Anno XXII, 1980, Numero 1-2, Pagina 53
CRITICHE DELLA GFE DI MILANO
A UN SERVIZIO CIVILE EUROPEO OBBLIGATORIO
La recente pubblicazione dell’opuscolo elaborato dalla Commissione quadri del MFE, avente come tema il progetto di un servizio civile obbligatorio,[1] ha suscitato nella maggioranza della GFE milanese una serie di reazioni sfavorevoli alle idee-forza contenute in quel documento.
Le critiche al documento sono sostanzialmente due. La prima è la seguente: se il servizio civile europeo è visto come un mezzo per superare l’attuale stato di disgregazione esistente fra le giovani generazioni, disgregazione dovuta alla crisi irreversibile degli Stati nazionali, com’è che esso viene proposto per quando ci saranno già gli Stati Uniti d’Europa, cioè per quando sarà stata superata, anche se non ancora del tutto, la crisi stessa di questi Stati?
La seconda critica riguarda l’obbligatorietà del servizio civile europeo. Le obiezioni in questo caso sono sostanzialmente tre:
1) Qualsiasi tipo di prestazione obbligatoria da parte dei cittadini al servizio dello Stato, ad esclusione del pagamento delle imposte e, ovviamente, dell’osservanza delle leggi, diventa a nostro avviso unicamente un atto di coercizione esercitato nei confronti dei singoli individui da parte di un potere costituito. Allo stesso modo in cui siamo stati contro un servizio militare obbligatorio negli Stati nazionali, siamo ora contro il servizio civile obbligatorio nella Federazione europea. Si ritiene che lo svolgere il proprio quotidiano lavoro costituisca già per il cittadino un valido servizio reso alla società e alla propria comunità. Inoltre, certe attività di carattere civile (come anche attività di carattere militare) sono molto più «produttive» se prestate volontariamente anziché obbligatoriamente.
2) Respingiamo la tesi secondo la quale il servizio civile obbligatorio può far riacquistare ai giovani uno spirito comunitario e partecipativo. Infatti tale spirito si forma, quando ne esistano i presupposti, col passare degli anni e addirittura delle generazioni, mentre non può essere in alcun modo indotto dall’alto sanzionando l’obbligo di particolari prestazioni. Se la partecipazione alla vita comunitaria è oggi bassa nei nostri paesi, questo è dovuto anche al fatto che gli Enti locali hanno un’autonomia e una capacità d’intervento, nelle cose che li riguardano, limitatissime. Quasi tutto è concentrato (e bloccato) presso lo Stato centralizzato. In uno Stato federale la situazione sarebbe profondamente diversa: i cittadini, scorgendo maggiori possibilità reali di un loro intervento diretto nella gestione della cosa pubblica, parteciperebbero volontariamente, in misura considerevolmente superiore di quanto ora non avvenga. È questa la ragione per cui, ancora oggi, la vita comunitaria negli Stati Uniti d’America è molto più sentita di quanto non lo sia nell’Europa continentale; e questo senza bisogno di alcun servizio civile obbligatorio.
3) Secondo gli autori del documento sopraccitato, in un futuro non molto lontano, in Europa dovrebbero esserci ogni anno milioni di giovani arruolati nel servizio civile e per questo, s’intende, regolarmente pagati. Ma quale dovrà essere la spesa pubblica dello Stato federale europeo per permettersi il mantenimento di una tale «armata» permanente? Come affrontare, da parte degli Stati Uniti d’Europa una spesa che sarebbe onerosa anche per gli Stati Uniti d’America?
Queste sono le ragioni principali del rifiuto, della GFE milanese, di un servizio civile europeo obbligatorio. Che fare, quindi, al riguardo? Battersi, quando sarà il momento, per un esercito volontario europeo al fine di garantire unità e sicurezza all’Europa, creando il quadro entro il quale la stessa società civile potrà realizzarsi diversamente da come non sia oggi.
