.E. lombarda, che si è fatta promotrice di una campagna per favorire e diffondere l’obiezione di coscienza e per l’organizzazione a livello regionale del servizio civile.