IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XXV, 1983, Numero 4, Pagina 148

 

 

LA STRATEGIA DELLA LOTTA PER LA
FEDERAZIONE EUROPEA*
 
 
In questa relazione non voglio soltanto fornire indicazioni sulle azioni concrete che dobbiamo svolgere in questa fase della nostra lotta, ma svolgere anche, nella prima parte di essa, alcune riflessioni di carattere storico-teorico sulla nostra strategia.
Punto di partenza di queste riflessioni è il fatto che il Parlamento europeo ha approvato il 14 settembre 1983 la Proposta di risoluzione sul contenuto del progetto preliminare di trattato che istituisce l’Unione europea. Poiché la redazione del progetto definitivo di Trattato, che avverrà nel prossimo febbraio, dovrà rispettare le indicazioni precise e articolate contenute in questo documento, c’è una forte probabilità, ma non ancora la certezza, perché colpi di mano sono ancora possibili, che le proposte sulla riforma delle istituzioni comunitarie votate il 14 settembre siano quelle con cui il Parlamento europeo si sottoporrà al giudizio degli elettori europei nel prossimo giugno e che presenterà quindi alla ratifica da parte degli organi nazionali competenti. Possiamo quindi giudicare se queste proposte rappresentano o meno un reale passo avanti verso la federazione europea. Credo che la risposta debba essere positiva.
Certamente, il progetto preliminare di Trattato contiene importanti elementi confederali, i quali sono costituiti soprattutto dal mantenimento di un diritto di veto decennale da parte dei governi nazionali (sia pure sotto la supervisione della Commissione) rispetto all’approvazione delle leggi dell’Unione, dalla necessità di una decisione unanime del Consiglio europeo perché l’Unione possa agire nel settore delle competenze potenziali (politica estera e di sicurezza), dalla struttura del Consiglio della Unione, che è composto di rappresentanze dei governi, invece che dei Parlamenti nazionali. D’altra parte vengono proposte le fondamentali innovazioni istituzionali rappresentate dal trasferimento del potere legislativo al Parlamento europeo, dalla trasformazione del Consiglio dei ministri in organo legislativo deliberante a maggioranza (salvo, per 10 anni, il caso di un interesse nazionale riconosciuto dalla Commissione), dal rafforzamento decisivo della funzione di governo europeo della Commissione, dal rafforzamento del potere di controllo del Parlamento europeo sulla Commissione, dall’ampliamento delle competenze economico-finanziarie della Comunità e dal trasferimento ad essa, in prospettiva, di quelle della politica estera e della difesa.
Pertanto, se l’esistenza dei sopraddetti limiti confederali (sostanzialmente inevitabili nell’attuale fase di sviluppo della Comunità) fa sì che lo sviluppo di una politica realmente europea non sarebbe garantito con certezza, la lotta in tale direzione partirebbe, sulla base delle previste innovazioni istituzionali, da condizioni incomparabilmente più avanzate. In un contesto caratterizzato da sfide interne e internazionali, che impongono in modo sempre più imperioso il completamento dell’integrazione europea, l’esistenza di un Parlamento europeo non solo eletto direttamente, ma con competenze legislative e con un più forte controllo sulla Commissione, renderebbe in effetti possibile mettere in moto, con ampie possibilità di successo e in tempi ravvicinati, la lotta per il superamento di fatto e di diritto degli aspetti confederali dell’Unione europea. In sostanza, dopo il progetto di statuto della Comunità politica europea, elaborato dall’Assemblea ad hoc nel 1953, ci troviamo nuovamente di fronte a un progetto di Unione europea, che, se entrasse in vigore, permetterebbe di lanciare una effettiva battaglia politica per la realizzazione di una federazione europea in senso pieno.
Ora, se si riflette bene su questo fatto, si impongono a mio avviso tre considerazioni sul processo di integrazione europea nel suo complesso e sul ruolo in esso svolto dai federalisti.