Milano, 20 dicembre 1979
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Le critiche della GFE di Milano alla proposta d’azione per un servizio civile europeo meritano l’attenzione del Movimento perché sollevano la questione del significato della lotta per l’unità europea e dei concetti di Stato e di governo — se quest’ultimo viene inteso nella sua accezione più vasta di complesso di istituzioni attraverso le quali i cittadini controllano e dirigono gli affari pubblici.
Delle due obiezioni sollevate, una strategica ed una di principio, vorrei cominciare dalla seconda, la più importante, perché nel momento in cui si fanno proposte tendenti a superare la crisi dello Stato e della solidarietà civile è legittimo cautelarsi contro la strumentalizzazione che di queste idee si è fatta nella recente storia europea.
A questo proposito occorre chiarire che non è possibile discutere del concetto di cittadinanza senza metterlo in relazione a quello di Stato e del processo di formazione della volontà generale. Purtroppo, il dibattito politico contemporaneo, che ha come unico riferimento il quadro nazionale, scambia come reale ciò che in verità è solo il risultato transeunte di un processo di degradazione delle istituzioni nazionali. Per questo non si ha più il coraggio di difendere lo spirito patriottico e il senso del dovere negli affari pubblici. Chi lo facesse, verrebbe nel migliore dei casi considerato un nostalgico del buon tempo antico. E in ciò vi è naturalmente una parte di vero per il fatto che, come noi federalisti non ci stanchiamo di ripetere, gli Stati nazionali — verso i quali si rivolgerebbe questo lealismo e questa devozione — non sono più il quadro istituzionale nel quale è pensabile un futuro di prosperità, libertà, giustizia e pace.
Ma questa contingenza non ci deve precludere una oggettiva discussione sui concetti di Stato e di cittadinanza, che sono nella loro essenza «una idea etica», come sosteneva Hegel, cioè istituzioni che gli uomini si danno per raggiungere degli scopi ideali comuni, il più elevato dei quali è la libertà di ogni singolo cittadino e della comunità nel suo insieme.
Attraverso le istituzioni e le leggi, lo Stato realizza la volontà generale, che è veramente tale — nel nostro secolo, dopo le esperienze totalitarie non vi sono più dubbi possibili — se perseguita con il metodo democratico, della libera discussione e della partecipazione popolare. Quando la volontà generale diventa legge, essa deve essere universalmente accettata e vale nei confronti di tutti. Il punto che ci riguarda, a questo proposito, è sapere quale valore diamo alle leggi e quale rapporto esse hanno con il processo di civilizzazione, cioè con il perfezionamento etico di ciascun individuo e della società.
So che su questo punto le opinioni sono ancora divergenti, ma se consideriamo senza pregiudizi la storia dell’umanità dalle sue lontane origini, credo si debba ammettere, insieme a Rousseau, Kant e Hegel, che lo Stato, in specie nella sua forma più recente dello Stato di diritto, ha rappresentato un immenso progresso civile rispetto alle società primitive, in cui regnava solo la legge del più forte e dove non si poteva nemmeno parlare di giustizia e di libertà. Non vi è dubbio che è solo con la legge, cioè con regole aventi valore universale, che si può sperare di affermare il diritto di tutti alla vita, alla giustizia e alla libertà. Il cittadino senza lo Stato non esiste. Quando manca lo Stato esistono solo individui isolati in lotta violenta fra di loro. Ma cittadini non si nasce. È lo Stato, e la società che già pratica le regole della convivenza civile, ad educare l’individuo in tutto il corso della sua vita a diventare un buon cittadino. «Ciò che l’uomo deve essere — ha scritto Hegel — egli non lo ha per istinto, ma deve prima acquistarselo. Su ciò, si fonda il diritto del figlio ad essere educato. Parimenti così è dei popoli». Il rapporto fra lo Stato e i cittadini non viene deciso una volta per tutte astrattamente. Le leggi rappresentano e realizzano le aspirazioni morali di un popolo. Ecco perché lo Stato è l’eticità concreta.
