Anno XXIII, 1981, Numero 3-4 Pagina 167
LA CRISI DELL’INTEGRAZIONE EUROPEA
E IL PROBLEMA DELLE ISTITUZIONI*
L’UEF ha preso in considerazione la crisi dell’integrazione europea, e, in questo contesto, le deliberazioni del 9 luglio del Parlamento europeo sul problema delle istituzioni. A questo riguardo, l’UEF osserva quanto segue.
1. — La crisi riguarda il processo di integrazione nella sua globalità. Alla base della crisi c’è il fallimento dei tentativi della Comunità di sviluppare, nel quadro dell’unione economico-monetaria, le politiche comuni indispensabili per garantire «uno sviluppo armonioso delle attività economiche nell’insieme della Comunità» (art. 2 del Trattato CEE). Le conseguenze di questo fallimento erano inevitabili. Il mancato sviluppo europeo ha fatto prevalere gli orientamenti nazionali, e questi orientamenti hanno provocato la divergenza crescente delle politiche economiche nazionali che è ormai giunta ad un punto nel quale fa arretrare giorno per giorno, anche sul piano psicologico, l’unità costruita negli anni ‘50 e ‘60.
La conclusione è chiara. Per uscire dalla crisi bisogna rafforzare la capacità d’azione della Comunità. Mettendo l’accento sul rafforzamento delle istituzioni, il Parlamento europeo ha dunque mostrato di aver compreso la natura della crisi, e di voler assumere il ruolo di federatore democratico che corrisponde al suo dovere e al suo diritto. Ciò vale, in particolare, per la decisione di elaborare un progetto di riforma della Comunità e di trasmetterlo ai competenti organi costituzionali di ciascun paese per la ratifica. È la procedura più efficace perché è la sola che permette di prendere in considerazione tutte le ipotesi, e di farle discutere apertamente da tutti — cittadini, forze politiche, sociali e culturali, sistema dell’informazione — senza riservare la prima elaborazione soltanto ai governi nazionali, a qualche funzionario e a pochi esperti. Non occorre sottolineare, d’altra parte, l’utilità di un grande dibattito sul ruolo dell’Europa per consentire all’opinione pubblica di orientarsi in modo positivo nelle presenti difficili circostanze.
2. — La Comunità non è stata rafforzata perché i governi nazionali hanno abbandonato in linea di fatto, tanto sul piano dei contenuti come su quello delle istituzioni, il metodo graduale di costruzione dell’Europa che aveva fatto buona prova negli anni ‘50 e, nonostante alcuni ostacoli, anche negli anni ‘60. Circa i contenuti è evidente che l’integrazione, dopo aver raggiunto il livello dell’unione doganale e dell’unione agricola, poteva avanzare solo sulla via dell’unione economico-monetaria; ed è altresì evidente che ciò richiedeva un progresso corrispondente sul piano delle istituzioni, in specie per quanto riguarda il potere esecutivo, quello legislativo e quello monetario. Ma questo progresso non c’è stato perché i governi hanno proprio tentato di avanzare senza rafforzare le istituzioni. Il risultato è davanti agli occhi di tutti. Il primo tentativo di unione economico-monetaria è fallito; e lo SME è fermo alla prima tappa, cioè ad uno stadio di sviluppo che i governi stessi si erano impegnati a superare, e che non basta, in ogni caso, per eliminare la divergenza, tuttora crescente, delle economie nazionali.
Ogni rilancio dell’Europa che ignori questi dati di fatto è destinato a fallire. Senza istituzioni capaci di gestire in modo equo, efficace e responsabile l’unione economico-monetaria, è fatale che i paesi ad economia forte si rifiutino di aumentare le risorse della Comunità per il timore che esse servano solo a finanziare gli errori dei paesi ad economia debole; e che, d’altra parte, i paesi ad economia debole, non potendo contare su vere politiche comuni, affrontino i loro maggiori problemi con prospettive nazionali invece che europee. Detto in altri termini, è fatale che l’Europa a due velocità abbia preso il posto di quella dell’integrazione. E in causa non è, come spesso si dice, la mancanza di volontà politica che ciascuno imputa agli altri, bensì la mancanza dei mezzi istituzionali per esprimerla. È evidente, per esempio, che nessuno si aspetterebbe cose come la formazione di una volontà politica francese (o italiana, o tedesca ecc.) e la capacità di governare l’economia francese se, al posto di un governo francese, ci fossero una «Commissione» francese che formula proposte, e un «Consiglio» dei ministri regionali che prende le decisioni. Ma quando si tratta dell’Europa sembra che quasi tutti perdano l’uso della ragione.
3. — Per analizzare nei suoi termini concreti il mancato sviluppo costituzionale bisogna in primo luogo tener presente che nel quadro della costruzione dell’Europa con il metodo graduale, l’accumulo iniziale del potere legislativo e di quello esecutivo nel Consiglio dei ministri era inevitabile, e non era antidemocratico. Era inevitabile perché, scartato il metodo costituente, non si poteva cominciare con decisioni democratiche europee, impossibili senza un potere costituzionale europeo; e non era antidemocratico perché nella prima fase dell’integrazione si trattava soprattutto di eseguire un programma di liberalizzazione degli scambi contenuto nel testo del Trattato, cioè di scelte già fatte al momento delle ratifiche parlamentari. Ciò detto, bisogna anche dire che il rispetto del metodo graduale avrebbe comportato, per le fasi successive, la formazione graduale di un potere esecutivo e di un potere legislativo distinti ed efficaci. Ma i governi nazionali, invece di sviluppare in questo senso la Commissione e il Parlamento, hanno preso iniziative del tutto estemporanee, che o lasciavano intatto il meccanismo di decisione iniziale o addirittura lo soffocavano, senza curarsi affatto di far crescere ciò che esisteva già.