1. — Trova una conferma inequivocabile la tesi sostenuta da quella parte delle forze federaliste, la quale ha sempre sostenuto che proposte in grado di aprire realmente la strada verso la federazione europea non possono provenire dagli organi formati dai governi e dalle diplomazie nazionali, bensì soltanto dagli organi formati dai rappresentanti dell’opinione pubblica. Questa tesi si è sempre fondata sulla convinzione che, mentre negli organi di carattere intergovernativo si manifestano nel modo più vigoroso le resistenze nazionalistiche al trasferimento di poteri sostanziali ad organi soprannazionali con effettive caratteristiche federali, in una assemblea europea di carattere parlamentare queste resistenze sono strutturalmente meno forti poiché i rappresentanti diretti dell’opinione pubblica devono tenere più conto dell’orientamento della grande maggioranza degli europei, che, specialmente nei paesi dell’Europa continentale più colpiti dalla crisi storica dello Stato nazionale, è favorevole all’unità europea. Da qui appunto la proposta dell’assemblea costituente ad referendum, di una costituente cioè, che, sull’esempio della Convenzione di Filadelfia, elabora un progetto di costituzione che deve essere ratificato dagli organi costituzionali competenti degli Stati membri per entrare in vigore. La proposta di questo metodo, occorre precisare, non ha mai significato, se si analizzano bene gli argomenti dei suoi sostenitori più realisti, negare la necessità di un certo gradualismo nella costruzione della federazione europea — impresa certamente ben più difficile della costruzione della federazione nordamericana —, ma implica la convinzione che, se questa costruzione è affidata soltanto ai governi, essa non comincia mai, cioè si resta, sotto nomi diversi, sempre allo stadio confederale.
Sulla base di questo orientamento ci si è battuti, sia per la convocazione dell’Assemblea ad hoc, sia per l’elezione diretta del Parlamento europeo e l’assunzione da parte di esso di un ruolo di costituente permanente. Ed è un dato di fatto che solo da queste due assemblee sono emerse proposte istituzionali ispirate a un certo gradualismo, ma implicanti un reale avanzamento verso una federazione europea in senso pieno. Per contro tutte le proposte di carattere istituzionale prodotte con il metodo della cooperazione intergovernativa, l’ultima delle quali è rappresentata dalla Dichiarazione sull’Unione europea derivante dal Piano Genscher-Colombo, si sono ridotte in definitiva a una riconferma più o meno solenne delle esistenti strutture confederali della Comunità.
2. — Ogni volta che nel processo di integrazione europea sono emerse da parte degli organi comunitari proposte istituzionali di carattere autenticamente federale, ciò è stato possibile in misura decisiva grazie all’azione svolta dai federalisti. Ciò è evidente per quanto riguarda l’Assemblea ad hoc, la quale ha alla sua origine le proposte contenute in un memorandum di Spinelli a De Gasperi nell’estate del 1951 e quindi l’azione svolta dal MFE e dall’UEF a sostegno di tali proposte in quegli anni. E ciò è altrettanto evidente per quanto riguarda l’iniziativa costituzionale del Parlamento europeo.
A questo proposito occorre anzitutto ricordare che all’elezione diretta del Parlamento europeo non si sarebbe giunti senza l’azione dei federalisti, i quali dalla metà degli anni ‘60 non hanno cessato di rivendicare tale elezione con azioni di ampio respiro a livello dell’opinione pubblica e della classe politica ed hanno in tal modo realizzato una premessa indispensabile perché i governi decidessero a metà degli anni ‘70 di attuare l’elezione diretta e perché giungessero effettivamente a realizzarla nel 1979. Questo fatto è già di per sé estremamente importante se si tiene presente che proprio l’elezione diretta ha dato al Parlamento europeo — esattamente come avevano previsto i federalisti — la legittimazione popolare in mancanza della quale esso non avrebbe avuto alcuna base politica per assumere un ruolo costituente. E occorre sottolineare che, senza questa iniziativa, resa possibile dall’elezione diretta, di fronte all’attuale sempre più grave crisi della Comunità non sarebbe emersa alcuna reale prospettiva di rilancio e la Comunità sarebbe ormai ibernata. D’altronde lo stesso fatto che i governi, nonostante la paralisi dello sviluppo dell’integrazione e l’impossibilità di prendere decisioni valide a causa del principio dell’unanimità, non abbiano comunque il coraggio di abbandonare la costruzione europea è legato in misura determinante alla oggettiva difficoltà di chiamare al voto i cittadini europei presentando loro una Comunità in pieno disfacimento.