Ma se uno dei compiti dello Stato è quello di educare i membri della società a diventare buoni cittadini, allora bisogna anche ammettere che è necessario individuarne gli strumenti. Il buon cittadino è colui che non persegue solo il proprio interesse, che non pensa solo al proprio lavoro e tornaconto personale, ma cerca di assumersi la responsabilità di fare qualche cosa per gli altri, per la comunità, senza ricavarne benefici, in termini di potere o di danaro. L’impegno verso la comunità è la migliore e più efficace forma di educazione civica. «Il massimo dell’effetto corroborante della libertà sul carattere — non è un hegeliano di sinistra a scrivere così, ma il liberale J.S. Mill — si può ottenere solamente quando un individuo agisce come, o può diventare, un cittadino con altrettanti privilegi degli altri. Più importante ancora degli effetti sui suoi interessi, è la disciplina pratica che si esercita sul carattere con la domanda occasionale fatta ai cittadini di esercitare, a loro volta e per un certo tempo, qualche incarico pubblico. Non si valuta mai sufficientemente quanto poco vi sia nella vita quotidiana degli uomini per migliorare sia le loro cognizioni che i loro sentimenti. Il loro lavoro è routine; non un lavoro che si ama, ma di interesse nella sua forma elementare della soddisfazione dei bisogni quotidiani; né la cosa fatta, né il processo di lavorazione, consentono l’emergere di pensieri o sentimenti di portata sovra-individuale; se vi sono libri istruttivi alla loro portata, non vi è alcuno stimolo a leggerli; e in parecchi casi l’individuo non conosce alcuna persona di cultura superiore alla sua. Dandogli qualcosa da fare per la comunità, si superano, in una certa misura, tutti questi difetti. Se le circostanze gli consentono di accedere a un grado considerevole di doveri pubblici, esse lo trasformano in un uomo educato… Dove questa scuola di formazione di uno spirito pubblico non esiste, difficilmente si concepisce l’idea che il privato cittadino, se non in situazioni eccezionali, ha doveri verso la società, al di fuori di quelli di ubbidire la legge e di sottomettersi al governo… Da tutte queste considerazioni è evidente che il solo governo che può pienamente soddisfare tutte le esigenze di uno Stato popolare è quello in cui l’intero popolo partecipa; che ogni partecipazione, persino la più modesta funzione pubblica è utile; che la partecipazione dovrebbe ovunque essere altrettanto importante quanto lo consente il grado generale di sviluppo della comunità; e che nulla può essere più desiderabile, in ultima istanza, che l’accesso di tutti a una parte del potere sovrano dello Stato».
Queste considerazioni di J.S. Mill — che rappresentano ante litteram una critica alla società individualistica e consumistica; critica che la scuola sociologica di Francoforte ha reso popolare nel nostro secolo — mi sembrano decisive anche per esprimere un giudizio sulla opportunità di istituire un servizio civile obbligatorio in Europa. Il problema è quello di sapere se, da un lato, giudichiamo giusto, in linea di principio, educare ogni cittadino ad occuparsi della vita comunitaria e, dall’altro, se le condizioni storiche sono mature per questa battaglia politica.
Sul primo punto non vi possono essere dubbi. L’esperienza insegna che il lavoro e le occupazioni quotidiane non spingono gli individui a superare l’orizzonte fisico e culturale del proprio orticello. Se vogliamo una società più aperta, più responsabile, più capace di altruismo e patriottismo — che è la coscienza della identità della volontà individuale con quella generale — non si può fare a meno di obbligare tutti, almeno per un certo periodo della loro vita, ad occuparsi della comunità. Non si vede, d’altro canto, come questa idea si scosti significativamente da quella della istruzione obbligatoria, che si è già affermata nel secolo scorso. Anche in quel caso, lo Stato ha deciso che un individuo non poteva sottrarsi a un minimo di istruzione, perché senza quel minimo non avrebbe nemmeno potuto esercitare i suoi diritti di cittadino. La proposta del servizio civile non fa altro che completare questa fondamentale conquista democratica. L’educazione del cittadino si deve estendere alla pratica dei doveri pubblici. Le istituzioni statali, compresa la scuola, non devono trasmettere solo nozioni utili ai fini del lavoro, della professione e della vita di relazioni interindividuali. Bisogna che i giovani imparino a governare la comunità per far diventare lo Stato veramente la cosa di tutti. Non vi può essere vera democrazia se i cittadini sono chiamati solo a votare ogni quattro o cinque anni e poi affidano la gestione degli affari pubblici alla «classe politica». Lo steccato fra chi ha il potere e chi subisce il governo deve cadere. Nel secolo scorso si è affermata l’idea della democrazia e dello Stato rappresentativo, anche se le condizioni storiche hanno consentito la sopravvivenza del privilegio e del governo di pochi sulle masse. Spetta al nostro secolo e alla nostra generazione portare a compimento la lotta per la democrazia sostanziale e per la partecipazione di tutti al governo di tutti.