I risultati di questa condotta priva di logica sono noti. La missione affidata a Tindemans è fallita. Il Consiglio europeo non ha trovato un ruolo preciso. L’unione è sempre un pio voto. E la Comunità funziona sempre peggio. Era inevitabile. Pretendere di governare il Mercato comune e di svilupparlo con un sistema di governo che concede l’ultima parola al Consiglio dei ministri, cioè ad un collegio che delibera in segreto e riunisce nelle sue mani il potere esecutivo e quello legislativo, come se fossimo ancora ai tempi dell’assolutismo, è un non senso. Al grado attuale di sviluppo l’Europa — quella della Comunità e quella del Consiglio europeo — deve ormai prendere decisioni molto importanti, e talora di estrema importanza, per il benessere e la sicurezza di tutti, e va da sé che nelle società libere decisioni di questo genere possono essere prese in modo valido ed efficace solo con il metodo democratico. Non tenere conto di ciò, e ignorare persino, quando si tratta delle istituzioni europee, tutto ciò che la ragione ha stabilito in materia di Governo dei sistemi politici durante l’intero corso della storia, è una follia, nella quale si casca solo per il rifiuto ingiustificato di sottoporre anche il caso europeo, come ogni altro caso umano, all’esame della ragione.
Il bilancio fallimentare degli anni ‘70 presenta un solo punto positivo: il riconoscimento del diritto di voto europeo. Ma il voto europeo è un punto di partenza, non un punto di arrivo. Esso darà i suoi frutti solo se, e solo quando, il Parlamento europeo avrà il potere di far corrispondere alla volontà degli elettori il governo della Comunità. Per ora esso è una grande cosa se viene usato per battersi per questo potere, una presa in giro degli elettori in ogni altro caso.
4. — Il criterio che vale per spiegare la crisi dell’integrazione vale anche per la ricerca della soluzione. Attualmente la Comunità può essere definita come un sistema federale di governo parlamentare imperfetto per i seguenti motivi. Il Parlamento può censurare la Commissione, ma questo controllo dell’esecutivo è imperfetto perché il Parlamento non ha l’ultima parola circa l’approvazione delle leggi e la formazione della Commissione. La Commissione può elaborare la politica della Comunità, ma questo potere è imperfetto perché è un potere di proposta al Consiglio, non di attuazione, e quindi obbliga la Commissione a proporre soluzioni accettabili da ognuno dei ministri del Consiglio invece che soluzioni adeguate alla natura dei problemi sul tappeto. In Consiglio ha il potere di difendere gli interessi vitali degli Stati membri, ma questo potere è imperfetto perché può essere esercitato solo con il veto, cioè con la paralisi dell’azione della Comunità.
Il fatto è che questo sistema, che sembra fatto apposta per non funzionare, aveva in realtà senso sia perché si trattava di fare un esperimento in condizioni particolari (periodo transitorio del Mercato comune), sia perché, in mancanza del voto europeo, la sola legittimazione democratica stava nel voto nazionale. Ma l’esperimento è stato fatto, ed il diritto di voto europeo è stato finalmente riconosciuto. Il sistema attuale ha dunque perduto la sua ragione d’essere, e può essere sviluppato solo correggendo i suoi difetti, cioè dando l’ultima parola al Parlamento in materia di approvazione delle leggi e di formazione dell’esecutivo, l’ultima parola alla Commissione in materia di elaborazione della politica della Comunità e trasformando il Consiglio dei ministri in una seconda Camera, la Camera delle nazioni, per salvaguardare gli interessi vitali delle nazioni senza bisogno del diritto di veto. In questo quadro il Consiglio europeo troverebbe un ruolo preciso assumendo il carattere di presidenza collegiale della Comunità. Ogni altra soluzione non sarebbe lo sviluppo di ciò che esiste già, e sarebbe, inoltre, puramente illusoria perché non esiste alcuna possibilità di sviluppare le politiche comuni e l’unione economico-monetaria con poteri imperfetti di governo, di controllo democratico e di salvaguardia delle nazioni, cioè con un sistema immobilizzato dal veto e dalla impossibilità di elaborare programmi coerenti ed efficaci.
Va ancora osservato, d’altra parte, che senza un vero governo del Mercato comune e dell’Unione economico-monetaria non si può fondare su basi certe l’ulteriore evoluzione della Comunità nei settori della politica estera e della difesa. A questo riguardo la soluzione ideale sarebbe un nuovo periodo transitorio con l’attribuzione alla Comunità del potere di guidare l’evoluzione, e con un diritto di veto degli Stati per questi settori sino al compimento della transizione. Ma risulterebbe efficace anche un programma più pragmatico e meno ambizioso perché sulla base di una salda unità economica e di una moneta europea, la cooperazione politica potrebbe fare certamente grandi progressi.
* In vista dell’inizio dei lavori della Commissione permanente per i problemi istituzionali del Parlamento europeo, il presidente dell’UEF Mario Albertini ha deciso di presentare al Comitato federale del 21 dicembre 1981 la proposta di risoluzione che pubblichiamo.