Al di là del decisivo ruolo federalista per la realizzazione dell’elezione diretta, occorre d’altra parte ricordare che anche la trasformazione della possibilità politica da parte del Parlamento europeo direttamente eletto di assumere un ruolo costituente in una effettiva iniziativa in tal senso è dipesa ancora in modo determinante dall’intervento dei federalisti. Anzitutto, è più che chiaro che senza la presenza di Spinelli nel Parlamento europeo questo non sarebbe giunto ad assumere un ruolo costituente e quindi la sua attività in tutta la prima legislatura dopo l’elezione diretta sarebbe stata praticamente nulla. In secondo luogo, i federalisti operanti al di fuori del Parlamento europeo hanno contribuito in modo decisivo allo sviluppo dell’iniziativa costituzionale attraverso i contatti con i parlamentari europei per stimolarli e per aiutarli sul piano della consulenza tecnica, la petizione per il governo europeo, la presenza a Strasburgo nei momenti più significativi dell’attività del Parlamento europeo, il lavoro con la stampa federalista e nei confronti della stampa in generale, e così via.
Questa constatazione sul decisivo ruolo federalista nei due casi in cui dal processo di integrazione è emersa una concreta possibilità di sviluppo verso la federazione europea conferma la validità dell’analisi del processo di integrazione funzionalistica che era stata elaborata da Spinelli all’inizio di questo processo e poi sviluppata soprattutto dai federalisti italiani. Secondo questa analisi (che viene qui ricostruita molto sinteticamente) i governi nazionali sono gli strumenti per giungere alla federazione europea, in quanto questa può nascere solo dalla decisione di governi democratici (cioè si esclude ogni forma di violenza dal basso, o da parte di uno Stato verso gli altri, come nel caso delle unificazioni egemoniche), ma sono nello stesso tempo gli ostacoli, poiché i governi sono portati, strutturalmente (soprattutto quelli dei paesi relativamente meno deboli o per i quali il fenomeno generale della crisi dello Stato nazionale si presenta in forma meno acuta), a opporsi alla cessione di parti sostanziali della loro sovranità ad organi soprannazionali (è un assioma della scienza politica, confermato da infiniti esempi storici, che il potere tende a perpetuarsi). Di conseguenza, quando la situazione storica — cioè la crisi profonda degli Stati nazionali, che ha fatto emergere il fattore «unirsi o perire» (Attlee) — ha imposto ai governi di avviarsi verso l’unificazione europea, essi hanno scelto l’impostazione funzionalistico-confederale, che permette la cooperazione europea senza rinunce definitive alla sovranità. In questa situazione l’unica possibilità che il processo di integrazione superi la fase funzionalistico-confederale è legata all’intervento in esso di un soggetto politico autonomo dai governi nazionali, e cioè di un movimento per la federazione europea che non si limiti ad applaudire le iniziative dei governi, ma che si proponga seriamente di superare i loro limiti confederali e che sia in grado nei momenti decisivi di spingere i governi a fare ciò che essi spontaneamente non farebbero.
3. — I federalisti sono in grado di svolgere questo ruolo se sanno inserirsi nelle contraddizioni prodotte dall’integrazione funzionalistico-confederale, allorché esse diventano mature, e se realizzano questo intervento non solo attraverso un’azione di lobby, o di consulenza politica, ma anche attraverso una diretta mobilitazione dell’opinione pubblica. Fin dall’avvio del processo di integrazione Spinelli aveva chiarito questo aspetto centrale della strategia federalista fornendo due indicazioni fondamentali.
Da una parte, i federalisti non devono stancarsi di denunciare di fronte all’opinione pubblica le illusioni funzionalistiche sullo sviluppo graduale e automatico dall’integrazione settoriale all’integrazione completa, e di rivendicare la costituente europea come metodo insostituibile per costruire una autentica unità europea. E solo in tal modo possono creare le premesse per svolgere un ruolo politico autonomo, per diventare cioè un soggetto politico autonomo dai governi. Dall’altra parte, devono sapere prontamente sfruttare le contraddizioni che l’integrazione funzionalistico-confederale è destinata inevitabilmente a produrre proprio perché, se essa corrisponde alla volontà dei governi di non giungere a effettivi e irrevocabili cessioni di sovranità, non dà però una risposta adeguata alla necessità insopprimibile di una vera unione europea.