Si tratta ora di esaminare le basi storico-sociali di questa lotta, perché si potrebbe sempre obiettare che essa è forse giusta, ma che i tempi non sono ancora maturi.
Nel Movimento si è già discusso a lungo del significato della fine storica della lotta di classe e dell’affermazione delle condizioni materiali per la liberazione dell’individuo. Vorrei qui solo richiamarne un aspetto empirico che mi sembra di particolare interesse ai nostri fini. Si tratta della conquista del cosiddetto tempo libero, cioè di una sempre maggiore disponibilità di ore extra-lavorative. Questo fatto è dovuto a più circostanze, ma le principali sono: a) un allungamento della vita media, dovuto al progresso dell’igiene, della medicina e delle condizioni materiali di vita. Si è passati da una vita media di 35-40 anni nelle società pre-industriali agli attuali 75 anni; b) un aumento enorme della produttività del lavoro, grazie al progresso tecnico, che ha messo in grado le società avanzate di aumentare i propri standards di benessere dedicando sempre meno ore alla produzione materiale. Di fatto noi oggi assistiamo al dibattito sulla possibilità di arrivare a settimane lavorative di 35 ore e meno. Negli USA si è già giunti, in alcuni settori, alle 30 ore.
Ciò significa che l’umanità si sta progressivamente avvicinando al traguardo della eliminazione del lavoro penoso, o almeno di una sua drastica riduzione. Più tempo libero equivale a più libertà. Ma libertà per che fare? Oggi l’utilizzazione del tempo libero è ancora fortemente condizionata dai modelli di comportamento della società consumistica e massificante. Si passa il sabato a fare code sulle autostrade per arrivare ad un mare inquinato e si trascorre poi la domenica a fare nuove code per rientrare tutti in città. È evidente che i modelli di vita dovranno profondamente mutare se gli individui vorranno mettere davvero a frutto la loro nuova libertà.
Non si tratta qui certamente di suggerire illuministicamente modi alternativi di utilizzazione del proprio tempo. Questa scelta deve essere lasciata a ciascun individuo. Ma lo Stato si dovrebbe preoccupare di aumentare le occasioni di impegno sociale dei cittadini e di mostrare loro la via di una più perfetta educazione civile e morale. Si tratta in sostanza di far rinascere la vita di comunità, a tutti i livelli, che oggi, per infinite ragioni — l’urbanesimo disordinato, il culto degli affari e della vita privata, l’accentramento burocratico, ecc. — non esiste. La vera cultura è solo quella che coincide con la vita e che ha dunque come base essenziale la comunità, nelle sue forme istituzionali concrete. Nella società contemporanea, ad esempio, sono pochissimi gli adulti a praticare, anche solo come dilettanti, un’arte, sebbene quasi tutti, se interrogati, ammettono di aver posseduto in gioventù qualche propensione per questa o quell’attività artistica. È triste constatare come queste virtualità vengano presto spente dalle dure e monotone necessità quotidiane. Ma questo non è ormai più un destino ineluttabile. L’uomo può migliorare. Ma bisogna rifondare interamente le basi della nostra vita sociale. Bisogna educare i giovani al valore della vita comunitaria, perché lo stimolo più genuino alla cultura sono il desiderio e la volontà di «vivere insieme». La storia, la scienza e l’arte diventeranno allora gli strumenti naturali richiesti da una nuova società in cui ciascuno vorrà migliorare se stesso per godere dell’amicizia e della stima dei suoi concittadini.