Queste contraddizioni consistono fondamentalmente nel carattere antidemocratico dell’integrazione, che trasferisce importanti decisioni a livello europeo senza estendere a tale livello la sfera del controllo democratico, e nel carattere inevitabilmente precario e poco efficace dell’integrazione in tal modo realizzata, che rimane sempre subordinata ai veti nazionali ed entra in crisi ogni volta che si devono affrontare problemi di grande rilevanza (i quali toccano sempre interessi particolari nazionali). Allorché queste contraddizioni diventano mature e pongono i governi in difficoltà, si tratta di fare leva su di esse per strappare decisioni a favore della costituente, agendo in particolare sui governi di paesi relativamente più deboli, e quindi meno capaci di resistere alle pressioni federaliste, ma aventi la capacità di influenzare l’atteggiamento dei governi relativamente meno deboli.
Queste indicazioni strategiche furono applicate con successo all’epoca della battaglia per la Comunità politica europea negli anni ‘50. Come è noto, fu l’azione popolare per il patto federale e per la costituente che dette al MFE il peso indispensabile per diventare, con Spinelli, un interlocutore politico di De Gasperi. E fu quindi la prontezza con cui Spinelli seppe sfruttare la contraddizione, prodotta dall’integrazione funzionalistico-confederale in quella fase e consistente nella volontà di creare un esercito europeo senza uno Stato europeo, che gli permise di influenzare la condotta di De Gasperi e di ottenere che egli strappasse a Schuman e Adenauer la decisione di collegare la costruzione dell’esercito europeo con la creazione di una Comunità politica europea, la redazione del cui Statuto fu affidata (sempre sulla base delle indicazioni di Spinelli) all’Assemblea ad hoc. Il fatto che questa impresa fu alla fine sconfitta dal voto contrario del parlamento francese il 30 agosto 1954 non vuol dire che i federalisti avessero sbagliato, ma dipende semplicemente dal fatto che il successo di ogni impresa politica è legato, come insegna Machiavelli, per metà alla virtù e per metà alla fortuna. E questa fu allora avversa ai federalisti.
Queste indicazioni sono successivamente state applicate, finora con successo, nella battaglia per l’elezione diretta del Parlamento europeo e per il lancio da parte di esso dell’iniziativa costituzionale. L’elezione diretta è stata in effetti ottenuta sfruttando, con una vasta e prolungata azione a livello dell’opinione pubblica e della classe politica, sia la contraddizione (diventata matura verso la fine dell’unificazione doganale) dovuta all’assenza di controllo democratico sullo sviluppo dell’integrazione, sia il progressivo aggravarsi della crisi della Comunità (connessa con l’instabilità monetaria e la crisi economica mondiale) nel corso degli anni ‘70. L’azione federalista per l’elezione diretta fu guidata d’altra parte dalla convinzione che questa, pur non implicando automaticamente la trasformazione del Parlamento europeo in costituente, avrebbe fatto nascere una contraddizione più avanzata su cui far leva per poter raggiungere questo obiettivo. Questa contraddizione era individuata nel fatto che i partiti di orientamento europeistico avrebbero dovuto presentarsi alle elezioni con proposte di avanzamento dell’integrazione, la cui attuazione sarebbe stata sottoposta alla verifica da parte degli elettori in occasione delle seconde elezioni europee, ma che queste proposte avrebbero d’altro canto trovato un ostacolo insormontabile nell’inadeguatezza delle istituzioni comunitarie fondate sul diritto di veto nazionale.
Proprio questa contraddizione di fondo ha costituito la base dell’azione di Spinelli nel Parlamento europeo eletto direttamente, la quale azione ha trovato un sostegno soprattutto nei deputati dei paesi, come l’Italia, il Benelux e la RFdG, in cui le resistenze nazionalistiche all’unificazione europea sono meno forti. Egli ha dapprima partecipato in primo piano alla lotta per il rafforzamento del bilancio comunitario condotta dai parlamentari dei partiti e dei paesi di orientamento più europeistico per ottenere il rafforzamento, rivendicato nei loro programmi elettorali, delle politiche comuni. E questa lotta ha portato al rigetto nel 1979, per la prima volta da parte del Parlamento europeo, del bilancio. Allorché successivamente si è potuto constatare che il Consiglio dei ministri era in grado, nonostante l’attitudine battagliera del Parlamento europeo, di imporre in definitiva la sua volontà, Spinelli è riuscito a convincere un numero sufficiente di parlamentari che nel quadro dei Trattati vigenti progressi sostanziali dell’integrazione non sono più raggiungibili e che quindi era indispensabile un’iniziativa del Parlamento europeo per la rifondazione istituzionale della Comunità. Ha in tal modo avuto avvio l’iniziativa del Parlamento europeo, che, con il sostegno decisivo dell’UEF, è giunta fino al voto del 14 settembre 1983.
A questo punto si concludono le considerazioni di natura storico-teorica sulla strategia federalista e si tratta di definire, tenendo conto degli insegnamenti derivanti dall’esperienza precedente, le linee operative della strategia che dobbiamo attuare per condurre al successo finale l’iniziativa costituzionale del Parlamento europeo. Nel fare ciò dobbiamo essere pienamente consapevoli che il nostro ruolo sarà determinante.
 
Precisiamo anzitutto gli obiettivi che si devono, in successione temporale, raggiungere. A brevissimo termine si tratta di ottenere che il Parlamento europeo adotti nella prossima sessione di febbraio un progetto di Trattato nel quale i contenuti della risoluzione del 14 settembre non risultino indeboliti e che l’approvazione del progetto avvenga per lo meno con la maggioranza assoluta, al fine di rendere più forti le prospettive delle ratifiche nazionali. L’obiettivo a medio termine è evidentemente la ratifica nazionale del Trattato. L’obiettivo a lungo termine, che dipende ovviamente dal raggiungimento del secondo obiettivo, è il superamento degli aspetti confederali dell’Unione europea. È chiaro che per ora è utile soffermarsi solo sui due primi obiettivi.
Ai fini del raggiungimento del primo obiettivo occorre anzitutto intensificare l’azione di vigilanza sul Parlamento europeo che abbiamo esercitato fin dall’inizio della legislatura. La nostra pressione deve in questo caso riguardare sia il contenuto del Trattato, sia la presenza massiccia dei parlamentari favorevoli in occasione del voto di febbraio (si tenga presente che a settembre non si è ottenuto la maggioranza assoluta perché erano assenti circa 50 deputati italiani, tedeschi e del Benelux, che si possono considerare praticamente tutti favorevoli). A questo fine è importante far conoscere all’opinione pubblica il comportamento di voto dei parlamentari sulla riforma istituzionale e le loro assenze, come si è fatto in Italia con l’ultima «Nota sull’attività del Parlamento europeo», e far sapere che di questo comportamento i federalisti terranno conto nell’indirizzare il voto dei cittadini in occasione delle prossime elezioni europee.
Occorre d’altra parte proseguire l’azione di sostegno e di incoraggiamento dei parlamentari favorevoli. A tal fine vanno intensificati gli Euroforum e la raccolta delle petizioni per il governo europeo a livello individuale e degli Enti locali e delle associazioni e occorrerà inoltre organizzare una presenza massiccia dei federalisti a Strasburgo alla sessione di febbraio. Importanza decisiva avrà d’altra parte in questa fase l’approvazione, che i federalisti dovranno favorire in ogni modo, di risoluzioni da parte dei parlamenti dei paesi più europeisti (Italia, RFdG e Benelux, in particolare) a favore dell’iniziativa del Parlamento europeo per la rifondazione istituzionale della Comunità. Inoltre si dovrà cercare di ottenere prese di posizione in tal senso anche da parte dei governi più disponibili, utilizzando vari mezzi, tra cui quello di interrogazioni ai governi da parte di parlamentari nazionali amici dei federalisti.
Circa l’azione ben più impegnativa a favore delle ratifiche nazionali, occorre anzitutto chiarire le due condizioni preliminari perché l’azione abbia effettive chances di successo.