Ma se la riduzione del tempo di lavoro aumenta le possibilità di sviluppo della vita comunitaria, vi sono altre ragioni che rendono necessaria una maggior coscienza delle responsabilità che spettano a ciascun cittadino. In effetti, la proposta del servizio civile si accompagna a quella di un giuramento del rispetto dei principi fondamentali della democrazia. Gli sviluppi della scienza e dei mezzi di produzione hanno messo nelle mani dell’uomo enormi possibilità di dominio, ma anche di autodistruzione. Nelle moderne società post-industriali la vita e la sopravvivenza di ciascuno dipende ormai strettamente dal senso di responsabilità e di civismo di tutti. Il dibattito attuale sulla sicurezza delle centrali nucleari tocca, per certi aspetti, anche questo problema. È vero, ad esempio, che una proliferazione di centrali nucleari aumenta le possibilità di sabotaggio da parte di qualche terrorista. Ma senza giungere a questi estremi si pensi al potere di ricatto che oggi possiedono certe categorie produttive come i piloti di aerei, i medici, ecc. È evidente che se si vuole affrontare il problema della programmazione democratica, cioè del controllo popolare del processo produttivo, è indispensabile chiedere ai cittadini più responsabilità, più rispetto per le decisioni prese in comune. Come ha scritto J.S. Mill, ad ogni grado di sviluppo materiale della società deve corrispondere un certo grado di partecipazione popolare al governo. Se è vero che ormai non è più possibile controllare lo sviluppo della società senza rafforzare gli strumenti della programmazione democratica, allora è anche vero che occorre superare l’egoismo e l’indifferenza all’interesse generale che dominano i comportamenti della quasi totalità delle forze produttive e dei cittadini.
Infine è necessario affrontare il problema della strategia federalista e del posto che occupa, in questo contesto, l’azione per un servizio civile europeo.
A questo proposito è bene ricordare, come ha chiarito Albertini nello stage di Pavia dello scorso settembre, che la Comunità, dopo l’elezione europea, ha cominciato ad esistere come Stato federale. E la recente votazione sul bilancio ha confermato che comincia a scatenarsi la lotta per il potere anche al livello europeo. Resta comunque vero che la Comunità è uno Stato debolissimo perché è ancora privo degli strumenti di governo fondamentali della «borsa e della spada». Ma su questo non è il caso di dilungarsi. Le nostre battaglie quotidiane nei confronti dei partiti e dei governi nazionali, oltre che dello stesso Parlamento europeo, mostrano che siamo convinti che è necessario battersi senza tregua per completare l’unità europea. Su questo la GFE di Milano ha perfettamente ragione: se non esiste il quadro politico entro il quale può essere garantita l’indipendenza e il governo degli europei, non si pone nemmeno il problema di una loro più piena partecipazione.
Ma il problema del governo, della sua autorità e della partecipazione non costituiscono dei compartimenti stagni. Il processo costituente in Europa è iniziato e la possibilità di avviare a soluzione i giganteschi problemi europei dipenderà in larga misura anche dalla possibilità di realizzare una programmazione democratica efficace. E ciò richiede, come si è detto, molta più coscienza democratica e responsabilità da parte di tutti i cittadini europei.
Per questo mi sembra importante sviluppare, a fianco delle nostre battaglie strategiche per la moneta e la difesa europea, anche quella per un nuovo modo di fare politica. Allo stage di Pavia si è detto che il Movimento deve cominciare a impegnarsi per «una nuova lotta politica e sociale», perché l’avvenire del federalismo e del Movimento dipendono ormai dalla nostra capacità di guardare al di là dell’Europa e di parlare ai giovani. Per un verso si tratta di approfondire l’aspetto di potere dei principali problemi mondiali e di saper indicare nella federazione europea il «modello» per la loro soluzione. Ma dall’altro occorre anche cercare di rinnovare la vita politica, perché oggi sono in crisi i partiti, le istituzioni pubbliche e lo Stato, intesi nella loro forma più immediata ed elementare di solidarietà fra i cittadini.