La prima condizione è che non occorra l’unanimità delle ratifiche. In mancanza di questa condizione l’Unione europea non potrà mai entrare in vigore, poiché la Danimarca sicuramente, assai probabilmente la Gran Bretagna e forse la Grecia e l’Irlanda non ratificherebbero il Trattato. Se invece il Parlamento europeo stabilirà il principio — che i federalisti hanno suggerito fin dall’inizio della sua iniziativa costituzionale, ricollegandosi al loro atteggiamento favorevole all’Europa a sei — per cui l’Unione entrerà in vigore fra gli Stati che ratificheranno il Trattato, purché questi siano in maggioranza (6 su 10 o 7 su 12 dopo l’allargamento a Spagna e Portogallo) e la somma delle loro popolazioni raggiunga i 2/3 di quella complessiva della Comunità, allora ci saranno reali possibilità di successo. In questo caso infatti basterà la ratifica da parte dei sei Stati fondatori (più uno se nel frattempo si sarà verificato l’allargamento a Spagna e Portogallo) per la costituzione dell’Unione europea, ma proprio per questo ci sarebbero forti probabilità che ad essa aderiscano anche gli altri Stati, i quali difficilmente avranno il coraggio di uscire dalla costruzione europea (trasformandosi in associati), se i loro partners saranno disposti a procedere anche senza di loro. Certo, essendo praticamente sicura la ratifica da parte dell’Italia, del Benelux e della RFdG, resterebbe sempre da superare l’ostacolo decisivo rappresentato dalle fortissime resistenze nazionalistiche esistenti in Francia, e ciò richiederà una battaglia durissima e incerta fino alla fine. Ma è chiaro che se a questo ostacolo si aggiungesse quello derivante dalla necessità di avere anche l’assenso dei restanti partners, la battaglia sarebbe perduta in partenza.
Ora, noi sappiamo che il Parlamento europeo è seriamente orientato a introdurre il suddetto principio nelle norme finali e transitorie del progetto di Trattato e dovremo pertanto sostenerlo e incoraggiarlo in questa direzione.
La seconda condizione indispensabile per il successo della battaglia per le ratifiche nazionali consiste nell’evitare in modo assoluto che il progetto di Trattato passi al vaglio del Consiglio dei ministri della Comunità prima di essere sottoposto alla ratifica degli organi nazionali costituzionalmente competenti. È evidente infatti che in questo caso il progetto sarebbe sottoposto alle procedure decisionali del Consiglio fondate sull’unanimità e la segretezza e quindi verrebbe insabbiato o svuotato di ogni contenuto innovatore, come è finora costantemente avvenuto (anche nel caso del progetto elaborato dall’Assemblea ad hoc). Ciò premesso, deve essere chiaro che il problema di evitare l’insabbiamento da parte del Consiglio è essenzialmente di natura politica e solo secondariamente di natura giuridico-procedurale.
In sostanza, il problema fondamentale che abbiamo di fronte è di ottenere che i governi dei cinque paesi più disponibili (Italia, RFdG e Benelux) recepiscano il progetto di Trattato, lo sottopongano alla ratifica degli organi competenti e, dopo averla ottenuta, premano sugli altri paesi perché facciano altrettanto, essendo chiaro (per le ragioni sopraddette) che il destinatario principale e immediato di queste pressioni dovrà essere il governo francese. Si tratta, è chiaro, di una operazione estremamente ardua, soprattutto nella fase della ratifica da parte francese, ma che comunque può contare sul fattore oggettivo favorevole costituito dalla sempre più grave crisi della Comunità, ormai vicina al collasso, e dell’impossibilità di superarla finché permangono le istituzioni fondate sul diritto di veto nazionale.
Gli aspetti giuridico-procedurali del problema di evitare l’insabbiamento da parte del Consiglio sono subordinati a questo problema politico di fondo. In proposito ci possono essere diverse alternative e lo stesso Parlamento europeo è ancora incerto e pure i federalisti devono ancora riflettere sulle indicazioni precise che devono fornirgli su questo tema. Ciò che è sicuro è che il Parlamento europeo deve trasmettere il progetto di Trattato non al Consiglio dei ministri, ma direttamente ai singoli governi con l’invito a sottoporlo alla ratifica degli organi competenti. E deve inoltre avviare effettivamente la battaglia per le ratifiche solo dopo che avrà ottenuto intorno ad esso un ampio consenso popolare e cioè dopo le elezioni europee del 1984.
Ciò precisato, è chiaro che l’azione federalista dovrà in questo periodo fornire al Parlamento europeo tutto il sostegno possibile affinché esso possa realizzare con successo la sopraddetta operazione politica. In questo quadro occorre distinguere fra una azione di sostegno diretto all’iniziativa del Parlamento europeo e un’azione di sostegno indiretto.
Per quanto riguarda il primo tipo di azione, il primo obiettivo da ottenere è che le elezioni europee del 1984 si trasformino effettivamente in un referendum pro o contro il Trattato sulla Unione europea e che l’esito del referendum sia positivo, in modo da raccogliere intorno al trattato il più ampio consenso popolare possibile. A tale scopo dobbiamo anzitutto chiedere al Parlamento europeo che lanci, prima di sciogliersi, un appello solenne alle forze politiche a inserire nei loro programmi elettorali il sostegno al Trattato e ai singoli candidati alle elezioni del 1984 a dichiarare pubblicamente tale sostegno. Ciò non solo contribuirà a far sì che la riforma istituzionale sia il tema centrale della campagna elettorale, ma permetterà attraverso il confronto fra le dichiarazioni preelettorali e i risultati delle elezioni, di stabilire in modo preciso le dimensioni del consenso popolare alla Unione europea. Per favorire questa operazione, i federalisti dovranno a loro volta inviare questionari a tutti i candidati, richiedenti una dichiarazione pro o contro il Trattato, e far sapere che dalla risposta ai questionari dipenderà la compilazione di liste «verdi» e liste «nere», che verranno diffuse in modo massiccio fra gli elettori (inserti sui giornali).
Oltre a ciò, i federalisti dovranno svolgere con il massimo impegno le azioni già previste, dirette a raccogliere il consenso delle forze politiche sociali e culturali intorno all’iniziativa del Parlamento europeo. Queste azioni sono: il Congresso dell’Europa per l’Unione europea di Bruxelles (che dovrà essere preceduto da assemblee a livello regionale e nazionale); i XV Stati generali del Consiglio dei comuni d’Europa; l’azione-frontiere; una vasta azione informativa degli elettori sull’esigenza della riforma istituzionale durante la campagna elettorale; una petizione popolare (che potrà essere sottoscritta dai singoli, dalle assemblee democratiche degli Enti locali, dagli organi delle associazioni politiche e culturali) a favore della ratifica del Trattato da indirizzare ai governi e ai parlamenti nazionali; una grande manifestazione a Strasburgo in occasione della sessione di apertura della seconda legislatura del Parlamento europeo eletto direttamente.
Per condurre in modo efficace questo insieme di azioni e coinvolgere in esse nuove energie, dovranno essere costituiti a livello locale nazionale ed europeo dei Comitati per l’Unione europea, i quali devono sostituire i vecchi Comitati per l’elezione europea. Questi comitati dovranno dopo le elezioni essere lo strumento organizzativo fondamentale della battaglia per le ratifiche nazionali del Trattato, la quale dovrà mirare anzitutto ad avere successo in Italia, Benelux e RFdG, per poi cimentarsi sul fronte decisivo della Francia.
Per quanto riguarda l’azione di sostegno indiretto al Trattato, si tratta in generale di insistere sul rafforzamento delle politiche comuni e quindi del bilancio comunitario, poiché è chiaro che chi viene convinto di questa necessità, dovrà prima o poi riconoscere che senza una riforma delle istituzioni comunitarie l’integrazione è destinata a regredire ulteriormente. Questo approccio ha una rilevanza particolare nella situazione francese. Qui infatti è per ora fortissima l’opposizione alla riforma istituzionale della Comunità, ma d’altro canto sta emergendo a livello governativo un orientamento favorevole al rafforzamento dello SME e delle politiche industriale e della ricerca, che deve essere favorito in tutti i modi (e qui gioca un ruolo essenziale l’atteggiamento del governo tedesco, specie in ordine allo SME, e quindi la capacità di pressione dei federalisti su di esso), poiché questo orientamento è destinato abbastanza presto a entrare in contraddizione con la persistenza di un meccanismo istituzionale comunitario che blocca ogni decisione importante.


* Si tratta del rapporto tenuto da Sergio Pistone al Convegno UEF di Landshut dell’11-12 novembre 1983.

 

 

 

 

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