La proposta di un servizio civile obbligatorio può servire a provocare un salutare ripensamento del modo di fare politica. Tutti i giovani, quando si affacciano alla maggiore età, si pongono la domanda: «perché fare politica?», e a questa domanda noi federalisti dobbiamo e possiamo dare una risposta esauriente. Le vere motivazioni dell’agire politico sono morali. Ma purtroppo i giovani si trovano di fronte una realtà molto meno trasparente dei principi in cui credono. In un mondo ancora in lotta contro lo sfruttamento, l’ambizione e il privilegio non è raro che ci si imbatta in politici che sanno sin troppo bene combinare i propri interessi con il dovere pubblico. A ciò giustamente i giovani reagiscono. Anche per questo è scoppiata la stagione della contestazione e si sono formati partiti nuovi, fortemente critici verso quelli tradizionali. Ma questa non è stata la sola reazione alla corruzione dei politici. Una seconda frazione di giovani, certo la più numerosa, si è persa nel qualunquismo (compresa la sua espressione modernissima della dedizione alla droga). È infatti un luogo comune affermare che «la politica è una cosa sporca» e che è bene, per non sporcarsi le mani, dedicarsi onestamente e semplicemente al proprio lavoro. In questo modo si spengono infinite energie morali e si lascia che gli affari pubblici non sempre siano condotti dai migliori.
Io credo che compito dei federalisti sia quello di reagire vigorosamente a questa riduzione della politica all’affarismo e di mostrare — e lo facciamo già con il nostro impegno nel Movimento — che è possibile fare politica senza aspirare al danaro e al potere. Bisogna dare a tutti i cittadini la possibilità di sperimentare, almeno una volta nella propria vita, che cosa significa occuparsi disinteressatamente della propria comunità. Se venisse veramente istituito un servizio civile obbligatorio[2] non si può non pensare che ne traggano un grande vantaggio sia la vita pubblica in generale che i partiti in particolare, perché molto probabilmente i giovani faranno come prima loro esperienza militante quella del servizio civile e deve essere ben difficile continuare poi nel partito un’attività in contrasto con l’etica politica dominante.
A questa funzione di rinnovamento della vita pubblica non mi sembra risponda la proposta di un servizio civile volontario (o addirittura di nessun servizio civile). La società sa già organizzare una quantità di iniziative con finalità altamente etiche (si pensi alle istituzioni di assistenza religiose, alla Croce Rossa, ecc.) fondate sul volontarismo. Ma noi non predichiamo genericamente l’altruismo. Noi proponiamo una fondamentale riforma dello Stato: chiediamo che lo Stato educhi il cittadino alla partecipazione e alla democrazia perché non vogliamo lasciare il governo nelle mani di pochi politici professionisti e perché vogliamo che lo Stato diventi veramente la cosa di tutti.
Guido Montani
[1] Il documento è stato pubblicato a p. 234 del n. 3-4, 1979, de Il Federalista.
[2] Il servizio civile dovrebbe in linea di massima essere svolto gratuitamente; cosa del resto possibile almeno nella maggioranza dei casi, perché è presumibile che molti giovani intendano rendersi utili nella propria città. Per questo non si capisce l’obiezione degli amici di Milano quando sostengono che l’istituzione del servizio civile obbligatorio comporterebbe un aggravio intollerabile al pubblico bilancio. Al contrario, il servizio civile consentirebbe di ridurre notevolmente le spese pubbliche perché sostituirebbe al lavoro stipendiato, che si rende già oggi necessario per affrontare nel modo tradizionale la domanda emergente di nuovi servizi pubblici, il lavoro gratuito dei giovani.